Nel Medioevo fu Marco Polo col Milione a raccontare i viaggi nei territori asiatici, incastonando i racconti nelle pagine di un libro. Per ripercorrere i Mondiali di pallacanestro 2019, chiusi in Cina dopo un’avventura lunga 16 giorni, con la redazione di Crampi Sportivi usiamo delle più attuali cartoline digitali.
Sergio il Grande, statista sopraffino
(Roberto Gennari)
Alessandro III di Macedonia, meglio conosciuto dai più come Alessandro Magno, ci scuserà per l’irriverente paragone, ma in qualche modo dovevamo contestualizzare opportunamente quanto fatto da coach Scariolo in questo mondiale cinese appena concluso. Il secondo titolo iridato della Roja arriva non troppo atteso, perché è vero che il talento c’era, nei vari Llull, Claver, Fernandez, Hernangomez e soprattutto in Ricky Rubio e Marc Gasol, che infatti hanno giocato dei mondiali strepitosi, finendo entrambi nel primo quintetto. Però scariolo ha fatto sì che i suoi mettessero in pratica tutte quelle cose che in teoria sappiamo dire anche noi, nelle chat di WhatsApp in cui parliamo di basket, tipo che per vincere una finale mondiale contro l’Argentina bisognerebbe annullare Luis Scola e limitare al massimo Campazzo e Laprovittola. Facile, no?
Il tallone di Giannis
(Sebastiano Bucci)
Achille, come tutti sappiamo, era il prototipo del guerriero greco invincibile. Ma visto che nell’epos greco anche i semidei dovevano avere un istinto umano e che li facessi crollare, l’escamotage riservato all’eroe per far si che morisse giovane da rockstar ante-litteram fu quello di farlo immergere completamente dalla madre Teti nel fiume Stige, eccezion fatta per un tallone con con cui tenere l’imberbe guerriero.
Così come il suo illustre connazionale, Giannis ha provato a migliorare le poche cose migliorabili in una stagione che lo ha visto vincere da protagonista il titolo di Mvp portando una Grecia rabberciata all’appuntamento mondiale.
Il risultato è che la freccia che lo ha colpito sul tallone gigante è data dalle dimensioni ristrette del campo Fiba che ha notevolmente limitato la più incredibile attrazione di questo Mondiale: se Antentoukoumpo non riuscirà a costruire un tiro da tre credibile le scorie potranno riemergere successivamente e essere un grave impedimento alla gloria perpetua, fatta di grossi anelli da mettere sulle lunghe dita.
Colonel Patty Mills
(Gianluca Viscogliosi)
Ricordate Commando? No, non il capolavoro videoludico in 4 capitoli della Pyro che ha triturato – spero – i polpastrelli e le menti di chi legge. Ma il film in cui uno Schwarzenegger d’annata parte verso un ameno luogo tropicale per annientare ogni forma di vita umana nemica al fine, indovinate un po’, di salvare capra e cavoli. La scena fondamentale dell’opera, oltre alla spesa nel negozio d’armi, è la vestizione del nostro soldato. Uno scorrere incessante di piani stretti in cui si passa velocemente dalla stretta delle stringhe, alla marchiatura con pittura mimetica, passando per l’allaccio del giubbotto antiproiettile d’ordinanza. Il tutto condito con pugnali e lame diffusi, armi da fuoco come se piovesse e lanciarazzi tattico sulle spalle. Ecco, vedendo Patty Mills cambiare in difesa sui blocchi, uscire dal ricciolo alla velocità della luce e sbagliare praticamente l’1% delle scelte in campo, l’immagine del soldato in missione mi è tornata alla mente. Perché Mills non è stato semplicemente il miglior giocatore dell’Australia, né tantomeno la sua anima. E’ stato il basket, la manifestazione canguresca di quello che di meglio papà Naismith aveva pensato per il gioco. Un leader emotivo, un realizzatore implacabile e un costruttore di gioco semplicemente perfetto. Eroe costretto a soccombere solo alla furia spagnola e contro la diabolica box-and-one dello stregone Scariolo. Avranno individuato il tuo punto debole Patty, ma il tuo cuore Aussie non lo sfioreranno mai.
Motivational Mike
(Marco A. Munno)
Nell’Europeo del 2017, la Polonia vinse solamente una gara, contro l’Islanda. E nelle qualificazioni al Mondiale del 2019 si trovava non certo in una posizione di favore, con 4 sconfitte nelle prime 7 gare. Ottenere il biglietto per la Cina sembrava un miraggio per molti, ma non fu così: 5 vittorie consecutive e seconda qualificazione ad una Coppa del Mondo conquistata. Ma non è finita lì: perchè, con sostanzialmente lo stesso roster di due anni fa, i polacchi sono riusciti ad arrivare ai quarti di finale, fermati solo dalla Spagna poi campionessa. Gran merito dell’exploit di Ponitka e compagni va a coach Mike Taylor: con una serie di discorsi motivazionale ha infiammato i cuori e propiziato le gesta di una squadra andata ben oltre le sue possibilità, col cuore gettato oltre l’ostacolo sospinto da un incitamento dopo l’altro del suo timoniere.
Italbasket: siamo questi
(Giacomo Manini)
L’Italia ha vinto le 3 partite in cui era favorita e perso le 2 in cui era sfavorita. Mathieu Kassovitz direbbe “fino a qui tutto bene”, il problema è che ha mostrato i soliti difetti e ha lasciato i soliti rammarici. I rimpianti di un gruppo che non è mai del tutto al completo (peraltro come tutte le altre nazionali o quasi) e a cui manca sempre un pezzetto per completarsi. Il preolimpico per Tokyo, e l’eventuale partecipazione olimpica, saranno l’ultima chance di questo nucleo per fare qualcosa di memorabile in maglia azzurra. Contro i campioni del mondo spagnoli l’Italia era a +4 a 4 minuti dalla fine e da lì in poi si è impantanata. Riemergere dalla sabbia mobile spagnola o sprofondare e (verosimilmente) abbandonare questo ciclo: i protagonisti bene o male saranno gli stessi, sperando di avere un Melli in più e perché no magari anche un Mannion… siamo questi.
Bogdan Bogdanovic in DVD per tutte le scuole basket del mondo
(Roberto Gennari)
Ci pensavo durante la passata di cencio che ci ha dato la Serbia nella partita contro l’Italbasket del “minimo sindacale” (il virgolettato è di Meo Sacchetti): uno come Bogdan Bogdanovic andrebbe fatto vedere e rivedere in tutte le scuole di basket del mondo, perché il talento, è vero, non si insegna, ma di certo lo si affina, e vederlo giocare così, con quell’eleganza nei movimenti, quella meccanica di tiro, quella rapidità di esecuzione e quel movimento senza palla mi ha fatto sentire un po’ come quando sei a una festa ed arriva la più bella di tutte, e sai già che non ti degnerà di uno sguardo, ma comunque, anche solo a vederla da vicino, non ti è poi andata così male. Bogdan Bogdanovic come strumento didattico per affinare i cuori e gli IQ cestistici, facciamone una specie protetta, un patrimonio dell’UNESCO, un IGP, quello che vi pare, ma non lasciamo che vada perduto per sempre come lacrime nella pioggia.
Togli un posto a tavola
(Sebastiano Bucci)
Non siamo alle Olimpiadi: appurato, facile, istantaneo. Ma paradossalmente è proprio nel basket che la differenza e l’applicazione del motto decoubertiano “l’importante non è vincere, è partecipare”, trova un rovescio così clamoroso. Alle Olimpiadi andranno in 16, senza dubbio le migliori tra qualificate di diritto e chi si ritroverà nel simpatico gironcino infernale chiamato preolimpico. Al Mondiale sono andate in 32, nell’edizione più ingolfata della storia.
Risultato finale è che il livello generale ne ha risentito e non poco: vero è che la maggior globalizzazione ha portato maggior cassa di risonanza a livello globale, con la Nba a far da traino a quello che è oramai il secondo sport del pianeta per conoscenza e diffusione, ma è altrettanto vero che molte delle selezioni invitate hanno si portato share e audience ma risultati oltre il dilettantismo più bieco. Di contro almeno la formula, di per se cervellotica, ha portato a un equilibrio molto divertente, con parecchie sfide giocatasi sulla differenza canestri e dentro o fuori già dalla prima fase. Vediamo come e quanto la Fiba deciderà di usare questo format perché ok “esserci”, ma forse “esserci bene” sarebbe meglio.
La sinfonia del Maestro Tomas
(Gianluca Viscogliosi)
Dalla Cina al Giappone il passo è breve. E scandagliando nella complessa e labirintica grammatica nipponica, tra gli esempi dei verbi ichidan (quelli del primo gruppo) troveremo due simpaticissimi ideogrammi che, traslitterati con i nostri ameni e – diciamocelo – anonimi caratteri occidentali, danno vita alla parola SATORU. CAPIRE.
Una comprensione dell’attimo e del momento che Tomas Satoransky da Praga ha saputo sfruttare alla perfezione nel mondiale cinese. Una stagione regolare con i Washington Wizards di transizione e di preparazione all’exploit mondiale. Al di là delle cifre, degli assist e dei punti messi a referto, Satoransky è stato il meccanismo giusto nel contesto giusto, un’orchestra che ha suonato forse la sinfonia più corale di tutto il mondiale. La Repubblica Ceca è stata infatti la sorpresa e la squadra più forte nel sempre sottovalutato rapporto a tre aspettative-potenzialità-realizzazione. Tomas ha imbracciato il primo violino, si è messo in mezzo all’orchestra, toccando le corde giuste e aiutando i compagni a superare i passaggi più difficili. Grazie Maestro!

Calimero Ntilikina
(Marco A. Munno)
Immaginate di essere un prospetto a livello NBA, ma di essere scelto prima di giocatori subito diventati protagonisti come Derrick White, se non stelle come Donovan Mitchell. Immaginate di finire ai Knicks, la franchigia dalle mosse illogiche per eccellenza, e di vedere strozzata la propria crescita, patendo sempre di più il peso delle esagerate aspettative. Una sorta di Calimero cestistico, nel pagare colpe non esattamente sue in un debito che sembrava inestinguibile. Figurarsi quando gli si sono parati davanti i potenti usurai statunitesi: la débâcle rappresentava l’unico risultato immaginato. E invece, Frank ha deciso proprio in questa occasione di prendersi la sua rivincita: fra le varie stelle in campo, è proprio Calimero a mettere a segno i tiri più pesanti dell’intera gara e a regalare una delle singole affermazioni più importanti della propria storia alla sua Nazionale, vendicando finalmente ogni ingiustizia subita.
Che la Forza sia con Luis
(Giacomo Manini)
Luis Scola è un jedi. E’ il gran maestro dell’Argentina, grazie alla sua profonda sapienza cestistica ed enorme saggezza ha trascinato i suoi compagni ad un incredibile argento. A 39 anni si è caricato sulle spalle il peso offensivo, con circa il 40% da 3 nel mondiale (non male per uno che fino a 5 anni fa non tirava da oltre l’arco) dell’albiceleste insieme a Facundo Campazzo e ha elevato il supporting cast dei vari Vildoza, Delia, Deck. Ha letteralmente dominato la semifinale con 28 punti e 13 rimbalzi e l’opaca prestazione in finale è più che giustificabile. Luis Alberto Scola Balvoa fa bene allo sport e non dovrà mancare l’appuntamento con le Olimpiadi di Tokyo 2020. Quindi, squadre statunitensi, europee, sudamericane, all’ascolto: offrite un contratto a questo Jedi Master disposto ad allenarsi tutti i giorni per 4 mesi con sveglia alle 6 del mattino, a casa sua in campagna con 3 allenatori personali.
See you in Tokyo Luis e che la Forza sia con te.
Fottuti perdenti
(Claudio Pellecchia)
“Cosa mi ha detto coach Pop prima della partita? Che siamo una coppia di fottuti perdenti”.
Magari potrebbe bastare questa battuta (?) di Sasha Djordjevic per raccontare le grandi deluse, prima ancora che le grandi delusioni, di questo Mondiale. Magari potrebbe bastare ma non basta, perché per Stati Uniti e Serbia non ci si può fermare alla banalità del peggior risultato di sempre da quando i giocatori NBA sono stati dichiarati abili e arruolabili anche per le competizioni FIBA o a un quarto di finale deciso da 20 punti di Scola, 17 anni dopo la finale di Indianapolis persa contro la Jugoslavia con gli interessi finalmente restituiti.
Da una parte resta la ripetitività del “ciclo della vita” di Team Usa che di tanto in tanto quasi avverte la necessità di mostrarsi più vulnerabile di quanto sia in realtà per (ri)coinvolgere i grossi calibri nel progetto, soprattutto se in chiave olimpica e al netto della veridicità delle minacce di Jerry Colangelo; dall’altra l’inspiegabilità dell’eliminazione di chi, pigrizia di Jokic a parte, poteva contare su un Bogdan Bogdanovic in versione “Cruyff Mondiali 1974”. Forse, però, la semplice spiegazione al dualismo delle situazioni l’ha data Djordjevic quando ha detto che “la pressione mentale era enorme. L’euforia nel nostro paese, tutti ci chiamavano, non vedevano l’ora di guardarci giocare, scrivevano che eravamo i favoriti e che avremmo vinto. Questo non ci ha mai aiutato. Ora posso capire con che tipo di pressione stavano convivendo i giocatori. A volte pensiamo che siano leader solidi, esperti, ma poi vedi cosa gli passa per la testa…”.
In fondo è tutto qui, è sempre stato e sarà sempre tutto qui. La pressione, quella che Robert Horry diceva di non conoscere se non nell’accezione di ciò che causa problemi alle tubature, è la chiave; la pressione e la capacità di resistere alla stessa è ciò che fa ancora tutta la differenza del mondo, anzi di un Mondiale. Perché a volte una delusione ha una spiegazione molto semplice. Per quanto forte e predestinato possa essere chi ha deluso.


Lo sport raccontato dal divano, Zidane e Rodman a cena dal Professor Heidegger.