Abbiamo provato a rispondere ad alcune tra le domande più gettonate al bar, allo stadio o sul divano, dell’ultimo decennio di calcio
- Forse è ancora presto per dirlo, ma chi è stato il G.O.A.T. della decade?
Risponde Mattia Musio
Esiste un momento, nella storia di Lionel Messi, in cui si capisce quello che sta succedendo al calcio. E al nostro modo di guardarlo. È un gesto che nessuno nota in quanto gli occhi di tutti, manco a dirlo, sono concentrati su Leo, che esulta.
È la reazione di Samuel Eto’o, che ha appena assistito al gol di Messi contro il Getafe, quello del 2007 in cui si scarta metà squadra. Il numero 9 guarda Leo mettere finalmente la palla in rete e, correndo verso di lui, si mette le mani in testa.
Eto’o, che al Barcellona c’è da ormai tre anni e che fa parte del reparto offensivo titolare insieme a un certo Ronaldinho, si mette le mani in testa dopo aver assistito al gol di quel ragazzino.
Da quel momento cambia veramente tutto.
La consapevolezza di aver ricalcato con la carta carbone il gol di Maradona all’Inghilterra catapulta Leo in un’altra dimensione. Da quel giorno, e ormai per i successivi tredici anni, Messi ci fa mettere le mani in testa nel corso del novanta per cento delle partite che gioca. Per questo è lui l’MVP del decennio e non Cristiano Ronaldo. Se da una parte possiamo ammirare l’assoluta magnificenza dell’uomo che si arrampica per entrare nella casa di Dio, dall’altra c’è il Dio stesso. Nessun pallone schiantato in porta con potenza sovraumana, nessuna rovesciata in mezzo a dieci avversari, nessun colpo di testa colpito fluttuando in aria per secondi interminabili (per quanto meravigliosi) potrebbe restituire l’emozione di un tunnel improvviso, di un pallonetto che congela il portiere, di una finta di corpo che fa cadere l’avversario. Il perché è nella scintilla che rende possibile il gesto tecnico stesso: le mirabilie di Ronaldo sono frutto del fisico mitologico, della cocciutaggine della potenza. Quelle di Messi sono frutto dell’intuizione, di quella area del cervello che per tutti va a rallentatore tranne che per lui, durante quei novanta minuti.
Ronaldo è il simbolo di chi pensa che l’obbiettivo sia raggiungibile solo attraverso il duro lavoro.
Messi è ciò che controverte questa equazione, riducendo la fattibilità dell’obbiettivo ad una connessione neuronale più veloce del normale. Se ogni miliardo di esseri umani ne nasce uno che umano non è, noi siamo capitati nel momento giusto della storia per godercelo.
- Cosa sarebbe cambiato negli equilibri della Serie A se l’Inter avesse compiuto un rinnovamento lungimirante dopo il triplete?
Risponde Gabriele Anello
È una calda notte di tarda primavera: 22 maggio 2010. L’epicentro di tutto è Madrid, dove l’Inter ha appena festeggiato la conquista della terza Champions League della propria storia, la prima dopo 45 anni. In quella calda notte, però, nessuno probabilmente immagina come si stia consumando l’ultimo atto significativo dell’Inter sullo scenario internazionale.
È la notte dei gol di Milito. È la notte delle lacrime dei tifosi (e non solo, visto il siparietto Materazzi-Mourinho nel parcheggio del Bernabeu). È la notte della concretizzazione del Triplete, vinto l’anno prima dal Barcellona e che l’Inter trasformerà in un pokerissimo, aggiungendo la Supercoppa Italiana e la Coppa del Mondo per club (l’Atlético Madrid avrà la meglio in Supercoppa Europea).
Quello che però nessuno sembra aver realizzato è che la notte degli addii. Mourinho ha preso già un accordo con il Real Madrid; da lì a poche settimane, Balotelli saluterà i nerazzurri per tornare da Mancini, trasferendosi al Manchester City. In più, diversi comprimari – Arnautovic, Quaresma, Toldo e altri – lasceranno Appiano Gentile. Tuttavia, sono gli addii non consumati che lasceranno più strascichi.
In quei giorni dopo l’addio, Mourinho fa chiaramente due nomi per il suo nuovo Real Madrid: il portoghese vuole Milito e Maicon. Nella prima intervista ad “AS”, il tecnico loda il brasiliano, definendolo il miglior terzino destro del mondo, e al tempo stesso taccia i grandi club di “esser stati ciechi” di fronte al potenziale di Milito, che l’Inter prese dal Genoa assieme a Thiago Motta per quasi 40 milioni (tra i quali ci sono i cartellini di Bonucci, Meggiorini, Acquafresca, Bolzoni e Fatic).
Quanto sarebbe valsa un’operazione del genere? Probabilmente l’Inter avrebbe tirato su almeno un centinaio di milioni e avrebbe potuto ripartire da quelli. Ma in quel momento, persino il nuovo allenatore dell’Inter – Rafa Benitez, arrivato dopo un anno sabbatico – ritiene indispensabile tenere i due sotto il Duomo. Eppure, ripensandoci, non sarebbe stato forse meglio cedere alla tentazione?
Inutile dire che i due non hanno più toccato le vette di quella stagione, anche se il percorso per i due è stato diverso.
La sensazione facile è che sì, il destino dell’Inter sarebbe cambiato. E probabilmente sarebbe cambiato anche in meglio a lungo andare, perché l’aggrapparsi al passato in maniera cieca non è mai fonte di successo. Tuttavia, è una domanda che possiamo porci in maniera ipotetica e nulla più. Tutto ciò che rimane sono quelle lacrime, sotto il cielo di Madrid, di migliaia di tifosi nerazzurri.
Forse, ai tifosi più romantici, non interessa nemmeno porsi la domanda iniziale.
- È stata la decade della Roma americana. Come dobbiamo valutare nel complesso il lavoro svolto da Pallotta?
Risponde Matteo Munno
Gli ultimi dieci anni Roma sembrava Boston. O perlomeno così poteva diventare, in quel limbo fatto di ‘vorrei ma non posso’. Con l’arrivo di James Pallotta, a Trigoria si respirava aria di rivalsa, di rinascita. Un reboot della Marvel in sostanza: un universo dove nessuno muore mai, ma vede rimodulare il proprio ruolo. Proprio come negli Avengers, però, c’è stata una disintegrazione di tante cose: non c’era il guanto di Thanos ma c’era la voglia di rimettere in chiaro certi concetti, come Roma caput mundi.
Un qualcosa che Pallotta ha voluto rimarcare già nel logo: addio ASR, dentro la scritta ‘Roma’ che all’inizio faceva tanto maglietta taroccata sui banchetti del mercato – manco a dirlo – americano. Con Pallotta sono arrivati nuovi sponsor (Nike anyone?) e nuove idee, come il rilancio di un brand che non è più una squadra di calcio ma una way of life: il romanismo già esisteva, Pallotta lo ha reso forse più appetibile sul mercato. Disse che i tifosi non sapevano quanto fosse pazzo: in effetti per voler costruire uno stadio di proprietà in Italia ci vuole un pizzico di lucida follia.
Uno stadio diventata l’Atlantide per i tifosi romanisti: si fa, non si fa, nun se sa.
Si citava l’universo Marvel prima, con i suoi reboot: lo storico Capitan Roma lascia, e cambia ruolo. Poi lo strappo, con un’uscita di scena che fa ancora rumore. Con lui, nel tempo, si disgrega il core de Roma: via De Rossi, Florenzi pian piano in secondo piano, Ranieri non riesce a riprendere in mano la squadra. La speranza, oggi, si chiama Zaniolo, che è più o meno come il giovane Spiderman della serie degli Avengers: pieno di voglia di fare, scapestrato, ancora alla ricerca di una completa comprensione del suo potenziale. Mentre è in recupero dal suo infortunio, lo immaginiamo a legger fumetti, e capitare su un balloon in particolare: da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Con la speranza che da Thanos il buon Pallotta venga percepito come lo zio Ben, senza farne la stessa fine.
- Quella del 2017 è stata la peggior Nazionale della storia?
Risponde Luigi Di Maso
A livello di organico probabilmente non la più “scarsa” visto che se diamo un’occhiata alla formazione che si è giocata il playoff fatale contro la Svezia, non troviamo una linea di demarcazione netta tra la rosa scelta da Conte per gli Europei del 2016, e una parte dell’ossatura scelta da Mancini per quello che simpaticamente stiamo definendo il Rinascimento azzurro.
Quella del 2017 è stata sicuramente l’interpretazione teatrale più brutta e amara della Nazionale. Figlia di diversi fattori, e sì, in mezzo ci va anche l’elemento tecnico. Non un’eccellenza a livello internazionale quella formazione, ma come anticipato prima, parliamo di un deficit tecnico che ci portiamo avanti da parecchi anni.
Probabilmente la “peggior” Nazionale, passatemi il termine, l’abbiamo vista tra il 2010 e il 2015, nonostante una finale a EURO 2012 raggiunta grazie allo slancio di fenomeni come Pirlo, De Rossi e Buffon, il principio di solidità della BBC e gli sprazzi illuminanti di Balotelli e Cassano (gli ultimi). Insomma, l’esperienza del 2012 è stata più una congiunzione planetaria che un progetto a medio – lungo termine. Infatti, il Mondiale del 2014 non ha atteso molto per farcelo capire.
Di lì in poi buio pesto.
La mancata qualificazione al Mondiale è stata una sveglia che poteva tranquillamente suonare prima, se non fosse stato per il periodo illusorio con Antonio Conte che ha agito più da antidolorifico anziché da soluzione ai problemi strutturali.
Per chiudere, se una Nazionale come quella del 2017, o meglio, una Nazionale con la qualità media simile a quella dell’ultimo decennio la affidi a un allenatore con poca esperienza internazionale e un carisma da rivedere (Ventura), può tranquillamente diventare la peggiore della storia. E la potremmo definire proprio così, ma sarebbe ingiusto scaricare tutto questo peso su una selezione che pagava errori di programmazione compiuti in periodi precedenti.
Errori che la Nazionale ha subito anche indirettamente, perché il ricambio generazionale lo alimenti prima nelle giovanili e poi nel massimo campionato. O magari, come abbiamo visto negli ultimi mesi, non necessariamente in questo ordine.
Il futuro sembra più promettente di come potevamo ipotizzare alle ore 23 della sera del 13 novembre 2017.
- Come ha fatto la Juventus a instaurare una dittatura totale?
Risponde Luigi Di Maso
Rispondere “grazie ai soldi” sarebbe davvero banale quanto azzeccato, infatti il bello sta nel fatto che una delle risposte potrebbe essere proprio questa.
Risposta semplice, ma occhio a semplificare.
Bisogna vedere come lo fai il fatturato e come investi il denaro ricavato. Detta così sembra la cosa più facile del mondo, e invece è la più complessa, soprattutto nel mondo del calcio, dove la linea sottile tra un grosso errore e un’intuizione geniale e remunerativa è davvero sottile, oltre che volatile.
Nella stagione 2009 – 2009 la Juventus registrava un fatturato di 203.2 milioni di euro (praticamente meno della metà di quello dell’ultima stagione), poco più di 50 milioni superiore a quello della Roma, e circa 7 milioni in più di Inter e Milan che quella stagione chiudevano con la stessa cifra (196,5 milioni).
Una condizione di apparente equilibrio, quindi.
Anzi, in quel periodo i bianconeri iscrivevano all’almanacco del club i risultati peggiori della storia della società, mentre la Roma e l’Inter combattevano per lo scudetto (l’Inter poi vinse anche il triplete). Non vale quindi il discorso delle risorse sempre sbilanciate in favore della Juventus, ma di opportunità e programmazione da concretizzare anche quando i risultati del campo non aiutano.
Lo stadio di proprietà (un progetto che risale ai tempi di Moggi in dirigenza) è stato sicuramente quel boost che la Juventus ha saputo integrare nel progetto, mentre gli altri club si dimostravano miopi in materia.
Tra gli altri fattori ha inciso sicuramente la capacità di indovinare gli investimenti tecnici, non prima di commettere parecchi errori. Una volta avviato il dominio nazionale, la dirigenza juventina, in particolare nella persona di Beppe Marotta, ha optato per una strategia non banale: con i soldi compro i migliori giocatori, sì, ma in primis delle squadre rivali, così da indebolirli e creare un ulteriore senso di frustrazione accentuato già dal monopolio dei trofei casalinghi.
Gli uomini giusti poi, non servono solo in campo, ma in ogni livello gerarchico, per creare un’eccellenza sotto ogni aspetto.
Un approccio che in questo momento hanno interiorizzato in casa Inter e non è un caso che alcuni degli uomini scelti siano proprio quelli che hanno avviato la dittatura della Juventus. Insomma, quelli che sanno come si fa. Ovviamente servirà del tempo per avere conferme, ma appunto l’Inter sembra l’unica realtà che ha intrapreso la strada della lungimiranza aziendale.
Quando tutto va bene è facile continuare a fare scelte giuste, o anche nascondere meglio alcune difetti di fabbrica (non tutti i giocatori acquistati dalla Juventus si sono tramutati in plusvalenze di mercato, e nemmeno tutte le figure professionali hanno garantito la ricerca ossessiva dell’eccellenza). I motivi della “dittatura” risalgono soprattutto al periodo grigio, a quello meno recente, quando le cose non andavano per niente bene.
Poi, gli uomini e i giocatori dell’ultimo decennio hanno fatto il resto, e lo hanno fatto anche bene.
- Si può vincere tutto giocando bene?
Risponde Matteo Munno
La bellezza, per quanto possa sembra effimera, è importante. Come tante altre cose, però, è soggettiva. C’è chi trova del bello in un calcio vorticoso, chi in un calcio metodico e lento, chi in virtuosismi del singolo e chi in un movimento corale, come un’orchestra e il suo direttore.
In questa decade, più volte, si sono avvicendate storie in cui il bello era ‘solo’ e dove invece bello si traduce in collettività. Se giocar bene vuol dire giocare di squadra, allora sì, si può fare.
Citofonare Claudio Ranieri per chiarimenti: ma non suonate troppo forte, perché il sogno Leicester, di tanto in tanto, probabilmente si riaffaccia nella testa del testaccino. Se Claudio non dovesse rispondere, mi sento di suggerire Didier Deschamps, in testa al mondo con la Francia di Griezmann, Mbappé e Pavard. Sì, lui: l’inaspettato campione del mondo. Perché il bello del calcio è anche la sorpresa che regala qualche risultato.
- L’introduzione del VAR ha apportato un’innovazione di qualità nel calcio?
Risponde Gianluca Viscogliosi
Sì, ma ancora non ce ne accorgiamo. Soprattutto perché continuiamo a giudicare la tecnologia in sé confondendola con il suo utilizzo, quello sì, fallibile come lo è l’uomo, il tecnico, il calciatore, il fisioterapista o l’addetto che tira le linee del campo. Il Var ha costretto i difensori, ad esempio, a pensarci mille volte prima di intervenire in area di rigore con le mani larghe, oppure gli attaccanti a cercare meno il contatto con gli avversari per strappare falli o rigori. Non è però tutto rose e fiori, anzi. Probabilmente il più grande fallimento invece è stato rimandare il calcio indietro negli anni, in una sorta di oscurantismo comunicativo. “Era meglio quando si aveva il pretesto della svista”. Pensare alla categoria arbitrale come infallibile e perfetta è un errore radicato nel tifo, sempre più proteso alla giustificazione della sconfitta e della cattiva prestazione, e anche della stampa.
La tecnologia applicata al calcio è infatti diventato un campo di dialogo in cui si è perso di vista il gioco vero e proprio, iper frammentandolo e riducendolo a micro/mini episodi tutti degni – secondo esperti e tifosi – di revisione approfondita. Una chirurgia calcistica in piena regola.
E quindi timeline piene di fermoimmagine, rallenty e slo-mo da videomaker, mentre nei salotti tv si prova a capire e interpretare il protocollo che manovra da lontano il demone tecnologico. Accade così che si perda di vista il concetto di ‘tocco di mano’ oppure il fatto che il calcio sia e rimanga, fortunatamente, uno sport di contatto. Tutto è fallo, senza se e senza ma. Sul fuorigioco la briscola pesante l’ha messa poi sul tavolo Ceferin. “Verosimilmente chi ha il naso lungo potrà essere in offside. Serve tolleranza”. Un concetto che ha trovato poi il sostegno della Premier, un mercato che muove fior fior di quattrini e che sta portando avanti questa crociata contro il fuorigioco (e in parte il Var). E quando i quattrini chiamano, tendenzialmente le istituzioni rispondono.
E gli arbitri pagano. Sul campo, fuori e mediaticamente. Motivo? Perché serve tolleranza e un millimetro in più o in meno non può determinare un fuorigioco. Ne vale dello spettacolo! Lo sguardo va quindi al resto del mondo sportivo, dove un millimetro in più o in meno può determinare una pallina fuori su un ace o su una risposta di dritto; dove un millimetro in più o in meno può determinare un tiro da due o tre punti; dove un millimetro in più o in meno (convertibile temporalmente) può determinare una ruota di moto o di macchina più avanti o più indietro. Lì non c’è tolleranza e nessuno avrebbe mai neanche la malsana idea di invocarla. Ma il calcio, come sempre, fa storia a sé. E riscoprirci calcisticamente bigotti è l’aspetto più importante segnalato dal Var.
- De Laurentiis ha fatto il massimo possibile col Napoli o il suo lavoro bisogna considerarlo incompiuto?
Risponde Armando Fico
Il confine tra riconoscenza e ingratitudine nel calcio non è mai esistito. E mai esisterà. Lo sa bene questo Aurelio de Laurentiis, che da uomo di cinema coi confini ci gioca per professione: tra realtà e finzione, con un sogno di mezzo.
La gestione De Laurentiis può essere divisa in due tronconi: il primo, di programmazione e forte rilancio (dalla C alla prima Champions) ed il secondo, di crescita moderata e mantenimento (fino ai giorni nostri).
AdL purtroppo sarà ricordato soprattutto per questa seconda fase, nonostante le vittorie (oggettivamente poche rispetto al valore della rosa in sè), piazzamenti e risultati storici da almanacco calcistico.
Il motivo è semplice: troppo spesso è mancato quel guizzo, quell’intuizione, quell’azzardo che avrebbero potuto fare la differenza in alcuni momenti chiave della recente storia sportiva del club partenopeo.
Ma a rendere quella del Napoli una storia incompiuta, è stata soprattutto una dirigenza che ad un certo punto ha guardato al ritorno personale più che a rinsaldare fondamenta e strutture societarie. Come se avesse già lo sguardo rivolto altrove o preso altre strade.
Per capirlo fino in fondo, basta immaginare cosa lascerebbe in eredità AdL al prossimo proprietario: marchio e parco giocatori (salvo cessioni eccellenti, ovviamente). In altre parole, nulla.
E tutta la fragilità del progetto è deflagrata quest’anno, quando i risultati non sono stati più all’altezza del sogno venduto ai tifosi dal primo giorno.
Nemmeno più le narrazioni distopiche hanno aiutato: “lo scudetto del bilancio”, “i palloni della Serie C” o “la squadra della Grande Bellezza” si sono rivelate essere le giustificazioni all’assenza di un qualsiasi progetto sportivo.
Probabilmente, i sogni di Aurelio de Laurentiis e del Napoli non erano più gli stessi, da tempo.
- L’Atalanta può puntare a entrare tra le grandi della Serie A col suo progetto o è destinata a rimanere nella classe media?
Risponde Gianmarco Lotti
Girando sui social, addetti ai lavori o semplici tifosi hanno definito l’Atalanta come l’Udinese degli anni Dieci. Il paragone è semplicistico. Rispetto ai bianconeri la crescita complessiva dell’Atalanta è stata migliore, più impetuosa: per intendersi, lo stadio nuovo non è arrivato a ciclo finito e il ricambio di giocatori è stato ben differente. Entrambe hanno avuto un allenatore che ne ha condizionato e cambiato lo stile, anche se Gasperini a Bergamo è parso più innovativo di Guidolin a Udine.
L’Atalanta è destinata a durare e probabilmente a entrare tra le grandi, sebbene su questo punto si possa dibattere. Non ha attualmente la forza economica di Juventus o Inter, non ha quell’esperienza necessaria per stare in alto, ma può trasformarsi da ‘normale’ sorpresa a conferma. I presupposti per staccarsi dalla classe media ci sono tutti, specie in un periodo in cui la classe media è un blob grigio di squadre che alternano stagioni esaltanti a annate sul filo della retrocessione.
Cosa ha l’Atalanta più delle altre? Un progetto, parola vituperata nel calcio moderno ma che ben si sposa con la Dea. Il progetto è fuori dal campo: lo stadio nuovo in un ambiente passionale come Bergamo è la ciliegina sulla torta. La gestione Percassi ha saputo essere oculata e ha saputo puntare sugli uomini adatti, uno su tutte Giovanni Sartori, dirigente sottovalutatissimo.
Il progetto più visibile per un tifoso è quello tecnico, sul quale c’è un filo di dubbio in più. Gasperini è la persona giusta al momento giusto nel luogo giusto e coi giocatori giusti – giocatori che, per inciso, difficilmente vengono bocciati dopo una stagione ai margini, vedi Djimsiti o Freuler. Il calcio di Gasp ha travolto l’Italia ed è il più ‘europeo’ del nostro campionato, non a caso alla prima stagione in Champions ha fatto bene dopo un po’ di assestamento.
Il dubbio viene proprio dal legame tra Gasperini e l’Atalanta. La Dea continuerà – o meglio, continuerebbe – a giocare così anche in caso di addio di Gasp? O c’è il rischio di aver ‘personalizzato’ troppo la squadra sull’ex genoano? Da questa domanda potrebbe dipendere il vero futuro atalantino.
Perché sì, l’Atalanta può entrare tra le grandi, ma rimanerci sul lungo periodo c’è da sudare. I tifosi nerazzurri possono comunque contare su una delle dirigenze più sagge del nostro campionato e dormire un po’ più tranquilli.

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