La Formula 1 sta crescendo come brand, ma ha perso da qualche anno il suo equilibrio. I dati del 2018 non lasciano sperare in meglio per l’imminente stagione
Un altro decennio è quasi passato, il secondo degli anni 2000. Quando saremo al brindisi di Capodanno per il 1° gennaio 2020, avremo sicuramente ricevuto chilometri di analisi che tenteranno di spiegarci e riepilogare il decennio che ci staremo per mettere alle spalle. Nel farlo, mi auguro che qualcuno ricordi forse il principale tratto di questo decennio: la consolidazione.
Se c’è una lezione che ci lasceranno i primi anni ’10 del terzo millennio, sono abbastanza sicuro che parleremo dell’erosione della classe media, del cancellamento o quasi – con un tratto di penna – di chi è in mezzo nella scala sociale. E se pensate che questo discorso stia virando verso il turbocapitalismo o qualche teoria complottista, vi fermo subito. Non c’è bisogno nemmeno che lo dica io: consultate qualche dato e lo scoprirete da soli.
O ancora meglio, c’è chi l’ha già fatto per voi.
In uno dei suoi pezzi sullo show della HBO, “Last Week Tonight” di John Oliver ha riflettuto di come la consolidazione industriale è parte di ciò che siamo: prendete solamente il panorama delle linee aeree negli Stati Uniti, dove si è passati da dieci a quattro major players sul mercato in quasi vent’anni.
E se il “Merger Monday” diventa quasi una consuetudine nei programmi d’economia americana, attenzione: non mi sembra che lo sport se la passi meglio. Non voglio citare i casi negli sport individuali, perché non credo facciano al caso nostro, sebbene l’esistenza dei Fab 4 nel tennis maschile o il dominio di atleti straordinari come Michael Phelps, Usain Bolt e Sebastian Loeb rappresentino un segnale in questa direzione. Prendete invece gli sport di squadra. Il calcio è il miglior esempio del restringimento del collo di bottiglia della competitività.
Viviamo in un campionato vinto per otto volte dalla stessa squadra. E non è che all’estero – Premier League a parte, anche se rappresenta un’eccezione economica – vada molto meglio: la Bundesliga è ostaggio del Bayern Monaco (sebbene le strutture e la competitività dietro ai bavaresi siano punti a favore del campionato tedesco), la Ligue 1 del Paris Saint-Germain e la vittoria dell’Atlético Madrid ne LaLiga 2013-14 è stata vissuta come un miracolo, sebbene parlassimo di una squadra che aveva alzato due edizioni dell’Europa League nei quattro anni precedenti.
Ma potremmo citare anche le quattro finali consecutive tra Golden State Warriors e Cleveland Cavaliers in NBA (nonostante le major americane abbiano sistemi che scoraggiano questo tipo di consolidazioni) o gli otto titoli negli ultimi nove anni di MotoGP divisi tra Jorge Lorenzo e Marc Marquez, fresco di vittoria del MotoMondiale, l’ottavo in carriera.
In questo scenario, la Formula 1 rappresenta la sublimazione ultima di questa tendenza. Aggiungerei anche uno dei motivi per cui il futuro non sembra così sorridente.
Liberty Media e l’approccio alla Formula 1
E dire che di cose buone da dire su Liberty Media ce ne sarebbero parecchio. Dall’arrivo della proprietà americana nel settembre 2016 – che rilevò il circus da Bernie Ecclestone, ormai un dinosauro fuori da ogni logica, che teneva questo sport nel passato –, ci sono stati diversi passi avanti. Cose che oggi diamo per scontate, ma che hanno dato un’accelerata all’immagine di questo sport.
La nascita e gestione di un canale YouTube che abbia un minimo di aggiornamento, la creazione di una squadra fissa che seguisse la F1 per il canale ufficiale, l’apertura al mondo delle logiche social, il maggior coinvolgimento dei fan, l’apertura verso nuovi lidi e circuiti (Hanoi è stata confermata per il 2020, così come del ritorno di Zandvoort e quest’ultimo è stato un bel colpo).
È una nuova gestione che ha trovato in Lewis Hamilton non solo un cinque volte campione del Mondo, ma anche un perfetto ambasciatore per il nuovo mondo della Formula 1 in salsa americana. Immensamente talentuoso, black, legato a un marchio ben presente sul mercato automobilistico e persino con molte più velleità fuori dall’abitacolo che dentro (sebbene la fame rimanga: guardate la sua guida nell’ultimo anno e mezzo).
Assieme a lui, si sono valorizzati anche personaggi che vivevano benissimo nella formula di Ecclestone, ma che si sono re-inventati: Alonso nel ruolo di burbero perennemente scontento (la McLaren però l’ha scelta lui), Vettel nel personaggio introverso e comune (così diverso da Hamilton). E poi Kimi Räikkönen, Valtteri Bottas (“The Porridge Boss”) o Daniel Ricciardo (altro fenomeno mediatico per la nuova F1).
E poi anche il brand è stato rivisto. Nuovo logo, nuova theme song (con tanto di intro memabile) e soprattutto un podcast gestito da Tom Clarkson – intitolato “Beyond The Grid” –, che mi auguro qualcuno seguirà in massa dopo aver letto questo pezzo.
Si potrebbero linkare molte puntate, ma io scelgo assolutamente Otmar Szafnauer, diventato team principal della Force India dall’estate 2018. Uno che ne ha viste tante, avendo lavorato anche in Honda nel periodo della collaborazione con la BAR.
In questo quadro, la collaborazione con Netflix e il documentario “Drive to Survive” avrebbe dovuto dare ulteriore spinta all’immagine della Formula 1. E forse ci riuscirà con la sua seconda stagione, in arrivo tra qualche mese. Dare l’impressione che c’è la sostanza oltre la nuova forma e immagine della categoria. Semmai, però, non ha fatto che confermare alcune impressioni che tutti hanno manifeste nelle loro teste.
Drive to Exist
Netflix ha spinto molto questo doc realizzato con la collaborazione della Formula 1. Ma se il circus si è dimostrato disponibile a documentare la vita di piloti, team principal e addetti ai lavori, non si può dire lo stesso di tutte le parti interessate.
Prendete Mercedes e Ferrari. Le scuderie dominatrici delle ultime sei stagioni – per risultati medi, sono le due superpotenze di questa categoria – a malapena compaiono nel prodotto finale. Bottas e Vettel sono sostanzialmente invisibili; di Hamilton si ha un assaggio nell’apertura in Australia e poi grazie al titolo Mondiale. Soltanto Kimi Räikkönen entra nella narrazione, ma di riflesso rispetto a Charles Leclerc, il pilota che l’ha poi effettivamente sostituito in Ferrari.
A giudicare il documentario e le sue dieci puntate, più che “Drive to Survive”, si guida per esistere ed esser rilevanti. Il quadro fornito dalla collaborazione tra Liberty Media e Netflix è drammatico. La Red Bull è ancora rilevante, ma sembra aver usato questo doc soprattutto per scopi commerciali; senza più titoli Mondiali, la casa anglo-austriaca ha trovato un altro modo per spingere il suo brand.
E che dire degli altri? La Haas è una realtà interessante, ma è l’unica scuderia a esser entrata nel circus da zero negli ultimi cinque anni. La Renault annaspa nel suo tentato ritorno verso la vetta; la McLaren ha navigato in acque pessime, ben oltre il motore Honda, spesso capro espiatorio delle prestazioni rivedibili; tutto questo senza citare la Williams, di cui esce un ritratto drammatico dal documentario (nonostante il recente rinnovo dell’accordo con Mercedes fino al 2025).

Al di là dei dilemmi di carriera di Ricciardo (protagonista canoro a tema osterie romane), del duello alla vetta e dell’enorme mole dell’intera categoria, emergono le difficoltà di tenersi a galla. I dubbi della McLaren, le incertezze in casa Force India (risolte solo con l’ingente patrimonio di Lawrence Stroll, che ha catapultato il figlio nella scuderia con un contratto di durata indefinita), i rimorsi personali di Grosjean e Hulkenberg. Una guerra fra poveri che produce il nulla.
E non lo dico io, ma i dati. Da quando l’ibrido si è impossessato della Formula 1, il problema non risiede tanto nel dominio della Mercedes (che comunque ha prodotto due Mondiali decisi alla sirena, 2014 e 2016), bensì cosa accade alle loro spalle. E prendete come esempio l’ultimo campionato del Mondo che ricordi emozionante, nonché forse uno dei più belli di sempre: il 2012.
Quell’anno una griglia popolata da 12 scuderie e 24 piloti produsse sette vincitori diversi nelle prime sette gare. Sei scuderie riuscirono a centrare un successo, sette almeno un podio. 13 di quei 24 piloti centrarono almeno una piazza tra le prime tre in un Gran Premio. Il Mondiale venne deciso nel diluvio di Interlagos, con una sceneggiatura tra le più belle di sempre.
Soprattutto, si può usare una misura per valutare la competitività della categoria e della griglia in sé per sé: i podi delle scuderie fuori dalle Top 3. Quell’anno, le Top 3 erano Red Bull, Ferrari e McLaren. Fuori da quel trio arrivarono 15 podi e ben tre vittorie (Räikkönen con la Lotus ad Abu Dhabi, Rosberg con la Mercedes in Cina e Maldonado con la Williams a Barcellona).
Quel dato ha subito una picchiata clamorosa nelle stagioni successive. Nel 2013 i podi diventano 13, accompagnati da una sola vittoria (sempre Räikkönen, stavolta in Australia) e tutti collezionati dalla stessa scuderia, la Lotus-Renault. Nel 2014, i podi sono cinque (due di McLaren e Ferrari, uno della Force India), così come nel 2015 (tre della Red Bull, uno a testa per Lotus e Force India).
Il passaggio delle ultime tre stagioni è stato drammatico. Nel 2016, i podi fuori dai primi tre costruttori diventano tre, per altro tutti concentrati in un mese: Pérez fa un miracolo e porta la Force India sul podio sia a Montecarlo che a Baku, mentre Bottas opta per un’ottima strategia in Canada e strappa un gran terzo posto per la Williams. Nel 2017 e nel 2018, c’è un solo podio, arrivati entrambi a Baku (Stroll con la Williams e Pérez con la Force India).
Il 2019 ha portato un’altra eccezione, ma ci è voluta una gara folle come quella di Hockenheim e l’ottima strategia della Toro Rosso con Kvyat per portarlo sul terzo gradino del podio.
Questo è un dramma. Una categoria senza equilibri o una minima distribuzione non ha nulla da raccontare. Storie come il GP d’Europa ’99, la vittoria di Panis a Montecarlo ’96 o quella di Button in Ungheria nel 2006 sono oggi impossibili. Il distacco tra le grandi e le altre è talmente ampio da impedire persino dei podi, figuriamoci delle vittorie.
E un altro dato inquietante in questo senso sono i distacchi: mentre quelli tra chi si gioca le vittorie si sono appiattiti (difficilmente si vede qualcuno vincere un GP con più di 30” di vantaggio: il distacco più grande tra vincitore e secondo nelle prime 14 gare del 2019 è stato di 25” tra Hamilton e Bottas in Gran Bretagna), quelli verso le scuderie medie si sono ingigantiti a dismisura.
Prendete le gare del 2018 senza Safety Car (non VSC): in 12 corse “pulite”, il distacco medio della prima macchina che non si chiamasse Red Bull, Ferrari o Mercedes è sui 75,4 secondi (un minuto e 15”). In questo conteggio, ho lasciato fuori il GP d’Austria (dove tutta la griglia tranne il podio era doppiata) e il GP di Messico (dove persino una Mercedes risultava doppiata di un giro, mentre gli altri ne scontavano addirittura due).
Il numero medio di macchine doppiate per Gran Premio è 9,2. Sapete cosa vuol dire? Che metà della griglia parte con la certezza che a un certo punto si vedrà sventolate le bandiere blu per far passare il leader. Questi sono numeri che farebbero preoccupare chiunque e che di certo non lasciano indifferenti Liberty Media.
Consolidazione, per l’appunto.
Hybrid isn’t the way
Verrebbe da chiedersi come si possa risolvere un problema di questa magnitudo. Una prima chance è dietro l’angolo, perché le nuove regole entreranno in vigore dal 2021 e molti interpreti della griglia sperano che le cose cambino. Questo decennio – dominato da Ferrari, Mercedes e Red Bull – non ha prodotto equilibrio, ma solo un enorme dislivello.
Ci sono diverse proposte sul banco, così come la F1 ha anticipato la sua visione di macchina per il 2021. Poi ci sono gli appassionati, che vorrebbero corse più compatte e che sperano di non vedere tale monotonia per il futuro (io, da par mio, sto sperando nel ritorno di macchine meno larghe). E poi ci sono i piloti: già, persino due come Lewis Hamilton e Sebastian Vettel hanno da ridire sul futuro del circus.
Uno è un classe ’85, l’altro è un classe ’87. Nel 2021 avranno 36 e 34 anni e non è nemmeno detto che siano ancora in griglia per quell’anno (personalmente credo che il primo si godrà il successo in altri mondi). Eppure nessuno dei due si è nascosto dietro un dito, criticando apertamente il modo di gestire la griglia e l’incapacità di trovarsi in scontri imprevisti.
Lewis Hamilton è stato il più duro, aprendo ai tifosi, spingendoli a metter pressione su chi può veramente cambiare queste regole. Vettel, dal canto suo, ha ricordato che i costi per vedere una gara di Formula 1 sono folli ed è difficile attrarre nuovo pubblico in questa maniera, così com’è difficile per i giovani piloti farcela in un mondo dove ci vogliono due milioni di euro per un sedile nelle categorie minori.
Dopo aver vinto in casa, di fronte al proprio pubblico, qualcuno ha detto a LH che la gara è stata noiosa. Risposta del vincitore: “Non posso darvi torto”.
Tornare indietro e rinunciare all’ibrido sarebbe un primo passo. È stato chiaramente affascinante vivere quest’evoluzione, ma è ovvio come si stia andando avanti con questo tipo di motori perché ad alcune case automobilistiche conviene sviluppare queste tecnologie tramite la F1, trasferendo i dati ottenuti poi sulle vetture che vengono vendute sul mercato.
Tornare invece alle macchine 2010-12 sarebbe un passo in avanti. Aiuterebbe anche la F1 a distinguersi dalla Formula E, che è chiaramente la forza motrice nel campo dei nuovi motori e che potrebbe prendersi una parte dello spazio “tecnologico” che oggi la F1 si sta tenendo stretto. La domanda è: qualcuno è interessato a fare questo passo indietro?
Inoltre, c’è la questione del salary cap. Una lega di proprietà americana senza salary cap è uno scenario strano soltanto a pensarlo, figuriamoci a viverlo. La differenza di spesa è enorme, così com’è una follia che esista il “contributo di storicità”, di cui la Ferrari è una chiara beneficiaria e a cui non vuole rinunciare (nel 2009 volevano anche la terza macchina in pista…). Chissà se tutto questo verrà prima o poi sbloccato.
Intanto, qualcuno butta lì la “reverse grid”, prendendosi la meritata reazione dei due rivali al titolo.
LH: “Chi ha fatto una proposta del genere non sa di cosa parla”. SV: “Direi che è una stronzata”. LH, sorridendo: “L’ha detto meglio lui”. SV: “Abbiamo bisogno di corse più competitive, questo è l’approccio sbagliato”.
Insomma, come ripartire? Non è facile, ma la Formula 1 deve cambiare se non vuole morire. Uno sport così costoso e così poco appassionante non giova a nessuno, nemmeno a chi domina questa categoria da anni.
Ha il passaporto italiano, ma il cuore giapponese e la residenza in Germania (per ora).