Belfast Boy. Una narrazione anti-epica e sincera su George Best

Stefano Friani scrive benissimo. Partiamo da questa sviolinata per mettere un punto: leggere ‘Belfast Boy’ (Milieu Edizioni) forse è più utile per chi non ne sa di calcio.

Chi è già avvezzo al mondo del football sa benissimo chi è stato George Best e probabilmente è già assuefatto da decenni di narrazioni sull’asso nord-irlandese. Chi invece non ha idea di chi sia George Best, credo poche persone, leggendo ‘Belfast Boy’ non ha davanti a sé soltanto il racconto di un calciatore. Ha il racconto di un uomo che ha vissuto in mille mondi, dominandoli e venendo dominato allo stesso tempo. Impara tante cose del Regno Unito che cambia con la rivoluzione culturale degli anni ‘60, che vede questo mondo scomparire negli anni ‘70 per poi collassare in qualcos’altro, cioè la rivolta del punk; e viaggia nei mille luoghi del peregrinare di Best: dai pub di Edimburgo, dove ha alimentato le fantasie di Irvine Welsh e dei suoi personaggi, alla Los Angeles dove regala il gol più bello della storia della NASL, battendo simbolicamente i Cosmos e la costa est dove imperversavano gente come Pelè e Chinaglia.

Personalmente l’ho letto con piacere, vivendolo al tempo stesso come un atto di espiazione dopo anni e anni in cui ho creduto a tutte le panzane che la narrazione mainstream ci ha dato su George Best. Perché in fondo non abbiamo davvero capito chi sia stato George Best e allora me lo son fatto spiegare da uno che, prima di amare Best, ama il mondo dove ha vissuto e lo conosce talmente a fondo da saper collegare tutti i pezzi.

Non si era già detto tutto su Best? C’era davvero bisogno di scrivere un altro libro?



In realtà è quello che dice sottotitolo del libro: è un tentativo, peraltro faticoso, di sovvertire le storie che c’erano state raccontate sul grande campione che dribbla i suoi guai ma ci riesce fino a un certo punto perché poi prendono il sopravvento.

È un tentativo di ricostruire la vastità delle esperienze del calciatore e soprattutto di quella parte del ‘900 attraversata da George Best e arriva dopo innumerevoli biografie, autobiografie, contro-biografie, storie spiattellate sui tabloid.

Quindi parliamo di un’attenzione costante esercitata, sull’uomo e il calciatore, da parte dei media britannici e non solo. Si è detto tutto, forse troppo. Belfast Boy non è un libro necessario, ci tengo a dirlo: condensa la mia esperienza e la lunga frequentazione del calcio inglese e della società britannica. Best, grazie alle sue mille peregrinazioni e squadre dopo il Manchester United, riesce a farci vedere angoli di calcio che magari non sono così noti. La parabola con lo United la sanno tutti: a 22 anni riesce a vincere tutto quello che c’è da vincere e da lì in avanti sarà un lungo e interminabile percorso dentro l’oblio, dove toccherà posti impensabili come il Sudafrica dell’apartheid o anche il luogo in cui è nato, cioè Belfast, e gli anni dei Troubles, gli anni della rivoluzione culturale di Manchester e Liverpool, che sono un po’ i suoi habitat, l’Edimburgo uggiosa in cui trascorre triste, solitario y final la parte finale della sua carriera, la Londra della Swinging London degli anni ‘60 e quella più cupa del punk degli anni ‘70, in cui si troverà a giocare per il Fulham, gli U.S.A. del soccer hollywoodiano che lui tiene a battesimo.

Tu adesso hai parlato di tanti mondi: vorrei chiederti se Best è stato più influente o più influenzato? Intanto partiamo da quello britannico.

Rispondo spiegando come nasce il libro perché nasce in una maniera singolare. Spesso partecipo a dei ‘calcetti editoriali’ (Friani è direttore editoriale di una casa editrice che si chiama ‘Racconti edizioni’ n.d.a.) e un mio collega, sapendo la mia monomania per il mondo britannico, e ancora di più per il calcio britannico, mi ha detto “perché non mettere a frutto questo tuo sterminato bagaglio, magari per un libro su George Best?”.

Io, che dico di sì a tutto, ho detto di sì pure a questa proposta che si è trasformata in un incubo per quattro anni perché poi sarebbero seguite ulteriori momenti di ricerca e momenti di collezionismo al punto che mi trovo casa invasa di oggetti di George Best.

Ho messo a frutto anni a vedere partite e leggere di calcio, mentre tutti i miei colleghi leggevano Proust: tutti quei libri bruttissimi di hooligans e memorie di calciatori di seconda o terza fascia che io mi sono divorato dall’adolescenza alla terza adolescenza che vivo oggi sottraendo tempo a Melville, Proust, eccetera.

La cosa fica della figura di Best è che ti permette di toccare l’apice del jet-set e il fondo più buio: ha ricevuto stipendi inimmaginabili per l’epoca, è stato il primo calciatore che ha portato il colore sui campi da calcio ma ha anche campato con 2,40 £ nel penitenziario, è stato uno dei primi a fallire finanziariamente, il primo che ha fatto la transizione da calciatore a pundit (l’opinionista sportivo n.d.a.) negli studi con ‘Soccer Saturday’, praticamente l’equivalente inglese del ‘Quelli che… il calcio’ di Fabio Fazio. È stato il primo che ha capito che il circuito delle conferenze stampa dei calciatori poteva essere redditizio e costituire una seconda carriera dopo che la prima terminava abbastanza presto.

Passando dallo scontro politico dell’Irlanda settaria dei Troubles fino alle Playboy Mansion frequentate a Londra al pub scalcinato frequentato dove si riuniva con Bobby Moore la domenica mattina dopo la partita. George Best è un’ottima guida in quel mondo lì, anche perché è un animale estremamente letterario che mi ha permesso di far entrare nel libro una serie di cose: dalla musica alla letteratura.

Quindi volendo fare una sintesi era l’uomo giusto al momento giusto e ha cavalcato il tempo nella maniera in cui poteva e doveva andare?

Lui si è trovato al posto giusto al momento giusto: cioè nel nord della rivoluzione culturale nel momento in cui stava capitando. Il ‘68 lo vede incoronato Pallone d’Oro e con le braccia al cielo dopo la finale di Coppa dei Campioni vinta contro il Benfica. Irsuto, capellone, il quinto Beatle. È quello che tira fuori dall’idea del calciatore working class che compie il suo mestiere il sabato alle 3, cascasse il mondo, e lo porta da un’altra parte: è il primo calciatore a fare le pubblicità in maniera sistematica, per esempio. Ha saputo prendere il toro per le corna, piegando le logiche del mercato e del mondo a suo uso e tornaconto.

È stato una presenza frequentissima dei tabloid, al punto che per esempio le immagini del suo primo matrimonio, per rifarsi di perdite ingenti sul versante scommesse, saranno date in esclusiva al ‘Sun’ che nasce proprio negli anni in cui Best inizia a fare sfracelli. Mentre sulle prime pagine ci aspetteremmo le bombe dell’I.R.A. nell’altra copertina ci saranno le sue gesta, sportive e non sportive, perché ha travalicato gli stadi per entrare nelle case degli inglesi e non.

Tu nel libro racconti nel dettaglio le azioni, le giocate, i movimenti dei compagni intorno a lui. Quanto tempo ci hai messo per vedere questo materiale e come si può costruire un racconto tecnico e tattico di Best?

Io sono un accanito lettore di FourFourTwo, fanzine e altre pubblicazioni dove c’è l’abitudine nel raccontare le azioni in campo. Noi siamo abituati a leggerle tradotte spesso da traduttori, non me ne voglia la categoria, che hanno poca dimestichezza col calcio e la lingua del campo. Il tentativo è stato raccontare cosa succedeva in campo facendo una cronaca minima, salvo nei momenti in cui serviva un approfondimento o un campo largo; in particolare il racconto più compiuto sta nella cavalcata della Coppa dei Campioni del Manchester United.

Per scriverlo ho visto le partite che ha disputato in Australia o per beneficienza. La sensazione, l’excutatio non petita che mi sentivo addosso è ‘non l’hai mai visto giocare’ e quindi, per massima comprensione possibile, ho visto praticamente tutte le partite disponibili, le ho riviste e studiate. Sono convinto che tutto sommato chi c’era, chi l’ha vissuto in presenza, non l’ha visto come possiamo vederlo noi oggi perché abbiamo un archivio che ci permette di guardarlo in ogni possibile spigolatura. Sul versante squisitamente tattico sentivo che c’era la necessità di parlarne. Era un calcio in cui Matt Busby poteva tranquillamente dire ai suoi calciatori “il calcio è un gioco semplice: passate la palla a una maglia rossa” al punto che un suo calciatore, Noel Cantwell, disse ‘così sono bravi tutti a fare i manager’.

Busby faceva parte di un’ultima genia di allenatori, assieme al tanto amato Brian Clough, che dell’aspetto tattico se ne sbatteva. Clough diceva che la cosa più importante era mettere i giocatori giusti al posto giusto, comprare quelli buoni e poi il resto sarebbe andato da sé. In quel periodo si affermavano nuovi allenatori che mettevano in discussione quest’approccio: Don Revie nel Leeds, Alf Ramsey nell’Inghilterra e infine sarebbe arrivata la rivoluzione olandese che avrebbe del tutto cancellato questo calcio ingenuo di cui faceva parte Best. Nel capitolo dedicato all’Irlanda del Nord, che ha la traccia costante dei Troubles ma anche della Nazionale, mi sono divertito a mettere a confronto Johan Cruijff e George Best che sono due tipi umani e caratteriali e calciatori radicalmente diversi. Il primo è cattedratico, con la sua idea di calcio, poco sensibile alle idee antiche che albergavano in George Best che guardava con un certo sospetto alle lavagnette nere dei mister.

Quando inizierà quella sequenza drammatica di allenatori che culminerà con lo Spalletti di George Best, cioè Tommy Docherty, la prima cosa che dirà alla vecchia guardia, ai Denis Law e ai George Best, è l’insistenza sui compiti tattici che per loro era inconcepibile. Un metter pressione ai giocatori e non permettere la loro libera espressione. L’allenatore entrava finalmente in quella che oggi è riconosciuta come la sua sfera ma all’epoca era un tabù: “sul campo ci pensiamo noi”.

Hai parlato delle differenze enormi tra Cruijff e Best, qui dobbiamo arrivare alla leggendaria partita tra Olanda e Irlanda del Nord. Quella del tunnel o presunto tale.

Questo libro è pieno di leggende perché la vita di Best, come tutti i campioni che hanno lasciato il segno anche fuori dal campo, si porta dietro una marea di leggende, di fandonie, di cose inverosimili. Per esempio quella volta con Puskas e Bobby Charlton, in Australia, che facevano a gara a chi prendeva più traverse. Molte di queste sono chiaramente apocrife che però mi sembrava sbagliato tralasciare fuori. La mitologia è talmente vasta che non può non essere citata, alimentata poi anche da lui perché ci gigioneggiava. È come se uno prende libri di storia greca e non ci trova niente del mito ma solo i reperti archeologici e c’è molto poco su cui impalcare una narrazione, quindi con buona pace di Omero troveremmo una presunta guerra che non sappiamo se sia avvenuta a Ilio.

Nel libro ho cercato di tenere il doppio binario: il mito accanto ai fatti. La spacconata, che non si sa quanto sia vera, del difensore che dice ‘spezzeremo le redini a George Best’, penso a Loseto del Bari che dice ‘non conosco questo signor George Best ma mi francobollerò a lui per tutta la partita’, in un’amichevole, anche qui mitologica, tra Bari e Manchester United.

Quella partita del 1976 è stata raccontata in tutte le salse, dove si affrontavano il vecchio e il nuovo campione e nell’avvicinamento alla gara c’era stata qualche frase puntuta da parte dei media olandesi, opportunamente riportata a George, sul fatto che lui fosse finito. In quel momento lui stava cercando di rimettersi faticosamente in forma tra Stati Uniti e Fulham. Si avvicina il momento della gara e lui premette, a un giornalista che lo segue in trasferta, che il suo obiettivo, al di là del risultato, è fare una busta a Cruijff e quindi dal calcio d’inizio tenterà di fare solo quello. La partita entra nella leggenda perché finisce 2-2: la piccola Irlanda del Nord blocca l’Arancia Meccanica, cioè la squadra forse più bella e forte al mondo in quel momento.

Best ha girato il mondo e questo mi ricollega a un’altra icona del calcio britannico: Sir Stanley Matthews. Vorrei chiederti se ci sono dei punti di contatto tra i due?

Sì, sicuramente. È una buona chiamata però prendo a modello un altro giocatore: Johnny Haynes, capitano dell’Inghilterra che non andrà al mondiale del 1966 poiché infortunato. Lui è stato il primo calciatore a far valere i diritti della categoria chiedendo uno stipendio che non fosse quello fissato dalla Football Association prendendo 100 £ alla settimana. Fa parte di una squadra, giocherà sempre al Fulham resistendo alle sirene delle squadre milanesi, che ha sempre avuto un’attenzione alla dimensione spettacolare del calcio. Johnny Haynes è il primo che buca lo schermo e inizia a fare le pubblicità, per esempio quella della brillantina come Gianni Rivera da noi. Best aveva un retroterra di calciatori a cui attingere: qualcuno che aveva calcato i campi ma anche i palcoscenici. Per esempio si rifaceva a Peter Broadbent, ala dei Wolves che disputerà le famose amichevoli preludio della Coppa dei Campioni; quella maglia satinata oro brillante che vedeva brillante dalla televisione nella casa vicino a Belfast.

Broadbent era un altro che brillava sul campo ma fuori faceva le bizze. C’era una genia di calciatori che potevano preludere al fenomeno George Best. Non so se nessuno di questi ha avuto la possibilità di avere un impatto così di rottura nell’immaginario collettivo: io ne dubito sinceramente.

L’esempio che mi è stato fatto più volte è Gigi Meroni ma lui aveva la Torino della FIAT e delle emigrazioni di massa dal Sud, non la Manchester degli Hollies o la Liverpool dei Beatles in cui esercitare la propria influenza. Era decisamente un altro mondo: per quanto potesse girare con le galline o in decappottabile era meno presente nella società che lo circondava. Invece Best è, secondo me, il campione della generazione dei boomer che ha capito che non morirà mai, che non andrà in guerra, che il benessere si sta diffondendo e a trasformarlo in un vessillo.

Un racconto organico come l’hai fatto tu non si aveva da Buffa. Che idea hai di quella forma di storytelling e di ‘Buffa racconta Best’?

Pessimo, però qui mi metti in difficoltà. Facciamo una cronistoria: questo libro non nasce per questo editore ma per un altro editore che aveva in mente quella cosa lì. Voleva il romanzo di George Best cioè una storia a tinte un po’ nostalgiche, quantomeno in bianco e nero seppiato che tanto piace e rincuora, del grande campione che supera gli ostacoli e poi con il secondo tempo, i suoi patimenti, la fine ingloriosa e l’ammonimento su come si fanno le cose. Quella roba lì mi fa venire l’orticaria, non solo Buffa ma anche ‘Sfide’: ho dei problemi con il racconto epico del calcio e quindi il tentativo, da persona estremamente anti-epica, è stato cercare di problematizzare un po’ tutto, compreso il mito dello sciupafemmine che quello per cui viene raccontato ancora oggi. Best è finito sulla cronaca anche perché picchiava le donne. Quella roba lì viene messa in un cantuccio e ci si concentra sull’epos del calcio. A me interessava ricostruire il contesto ancor prima del personaggio che è stato raccontato e ri-raccontato: per fare questo inevitabilmente credo di essermi sottratto a un racconto verticale per cui ascesa e declino, vita morte e miracoli senza far caso a quello che succedeva intorno a lui.


Intervista a cura di Giuseppe Barbato

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