Cattolica, tappa 5 del Giro d’Italia. Arrivo pianeggiante, per gli uomini di classifica è una giornata tranquilla. A pochi chilometri dal traguardo, uno spartitraffico viene segnalato da un uomo dell’organizzazione. Il gruppo arriva a più di 50km/h, fa un sobbalzo: quando passa oltre, quell’uomo non è più al suo posto, e a terra restano tre ragazzi doloranti. Qualche secondo col fiato in gola, prima di avere la certezza: l’uomo in rosso è proprio Mikel Landa. Un’altra volta.
Esistono atleti che, per motivi che non sempre dipendono dai risultati sportivi, entrano nell’immaginario collettivo in maniera più ampia e discostata, vanno a travalicare quelli che sono i propri meriti o anche gli stessi confini del loro sport, e finiscono per diventare altro: dei veri e propri miti per i propri tifosi, o altre volte i bersagli dei più facili scherni per i propri detrattori.
E’ questa in parte la storia di uno dei ciclisti più iconici degli ultimi anni, e probabilmente di tutti i tempi. Di certo, Mikel Landa è uno dei migliori grimpeur della sua generazione, e per tanti è di gran lunga il più forte scalatore puro (se questa definizione può ancora avere un senso) al mondo; eppure, non è esattamente per questo che, almeno finora, è passato alla storia. Per spiegare il landismo dobbiamo partire da lontano, e procedere con cautela, ché la cosa è complessa e piuttosto delicata. Potremmo aver bisogno di avvalerci di paragoni letterari, o di iperboli più o meno calzanti. Potremmo dire che un Landa che scatta in salita, alto sui pedali e mani basse sul manubrio, è bello quanto la prosa elegante di Gadda, per nulla concreta ma così suggestiva nel suo elevato ricordo di altri, migliori tempi. La sua ormai più che decennale esperienza da professionista ha subìto delle evoluzioni molto particolari: incredibili exploit, promesse grandiose, grandi passi falsi, aspettative deluse e di nuovo sorprese impensabili; sfortune indicibili che però, lo sappiamo bene, quando iniziano ad essere troppe suscitano una certa curiosità, e ad andarci a guardare un po’ più a fondo, si scopre che non sono proprio casuali – non tutte almeno.

Da un certo punto di vista, il landismo è sempre esistito: il vocabolo non era stato coniato prima dell’avvento di Mikel nel World Tour, certo, ma il concetto era, come dire, nell’aria da sempre – parte integrante della nostra vita quotidiana, pure. Ed anche sulla data della coniazione, non possiamo avere certezza: probabilmente, in un periodo indefinito tra il 2014 e il 2015. Non è da tutti avere un -ismo forgiato ad arte sul proprio cognome ed universalmente riconosciuto, ed il landismo sembra essere il non plus ultra in questo senso: è al tempo stesso filosofia e religione, arte e definizione del tutto, è per tanti versi l’essenza stessa del ciclismo. Tutto questo e molto di più, rappresenta Mikel Landa per chi segue il suo sport. Molti ultimamente, e specialmente dopo la disastrosa caduta di Cattolica mercoledì scorso, associano a Mikel la parola sfortuna, ma c’è molto, troppo altro dietro la sua storia per fermarsi alla prima semplice, ipocrita impressione. Noi procediamo con ordine.
Basco del 1989, è stato fino al 2013 una delle tante promesse del ciclismo spagnolo: in seno alla grande Euskaltel (in quegli anni di apprendistato, i suoi capitani erano Samuel Sanchez, Mikel Nieve, Ion Izagirre, Igor Anton) si era fatto notare per una vittoria alla Vuelta a Burgos e poi in varie tappe di montagna, specialmente alla Vuelta a España del 2013. Il primo vero salto di qualità arriva nel 2014, col passaggio all’Astana di Nibali, Fuglsang, Scarponi e dell’altra giovane promessa – dal versante italiano – di quegli anni, Fabio Aru. E già al primo anno tra i kazaki viene fuori una piccola stranezza (un primo assaggio di landismo? che sia stato Martinelli a vederci lungo?): è proprio come gregario del sardo che Landa viene utilizzato in azzurro, anche se i due hanno caratteristiche piuttosto simili di scalatore non specialista a crono, sono coetanei (anzi, Aru è di sei mesi più giovane di lui) e di fatto non danno alcuna vera garanzia, almeno a livello di Grand Tour. Eppure le gerarchie sono molto chiare: sia al Giro che alla Vuelta Aru è capitano unico, e Landa lo aiuta a raggiungere un grandissimo podio in Italia, ed un quasi altrettanto interessante quinto posto in Spagna. Il primo vero pasticciaccio arriva al Giro del 2015: contro un Contador in grandissima forma, l’Astana punta tutto su Aru, anche se da un certo punto in poi diventa chiaro a tutti che tra i due il più forte è proprio Landa: l’alavés vince a Madonna di Campiglio e si ripete il giorno dopo nell’arrivo di Aprica dimostrando di essere in salita il più forte di tutti – forse più forte di Contador, sicuramente più di Aru (lo schema in corsa ricorda un po’ il Froome-Wiggins di Peyragudes 2012). Di fatto però, avendo perso più di quattro minuti nella cronometro di Valdobbiadene diventa impossibile attaccare il primo posto di Contador, e in casa Astana si decide comunque di puntare su Aru per il secondo posto: a Cervinia viene lanciato l’italiano all’attacco e Landa resta a marcare Contador, mentre a Sestriere, quando il madrileno lascia ormai andare i due che non possono più impensierirlo in classifica, è di nuovo ad Aru che viene lasciata la vittoria di tappa. E’ in questo periodo che inizia a comparire per le prime volte l’hashtag #FreeLanda, che al momento sembra uno scherzo ma a breve non sarà più tale.
Il Landa di questo periodo assomiglia, mi si perdoni il paragone un po’ azzardato, al Pantani dei primi tempi. Grezzo, poco scavato tatticamente, negato nelle prove a cronometro, devastante quando attacca in salita, raramente vincente. Alla Vuelta, tre mesi dopo, il problema della competizione interna viene risolto a monte: Landa esce subito di classifica così da non creare conflitti col capitano. A Cortal d’Encamp dimostra ancora una volta di essere il più forte quando la strada sale, ma per il resto fa egregiamente il suo dovere di gregario. Le decisioni della squadra alla fine sembrano essere perfette, evidentemente era corretto credere che il sardo dava più garanzie in quanto a solidità: Aru va a vincere la corsa con la fantastica imboscata a Dumoulin verso Cercedilla, e Landa sceglie di lasciare la squadra a fine stagione.
La scelta del nuovo team è difficile da comprendere, e quindi totalmente landista: Mikel va agli inglesi del Team Sky, dove per i grandi giri sono già presenti Froome e Thomas. Sembra aver accettato e sposato la causa del gregariato, ma al Giro 2016 gli viene offerta una grande chance da capitano unico, la prima della carriera. Arriva in Italia in grandissima forma, e due settimane prima della corsa rosa va a vincere il Giro del Trentino. Il Giro presenta due crono brevi (una delle quali in salita), e nell’unica più lunga, 40km nel Chianti alla nona tappa, Mikel si difende benissimo. Nella successiva giornata di riposo, in casa Sky si festeggia: Landa viene fotografato sorridente davanti ad una grigliata. Il giorno dopo l’improvviso ritiro: un virus gastrointestinale lo ha colpito durante la notte.
Si va avanti, bisogna aiutare Chris Froome a vincere il terzo Tour de France. Nemmeno un mese più tardi, Mikel gli fa da primo gregario prima al Criterium Dauphiné e poi al Tour, dove mostra una forma spettacolare: ovviamente, Chris vince entrambe le gare, e buona parte del merito va al suo gregario di lusso. In particolare, le due tappe che vanno a Vaujany e a Méribel sono due capolavori del basco. Tra il serio e il faceto, io scrivo un tweet un po’ provocatorio in cui dico che è il gregario più forte al mondo. Uno dei tre like (i miei numeri sui social sono grossi, sì) è proprio di Mikel: ha capito e accettato lo sfottò, o gradito il complimento? Sono cinque anni che convivo col dubbio.
Giro 2017, la Sky si presenta con Geraint Thomas insieme a Mikel Landa. Al Tour of the Alps è stato il gallese a vincere la classifica generale, ma la sua durata sulle tre settimane non è una garanzia, e si decide di partire col doppio capitano. Tutto perfetto per una settimana: i due sono in ottima posizione in classifica, ma alla prima salita importante sul Blockhaus arriva l’imprevisto: una moto della polizia è ferma alla sinistra della carreggiata, e viene colpita da alcuni corridori. Indovinate un po’ chi è tra i pochi che centrano la moto?
Mikel esce di classifica a causa di questo incidente, ma tanto per cambiare nell’ultima settimana sfoggia una forma incredibile, giusto per chiarire chi era lo scalatore più forte: tappa 19 vinta a Piancavallo, e maglia azzurra di miglior scalatore a Milano.
Al Tour del 2017 si ripresenta per fare da gregario a Froome, ed è in forma talmente splendente da riuscire a rimanere tra le primissime posizioni di classifica. La sua escalation è entusiasmante: nono, settimo, quinto, quarto; nella crono finale di Marsiglia deve recuperare in ventidue chilometri un minuto e tredici secondi (non poco, c’è bisogno di una prestazione eccezionale!) a Bardet per conquistare il podio a Parigi. La crono è spettacolare, probabilmente la migliore della sua carriera: a Bardet riesce a recuperare… un minuto e dodici secondi! Apoteosi del landismo: perdere il podio per un solo secondo.
E’ tempo per Mikel di cambiare di nuovo aria. Non è ben chiaro se il ruolo di eterno gregario sia soddisfacente per lui, o se in cuor suo nutra ambizioni da capitano. Di fatto, passa di nuovo ad una squadra con due capitani piuttosto ingombranti: torna in Spagna, alla Movistar di Valverde e Quintana. Alla cena di fine anno della Sky, un Landa con un evidente tasso alcolico importante si lascia andare e strizza l’occhio al tormentone che lo persegue da ormai due anni. Ha deciso finalmente di puntare al grande obiettivo?
Il 2018 è all’insegna delle corse a tappe più brevi. Mikel centra una vittoria di tappa alla Tirreno-Adriatico ed un ottimo secondo posto alla corsa di casa, il Giro dei Paesi Baschi. Al Tour si presentano tutti e tre i capitani, portando avanti di fatto una gara senza alcun senso tattico e con risultati poco soddisfacenti per tutti (Landa è comunque il migliore dei suoi, settimo a Parigi).
Al Giro del 2019 si scrive uno dei capitoli più intensi del landismo. Mikel parte come capitano, con Richard Carapaz in teoria come gregario. Qualcosa di strano però inizia ad accadere già alla quarta tappa: Carapaz vince a Frascati ed entra in classifica scavalcando Landa. Di lì in poi, i due grandi antagonisti Nibali e Roglic iniziano una guerra psicologica che tiene la gara bloccata, e della quale finirà per approfittare di nuovo Carapaz. L’ecuadoregno va in rosa alla quattordicesima tappa, e di lì in poi Landa, come sempre il più solido di tutti in salita, non può più ovviamente attaccare. Riesce a salire dalla quinta alla quarta posizione, e quando Roglic alla penultima tappa perde un minuto Mikel sale sul terzo gradino del podio. Di nuovo, un’ultima tappa a cronometro: a Verona sono 17 i chilometri contro il tempo, e di nuovo Mikel viene spodestato all’ultimo momento. Stavolta sono otto, i secondi che lo escludono dal podio. Ma soprattutto, il landismo è anche questo: partire come capitano e vedere un tuo gregario vincere il Giro.
Al Tour, stessa storia dell’anno precedente, con tre capitani che non riescono ad esprimersi al meglio, e per Landa arriva un altro posto in top ten (sesto, di nuovo il migliore in casa Movistar).
Due anni sono passati, è di nuovo tempo di cambiare casacca. La nuova squadra, la Bahrain, sembra finalmente disposta a dargli una possibilità da capitano unico al Tour del 2020. Un’altra grande dimostrazione di landismo arriva presto: Landa arriva con altissime aspettative ed un’ottima squadra al seguito alla Grande Boucle, mette i suoi subito davanti a tirare tutto il giorno, e poi quando arriva il momento di attaccare viene meno. Si stacca. Il giorno dopo prova ad attaccare, ma viene subito ripreso: alla fine non riesce ad andare oltre un quarto posto (di nuovo!), e le speranze sono rimandate al Giro 2021. Come sono andate le cose quest’anno l’abbiamo visto. Il Landa a terra di Cattolica è l’Estratega di Mutis, che colpito a morte sul campo di battaglia ci insegna quanto sia bella, e semplice, la vita: il giorno prima, nella quarta tappa, c’era stato un altro, ultimo assaggio di landismo: una volta ancora, salendo verso Sestola, chi ha infiammato la corsa è stato lui. Il più atteso, quello che fa saltare più appassionati dal divano.
E’ questo il landismo, alla fine dei conti. Dovesse vincere davvero un Giro, o un Tour, non sarebbe la solita vittoria di chi è abituato, di chi ha calcolato tutto fin nei minimi dettagli. Sarebbe una questione storica come lo scudetto del Napoli di Maradona, ce lo immaginiamo lì sul podio ad occhi chiusi, testa bassa e pugno guantato in alto; sarebbe un sogno diventato realtà, ma i sogni, lo sappiamo, il più delle volte sono destinati a restare tali. Mikel Landa è, in questo senso, la vera essenza del ciclismo, ciò che distingue questo sport da qualsiasi altro: è l’attesa, è l’emozione, e riesce a far diventare la vittoria una cosa secondaria. Noi che guardiamo le gare in cui Landa è presente siamo Didi, o Gogo, e stiamo aspettando da sempre il suo grande colpo. Ma a dirla tutta non ci importa veramente se alla fine arriverà o meno: nei nostri cuori è gia arrivato, da sempre.

In principio fu Saul Bellow. Poi arrivarono, disordinate in momenti di distrazione, le altre folgorazioni: Diablo & Pirata, Kurt & Eddie, Tondelli e Maradona, Carver e Djorkaeff. A vent’anni la diagnosi ufficiale: grafomania.
Romanziere per vocazione, scrivo anche di sport e di musica da quando ho capito che a farli non ero in grado.