Quasi tre anni fa ebbi la brillante idea di scrivere un articolo su Alejandro Valverde, il mio più grande eroe. Era da sempre uno dei miei ciclisti preferiti, ma nel 2016 aveva definitivamente conquistato il mio cuore, quando dopo quattro anni consecutivi passati sul podio della classifica UCI, e ad un’età in cui la maggior parte dei suoi colleghi si sono già ritirati o sono in una fase di assoluto declino, Valverde aveva sfiorato un’impresa per me impressionante, e della quale si era stranamente parlato pochissimo: concludere tutti e tre i Grandi Giri tra i primi dieci classificati. Chi c’era riuscito prima di lui (soltanto due corridori in tutta la storia: Raphael Géminiani nel 1955 e Gastone Nencini nel 1957) viveva un ciclismo di altri tempi, mentre al giorno d’oggi soltanto pensare di affrontare tre Grandi Giri nella stessa stagione è un incubo per qualsiasi ciclista che non si chiami Adam Hansen (che pure li ha portati a termine quasi sempre in centesima posizione, più per collezionismo che per reale agonismo). Alejandro invece ha concluso il Giro – che affrontava per la prima volta – al terzo posto e conquistando una tappa di alta montagna ad Andalo, il Tour – dove si era presentato da umile gregario di Nairo Quintana – al sesto posto, e nella Vuelta ha pagato una giornata di crisi sul Col d’Aubisque, prima della quale era al terzo posto in classifica generale e dopo la quale ha comunque tentato il recupero, risalendo dalla diciannovesima fino alla dodicesima posizione. Tutto questo in una stagione in cui ha vinto la Vuelta a Andalusia, la Vuelta a Castilla y Leon e la solita Freccia Vallone, è salito sul podio a San Sebastian, è entrato nei primi dieci alla Strade Bianche, ha fatto sesto al Lombardia. Una costanza del genere, lungo tutta la stagione, mi era sembrata davvero sovrumana.
Decisi di scrivergli perché non riuscivo a togliermi dalla testa le immagini del suo drammatico incidente. Vederlo scivolare verso l’esterno di quella curva a sinistra – l’asfalto bagnato, la sua tenuta da uomo dello spazio con sulla testa quel casco oblungo e pesante da cronoman – mi era sembrata una banalità, in diretta: una delle tante cadute stupide, un freno pinzato nel momento sbagliato o la ruota che calpesta una macchia di sporco; un piccolo errore che abbiamo fatto tutti da ragazzini. Una scivolata come tante, in slow-motion, nell’attesa del punto di impatto sul quale rimbalzare per poter subito ripartire scrollandosi la polvere di dosso.
Era il primo luglio del 2017. A Dusseldorf si correva il prologo del Tour de France. L’impatto, però, non potrebbe essere più sfortunato. Valverde colpisce in pieno una transenna con il ginocchio sinistro: l’urto è tale da piegare quel pezzo di ferro di cinque centimetri di diametro. La prima immagine che segue è dell’uomo dello spazio con le mani sul casco: accartocciato per terra, trascinato dai meccanici, grida disperato: «¡La rodilla, la rodilla!», e attorno a lui diverse persone spaventate non capiscono bene cosa sia successo.
La sua rotula sinistra si era spaccata in due nell’urto, e lo stesso pensai, devastato, della sua carriera.
Essendo il suo fan numero uno, ho iniziato a raccogliere materiale, a studiare il suo palmarès, ad elencare una dopo l’altra tutte le sue meraviglie. El imbatido aveva da poco superato il muro delle cento vittorie, una cosa incredibile per uno che non è un velocista. Ed ancora più incredibile considerando la qualità delle vittorie. A quel momento: quattro Liège-Bastogne-Liège (una classica monumento, una delle cinque corse in linea più importanti al mondo); cinque Freccia Vallone (di cui quattro consecutive, tanto che la corsa era stata rinominata in quegli anni “La Freccia Valverde” dagli addetti ai lavori); due Clasica San Sebastian; una Vuelta a España; quattordici tappe ed otto podi finali tra Giro, Tour e Vuelta; innumerevoli semiclassiche e vittorie di corse a tappe. Insomma, un mostro: gli mancava solo il Mondiale, al quale però in undici partecipazioni era entrato nove volte tra i primi dieci, e sei volte sul podio (due secondi e quattro terzi posti). Qualcosa di più di un mostro, a pensarci bene.
Ci ho messo settimane intere a svolgere l’articolo, che nel frattempo era diventato una monografia. Intanto, iniziava a girare voce che don Alejandro volesse tornare ad allenarsi. Ma figurati, con un ginocchio conciato così, ed a trentasette anni suonati (proprio come me, pensavo: però, che bella che è stata, per il ciclismo mondiale, quella primavera del 1980!). Impossibile che rientri. Io andavo avanti tranquillo col mio articolo definitivo, e dopo le vittorie ero passato ai podi. Erano circa duecentocinquanta, su meno di mille giorni di corse – una cosa pazzesca: questo riesce a salire sul podio in media una volta ogni quattro gare! Le voci di un suo rientro alle corse si facevano più fitte, così ho dovuto accelerare il mio lavoro. Ma non essendo uno che lavora bene sotto stress, ho iniziato ad andare in difficoltà e perdere colpi: l’articolo era ormai diventato un insopportabile trattato di cento pagine, una specie di saggio pieno zeppo di numeri (le volte che era finito tra i primi dieci? quasi cinquecento!), e nel frattempo avevo anche scoperto che i suoi anni da juniores erano ancora più strabilianti. A novembre, mentre io arrancavo cercando di ricordare quante volte avesse vinto l’UCI World Tour, Valverde postava un video mostrando al mondo dei quadricipiti agghiaccianti.
Era pronto a tornare davvero, ormai l’avevo capito. La mia enciclopedia valverdiana continuava ad essere fatta di giorno e disfatta di notte, iniziavo a non capirci più niente; intanto lui il 25 gennaio tornava a correre e già il 4 febbraio aveva aggiunto un-due-tre vittorie alla Volta a la Comunitat Valenciana. Dev’essere stato lì che ho perso un po’ il controllo. Mi sentivo frustrato: manco il tempo di sedermi a scrivere, che lui aveva già aggiornato il proprio ruolino di marcia. All’Abu Dhabi Tour, tappa più maglia nell’ultimo giorno: proprio senza alcun ritegno! Era diventata una questione personale, ed ho iniziato a pensare che lo facesse apposta, il signorino. Addirittura, a marzo stava quasi per rovinarmi la Strade Bianche, che era la mia gara preferita: quarto posto con una prestazione spettacolare! Io non riuscivo a stargli dietro neppure seduto al tavolino, non immaginavo neppure come facessero i suoi colleghi in bici. E devo dire la verità: quando alla Volta a Catalunya ha vinto due tappe, la classifica generale e pure la classifica scalatori, ha cominciato un po’ a starmi sulle palle.
E’ stata per me una stagione di intense sofferenze, quella del 2018: BalaVerde aveva vinto altre quattro gare in primavera, en passant, poi era passato per un Tour de France in cui fino a metà competizione era al terzo posto, dopodiché, falso come nessuno mai si era pure messo a fare il gregario per Mikel Landa! Alla Vuelta, poi, addirittura portava a casa due tappe e la maglia verde; e meno male che ad Andorra quei due ragazzini si erano messi d’impegno, altrimenti me lo ritrovavo pure sul podio di Madrid. Da allora lo odio. Nell’articolo originale, quello di un paio di cartelle, chiudevo con un appello al mio idolo: visto che alle corse non riesco mai ad avvicinarti, non è che l’autografo me lo potresti inviare, magari con una foto da appendere al muro? Gli avevo lasciato pure il mio numero Whatsapp. Al culmine della mia frustrazione adesso, mentre rodevo dalla rabbia perché questo vecchio, di ben quattro settimane più vecchio di me, continuava a fare sfaceli mentre io non riuscivo neanche a portare a termine un cazzo di articolo, mi appostavo in penombra alle sue corse sperando di potergli pestare un piede, almeno.
Ma il giorno peggiore di quella stagione, forse il giorno peggiore della mia vita, è stato il 30 settembre. Ad Innsbruck, Alejandro Valverde ha vinto la sua gara numero centoventidue: il Mondiale 2018. L’unica che gli era rimasta in canna per un’intera carriera. Così, mentre il mio pezzo andava definitivamente a rotoli, ero costretto anche a doverlo veder scorrazzare in giro per il mondo, per un anno intero, con la maglia iridata!
Ovviamente, il 2019 non è stato semplicemente un anno di passerella in maglia da campione del mondo per Valverde, come molti si aspettavano e come sarebbe stato lecito per un atleta di 39 anni che non ha più nulla da chiedere al proprio sport. Altre cinque vittorie per el rey de Murcia, tra cui una tappa (con podio finale!) alla Vuelta ed il campionato spagnolo (giusto per regalarsi un altro anno con una maglia personalizzata), più una serie di piazzamenti che è inutile elencare, tanto è ovvio che la sua ripetitività ha rotto le scatole anche a voi ormai.
Intanto, a Murcia era nata la Avenida Alejandro Valverde, e poco fuori città, sulle strade dei suoi allenamenti giovanili, una sua statua era stata eretta in cima alla collina. A rivederlo sul retro di una decappottabile, quindici mesi dopo quell’incidente, con sua moglie alla guida e i bambini seduti ai suoi lati, sul sedile destro anteriore la maglia iridata ed un’intera città intorno – non un paesino, una città di mezzo milione di persone: commossa e desiderosa di onorare il suo eroe – viene in mente un presidente o un papa: poco dopo sarà affacciato al balcone del municipio, a dire due parole di ringraziamento emozionato come un esordiente.
In altri tempi, sarei andato anch’io a Murcia per onorarlo. Ma non ora, non dopo quello che mi aveva fatto. Mesi e mesi di lavoro buttati via per la sua testardaggine, per il suo delirio di onnipotenza. E mi ero fatto l’idea che, sleale com’è, volesse anche provare a vincere l’Olimpiade quest’anno: meno male che è arrivato il virus ad impedirglielo! Nel 2021, a 41 anni, sarà ovviamente troppo tardi per lui.
Non vedo l’ora che vada in pensione, ‘sto stronzo.

In principio fu Saul Bellow. Poi arrivarono, disordinate in momenti di distrazione, le altre folgorazioni: Diablo & Pirata, Kurt & Eddie, Tondelli e Maradona, Carver e Djorkaeff. A vent’anni la diagnosi ufficiale: grafomania.
Romanziere per vocazione, scrivo anche di sport e di musica da quando ho capito che a farli non ero in grado.