Cosa è stato Kobe per noi

Montaggio video di Gianluca Viscogliosi

La cosa più vicina alla prestazione individuale più importante nella storia NBA. Raptors in gita premio a Los Angeles. Ci sono da vedere Venice Beach, Sunset Boulevard, gli studios di Hollywood e poi un rettile speciale che ha deciso di far ricordare ai canadesi la visita losangelina. E’ il 22 gennaio 2006 e Toronto stavolta ha un piano diverso rispetto alla sfida del 5 dicembre. Lì il piano partita prevedeva una marcatura ad hoc per Kobe che, capendo l’andazzo, si era limitato a far girare la squadra per la vittoria finale. Allora i Raptors decidono per la tattica inversa: limitare gli altri, liberare Bryant. Risultato? Ottantuno punti, seconda prestazione inidividuale di sempre dietro solo a quella di Chamberlain

Non è un mistero che il nome più famoso della pallacanestro mondiale sia quello di Michael Jordan.
Per i ragazzi dai 40 anni in giù, però, non è stato MJ il fenomeno che ne ha accompagnato le tappe della crescita: quelle in cui ci si appassionava, quelle in cui si tifava, quelle in cui si cercava il modello da emulare, quello che si ammirava perchè in fondo si voleva essere al suo posto.
Quello che prese per mano i ragazzini, li affiancò durante l’adolescenza per poi condurli nel percorso della maturità, anche nei confronti della propria passione, è stato Kobe Bryant.
Con i loro pensieri, alcuni dei ragazzi della redazione di Crampi Sportivi raccontano il Kobe riflesso in loro, inframezzati dalle immagini del ragazzo dal nome di bistecca scolpite nella storia del gioco: loro, e di tutti.


Il leader da l’esempio, il leader ci mette la faccia, il leader ti fa sentire capace di tutto. Con quella voglia di non mollare, quella capacità di trovare energia anche nel momento più difficile. Come una dinamo, che si carica al momento della frenata per poi far ripartire il motore a giri sempre più alti. Bryant va in uno contro uno a difesa schierata. Palleggio incrociato dietro la schiena e – sacrilegio – perde la maniglia del pallone. Contropiede rapido dei Nuggets. Andre Miller, il professore, se la prende comoda e appoggia al tabellone noncurante del pericolo. Kobe si mangia 20 metri di campo, terzo tempo e inchioda il lay-up al tabellone

Sebastiano Bucci
Nelle fasi di elaborazione di un lutto il primo step è sempre la rabbia: ti viene da dar addosso a Dio, al destino o chissà chi. È una rabbia sordida e ovattata che accomuna in un’ espiazione di dolore collettivo Tutto il globo. Nel giorno di dolore che uno ha la Lega decide di usare il silenzio e ti omaggia con 24 secondi di luci basse e mosche che non volano, commosse anche loro, come noi.
Parafrasando il mio amico Daniele: “Non ci ha lasciati, è semplicemente andato a giocare da solo sull’isola”.


Le finali di Conference del 2000 sono una maratona. Lunga, estenuante, infinita. I Blazers sono tosti, esperti e smaliziati. E stavolta puntano al bersaglio grosso. Prima però c’è Gara 7. Quarantacinque secondi sul cronometro, i Blazers sotto di quattro, ma vogliono provare a difendere. Il faccia a faccia è di quelli intergenerazionali, Bryant contro Pippen. Scottie manda dentro Kobe lasciando la mano sinistra e aspettando l’aiuto di Grant. Che arriva, ma con un pizzico di ritardo. Ed è in quel pizzico che Bryant fa la magia: legge la situazione e pesca con un lob delicato Shaq. Manona selvaggia e schiacciata del più sei in faccia a un giovane e imberbe Rasheed Wallace. Un assist… for the ages

Claudio Pellecchia
Kobe è tutto.
Kobe è le notti in bianco a causa del fuso orario impossibile della Western Conference.
Kobe è la Courtside Countdown di ‘NBA Action’ il sabato pomeriggio, quando si trattava di scegliere tra la ‘kobiosity’, la ‘mcgradyness’ e la ‘vinsanity’ mentre i tuoi amici ti prendevano in giro perché non eri andato a giocare a pallone con loro.
Kobe è svegliarsi la mattina e rendersi conto che sì, ne ha messi davvero 81.
Kobe è la conferma che “me against the world” non è solo una canzone di 2Pac.
Kobe è vittoria e sconfitta, catarsi e redenzione, estasi e tormento. Perché “solo chi fa grandi colpi fa grandi errori” e “se non credi in te stesso chi ci crederà”.
Kobe è una lettera di amore al Gioco che avremmo scritto anche noi.
Kobe è un padre che dice che non ha bisogno di un figlio maschio che raccolga la sua eredità “perché ci penserà la mia Gigi”.
Kobe sono io, Kobe siete voi, Kobe siamo noi.
Un po’ più soli ma ancora qui. Because “all I was thinking in the back of my mind was Mamba Mentality”.


Lo avranno detto a Kobe. “C’è quel rookie lì, quel big man con il 12. E’ forte e praticamente insuperabile nel pitturato”. Immaginiamo le antenne del predatore che si attivano. L’istinto selvaggio che inizia a prevalere sulla lucidità umana. Due minuti e trenta circa alla sirena del terzo quarto. Lakers sotto di otto, con i Magic che stanno pescando dalla panchina punti a volontà. Blocco di Odom che si apre sperando nello scarico. Auguri! Bryant rompe il raddoppio e famelico punta il ferro. Quello con il 12 pesta lo smile, braccia alta e, seppur in ritardo, prova a far valere quel fisicone cresciuto a Coca-Cola e Po Boy. Più del gesto, più del poster, più della forza della schiacciata con cui Dwight Howard viene spazzato via, impressiona il viso di Bryant. Un viso trasfigurato dalla cattiveria sportiva. Un urlo al cielo. L’ululato del capobranco che vuole ribadire la sua posizione di dominio sugli altri

Roberto Gennari
Stavo guardando una partita quando il telefono ha cominciato ad impazzire di notifiche. “Che scocciatura, ma che vuole tutta ‘sta gente di domenica sera?”, ho pensato. Ho guardato al primo timeout, non riuscivo a crederci. Mi si è seccata la bocca. Niente di quello che vedo e scrivo mi sembra avere senso. Non posso dire che mi identificavo con Kobe Bryant, semplicemente perché lui era troppo talentuoso, troppo forte mentalmente, troppo agonista rispetto a me che sono un comune mortale. E allora provo a pensare a te in questi termini, penso al fatto che sei un padre di famiglia, che tra me e te c’è meno di un anno di differenza, che il fatto che tu abbia lasciato questo mondo in modo così improvviso ed insensato mi costringe a riflettere su quanto sia provvisoria la nostra condizione, su quanto davvero sia importante apprezzare ogni singola mollica di quello che abbiamo, sia esso un sorriso dei nostri figli, una buona pizza, un canestro che segniamo e che chiude una partita, che si tratti di una finale NBA o di un 3 contro 3 tra amici.


Sette secondi e nove decimi alla sirena finale della partita. Phoenix è avanti di due nel match, ma sotto 2 a 1 nelle finali di Conference del 2006. La squadra di Alvin Gentry ha una grossa occasione: sbancare LA e riprendere il fattore campo. Kobe, neanche a dirlo, ha intenzioni totalmente diverse. La rimessa è per i Suns, con la palla che viene recapitata nelle sapienti mani di Nash. Smush Parker però è più lesto. Furto con scasso e transizione offensiva rapida. Da George a Bryant, esitation su Bell e torsione circense con tanto di tiro in equilibrio precario. Overtime. Le energie sono poche, ma il Mamba Moment è nell’aria. Walton tocca la palla a due per Kobe, che si prende il proscenio. Il brivido gelido attravesa la difesa di Phoenix a ogni passo in avanti di Bryant. Scatto verso il gomito, fadeaway a un secondo e due decimi dal termine. Bell e Diaw si arrampicano, ma la montagna vince

Luca Amorosi
In un cassetto ho ancora la sua maglia gialloviola con il numero otto che avevo voluto a tutti i costi per il Natale di non so neanche quanti anni fa… Mi stava talmente grande che ancora mi sta e ancora oggi la ritiro fuori e la metto con orgoglio. Perché se seguo un po’ la Nba e me ne sono appassionato anche se non so neanche cos’è il ‘pick and roll’ è grazie a Kobe, se ho fatto qualche notte in bianco per vedere i Playoffs o le Finals è grazie a Kobe, se ancora stringo i pugni dalla gioia quando vincono i Lakers è grazie a Kobe e persino se ho passato ore col joystick in mano e il videogioco della Nba inserito è sempre grazie a Kobe. Sono cresciuto insieme a lui, non ho creduto ai miei occhi ad ogni sua giocata, ho esultato per ogni sua vittoria e mi è venuto un nodo alla gola quando si è ritirato, a modo suo, piazzando 60 punti. Ieri, questo nodo alla gola è diventato quasi soffocante, appena ho saputo. Ciao Kobe, Legends are forever.


Los Angeles e Boston. Lakers e Celtics. Gialloviola e verde. West e East Cost. Insomma, due modi diversi di vivere la vita cestistica e quella normale. Dopo i tempi di Magic e Larry, ritorna la storica rivalità alla fine del primo decennio degli anni duemila. In gara 5 delle finali 2010, il 13 giugno, il Lakers perderanno al TD Garden vincendo poi l’anello dopo un’emozionante gara 7. Quall partita di Boston passerà alla storia perché nel terzo quarto, in un momento di appannamento generale dell’attacco gialloviola, Kobe si mette in proprio. Firma 23 punti consecutivi, 19 proprio nel solo terzo quarto. Alla fine saranno 38, con giocate incredibili ad ammaliare il pubblico teoricamente nemico ma praticamente partecipa di tanta superiorità. Di quella raffica di punti due in particolare: su un alley-oop di Fisher, Kobe si alza e con la mano destra e in equilibrio precario cerca di indirizzare il pallone nel canestro. Non una schiacciata, ma un toco morbido, vellutato, quasi silenzioso. Il rumore della perfezione sul parquet

Armando Fico
Di Kobe Bryant mi hanno sempre affascinato il suo sguardo, le sue espressioni, i suoi atteggiamenti sul parquet. Da profano del basket, se credevo di star ammirando uno venuto da un’altra dimensione (sportiva ed umana) la naturalezza della sua azione mi spiazzava di continuo. Sembrava portare in sé tutta la conoscenza e l’intuizione della pallacanestro, per poi offrirla, nella sua forma più semplice di emozioni, spettacolo e passione, a chiunque volesse goderne. Ecco allora spiegata quella sensazione di vuoto – di smarrimento – alla notizia della sua scomparsa: era consapevolezza di non aver fatto a tempo a ripagarne la generosità… il destino di ogni Messia.


Il Target Center di Minneapolis è tutto un brusio. La palla nell’attacco dei Lakers gira come una trottola e il destino del primo turno di playoff 2003 sembra segnato. In gara 5 i buoi sembrano ormai già scappati quando mancano sette minuti e trentatre alla fine del terzo quarto. Più sedici Lakers e palla in mano. Kobe schiaccia il bottone e avvia il motore. Fisher riceve e apre per Horry. Subito per George e ancora dentro per Shaq. Un palleggio e fuori sempre per Big Shot Bob. La difesa raddoppia, rincorre e infine sull’ennesimo passaggio di Fisher collassa. Bryant appostato nell’angolo ha lo spazio per attaccare Garnett. Con il primo passo Kobe è gia avanti. Si alza anche Nesterovic. Nulla da fare. Protezione del ferro, windmill a velocità supersonica e schiacciata con tanto di rinculo finale a terra. Il Target Center ancora trema

Matteo M. Munno

La morte di una leggenda aiuta tutti noi a ricordarci che siamo uomini. Fatti di carne, sangue e sogni. Kobe oltre a tutto questo è – perché al passato non si parla mai – mentalità. Icona.

Motivo di litigi, chiacchiere, giocate improbabili al campetto e soprattutto motivazione. Motivazione per chi ha pensato di non potercela fare sul parquet e poi… “Oh, ma da Reggio Emilia è diventato il Black Mamba”.

Di lui in questi giorni si dice tanto: le giocate, il passato, il nome legato a una bistecca, il gialloviola che era marchio di fabbrica, l’ossessione per la perfezione. Insomma, questo ci fa capire che Kobe è davvero larger than life.

The same but different, dicono tutti parlando di lui. Senza Kobe, però, diventa davvero difficile pensarlo.


Anno di grazia 1997. Kobe è un ragazzino impertinente che vuole dimostrare di che pasta è fatto, nonostante i veterani di mezza NBA non siano proprio d’accordo. A Washington ci sono ancora i Bullet, per i Wizards ci sarà ancora da aspettare la fine della stagione. Il pitturato di Washington è zona franca, presidiata da Ben Wallace. All’epoca rookie proprio come Bryant. Il confronto che si consuma è impari. Pochi secondi alla fine dell’azione, Kobe parte in solitaria con un primo passo da felino. C’è spazio per puntare dritto al ferro, nonostante Wallace sia ben posizionato. Il primo vero è proprio poster della carriera NBA di Bryant, con lo scalpo importante di uno che di poster non ne riceverà tanti in carriera

Luigi Di Maso
Ho buttato lì una foto in pagina. Non me ne frega un cazzo delle interazioni. Non sono un esperto di NBA ma mi piglia davvero male. Non me la sento di dire altro sinceramente.


Mamba Out! Kobe dice basta. Dopo venti lunghi, estenuanti, ossessivi e ossessinati anni di carriera. Il logorio delle articolazioni, il fisico non più fresco e smaltato come un tempo, la voglia di famiglia, di casa. Il 13 aprile l’ultimo ballo allo Staples Center e per ringraziare tutti il professor Bryant ha preparato un compendio della sua onnipotenza cestistica. Fadeaway, no-look pass, circus shot, triple da Venice Beach e tutto il meglio del meglio possibile. Sessanta saranno i punti finali. Numero tondo, numero pieno. Come i cuori degli appassionati di basket durante l’ultimo lezione del maestro

Marco A. Munno
Abbiamo l’abitudine di pensare che certe cose non accadano a noi, ai nostri cari, a chi lo diventa per come ci ispira e col suo status di fama mondiale ci pare un eroe immortale.
Coi ricordi dovremo farli restare fra noi, vedendoli per ciò che sono: mortali come tutti, perciò da ammirare ancora di più per le vette raggiunte.


Queste sono solo alcune delle perle lasciate da Bryant in venti anni di carriera. L’NBA però ci è venuta in soccorso, riproponendo il video delle 40 migliori giocate di Kobe. Da vedere e rivedere, come dicono negli states, 24 ore al giorno per 7 giorni. 24/7. Anzi, mai come oggi 24/8

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