Con la sua seconda (e ultima) vita inglese alle spalle, Cesc Fabregas ha scelto di ripartire dal Monaco.
L’ormai ex tecnico dei monegaschi Thierry Henry, uno che lo ha visto crescere nell’Arsenal quando era già una stella, lo ha infatti scelto a gennaio per risollevare le sorti di una squadra in profonda crisi tecnico-tattica ed piena lotta per la retrocessione.
Una crisi che affonda le sue radici nelle cessioni eccellenti delle ultime due stagioni, con giocatori fondamentali come Mbappé, Bernardo Silva, Fabinho, Lemar, Mendy e Bakayoko non adeguatamente rimpiazzati, che hanno drasticamente ridimensionato il progetto tecnico della società e fatto smarrire alla squadra, attualmente terzultima in Ligue 1 con 18 punti in 23 partite, l’identità data da Jardim ed ammirata fino al 2017.
Pertanto, la scelta compiuta da Fabregas, per giunta a stagione in corso, di approdare in un contesto così fortemente involutosi negli anni, lascia piuttosto interdetti.
È mai possibile che a 31 anni, un giocatore del suo calibro debba considerarsi a sua volta in netta fase regressiva, senza sapersi confermare – o reinventare – su altri e più competitivi palcoscenici europei?
Considerato all’unanimità uno dei centrocampisti più forti di sempre, campione del mondo nel 2010 e per due volte campione europeo con la Spagna, arriva a giocare in prima squadra con l’Arsenal nel 2003/2004 (l’annata degli “Invincibili”) a 16 anni, in anticipo di una stagione rispetto ad un certo Leo Messi, suo compagno ai tempi della Masìa.
Fabregas è il classico numero 4 della tradizione del calcio totale olandese: dalla conduzione di palla rapida, uno spiccato senso della posizione e visione di gioco, tecnica sopraffina.
Non certo straripante ed esplosivo sul piano fisico ma dotato di un’intelligenza calcistica fuori dal normale.
Non è un caso la visione avuta anni fa da Guardiola, che gli predisse su una sua maglia autografata la sorte di futuro numero 4 del Barcellona.
Previsione che si avvera nel 2011, ma nel mezzo c’è l’avventura da predestinato con l’Arsenal, durante la quale, in anticipo di oltre un decennio sull’avvento in Premier proprio del guardiolismo, ribaltò i canoni del classico gioco all’inglese, arricchendoli con i principi del juego de posiciòn catalano.
Senza troppe lusinghe, Cesc Fabregas è stato un calciatore concettualmente centrale nel calcio moderno: associativo, capace di impostare, rifinire, finalizzare, ma dotato anche di distinte capacità di inserimento, interdizione e abile nella difesa posizionale, oltre a essere utile a portare il pressing in avanti.
Un giocatore che tuttavia ora, rischia invece di sminuirsi, perdendo il posto che merita nella storia recente di questo sport.
La domanda, a questo punto è: dove ha sbagliato Cesc Fabregas?
E’ una questione di felicità personale
In questo senso, il passaggio all’Arsenal a soli 15 anni è sicuramente paradigmatico per capire meglio l’uomo e il calciatore Francesc “Cesc” Fabregas Soler da Arenys De Mar.
Cesc ha sempre patito emotivamente i contesti calcistici in cui non ha potuto sentirsi importante (dove per “sentirsi importante” s’intende poter aiutare la squadra a raggiungere i suoi obiettivi stagionali) o esprimersi ai livelli che gli sono propri.
Insomma, per Fabregas la priorità è sempre stata giocare e sentirsi al centro del progetto tattico del club.
È una condizione alla base della sua felicità personale.
Così, il suo transfer Barcellona-Londra, andata e ritorno, poi ancora andata, è da leggere esclusivamente in tal senso: Fabregas ha sempre scelto di cambiare nel momento in cui avvertiva di non sentirsi più “quel numero 4”.
È stato così quando reputava Xavi, Iniesta e Busquets una montagna troppo alta da scalare.
Ma anche quando, una volta indossata per davvero la 4 culé, ha dovuto prendere atto che il suo Barcellona non era più il contesto tattico adatto a doti e qualità che nel frattempo aveva sviluppato in Inghilterra.
Quasi inadeguato per quel contesto. Quasi completamente svestito dall’abito che ti cuce addosso la masìa, un vestito ormai sbiadito per il centrocampista.
In Spagna si parlò infatti di “fallimento come mezzala cerebrale”, ed in effetti il suo frequente impiego da falso nueve sotto tre diversi allenatori (Guardiola, Vilanova, Martino) certificò che in quell’unico e irripetibile contesto tattico, per lui semplicemente non c’era posto.
Tant’è che con l’apporto dei vari Pedro, Messi, Sanchez, Neymar, persino un suo adattamento nel reparto offensivo risultò superfluo.

Va però anche detto che da un punto di vista tecnico Fabregas ha lasciato un po’ a desiderare nel suo triennio blaugrana.
A rivedere le sue prestazioni in campo, si può in effetti notare un eccessivo temporeggiamento palla al piede, la tendenza ad alzare un po’ troppi palloni ad indirizzo delle punte, ed un ricerca talvolta esasperata della verticalizzazione a tagliar via la linea di pressione avversarie.
Questo suo modo di giocare, seppur in molti casi abbia aiutato Messi e compagni ad involarsi in campo aperto verso la porta avversaria con disarmante facilità, non era purtroppo in linea con la filosofia di gioco blaugrana.
Trasmissione palla a terra, limitazione massima dei tocchi per controllare il pallone e dominio dello spazio proprio attraverso la sfera, furono i dogmi sul cui altare Guardiola per primo (non prima di averlo provato in un 3-4-3 di cruijffiana memoria) non esitò a sacrificarlo per il più incredibile dei paradossi: con Fabregas in campo, il Barcellona a volte perdeva un tempo di gioco ed una parte della sua micidiale efficacia sia in fase di possesso che in quella realizzativa.
Probabilmente, l’unica vera ragione del suo “fallimento” culé è stato il timing di partenza e ritorno in Catalogna.
Cesc e il Barcellona: due promessi sposi che da lontano hanno continuato ad osservarsi e desiderarsi senza badare a quanto stessero invece intimamente cambiando, fino a non poter più tenersi insieme.
Una questione non solo di intelligenza
Eppure, dopo la sua esperienza in blaugrana, Fabregas rimane lo stesso fantastico giocatore ammirato in maglia gunners, capace di giocare il pallone in ogni zona del campo, annullandone la dimensione spaziale e svuotando la concezione dogmatica del ruolo all’interno di uno schema di gioco, per riempirla di nuovi e diversi significati ad ogni giocata di rilievo.

Il suo soprannome, El arquitecto (l’architetto), è dovuto proprio a questo.
Cesc costruisce e crea gioco, ma lo fa a modo suo, unendo la sua capacità di inventare calcio ad una visione di gioco stilistica.
Un atteggiamento in campo, il suo, che restituisce centralità al gioco stesso: con Fabregas naturalmente al centro della manovra e tutto il resto a gravitargli intorno.
È l’anima culé che si fonde col pensiero british, un equilibrio che Cesc ha preservato intatto fino al 2013/2014, primo anno di Mourinho a Stamford Bridge, poi intaccato dalla seconda pessima stagione del lusitano e sgretolatosi infine col biennio Conte.
Imbrigliato prima in rigide logiche difensiviste per salvare una stagione disastrosa, ingabbiato successivamente dal rigore tattico del tecnico italiano, che lo ha portato progressivamente ad arretrare il suo raggio d’azione in mediana, Fabregas ha finito col perdere progressivamente lo smalto dei tempi migliori (con i numeri che certificano questo crollo: dal record di 19 assist della Premier 2014/2015 ai 4 della passata stagione).
E con l’avvento di Sarri, le cose non sono andate meglio.
Il dogmatico ex allenatore del Napoli lo ha infatti estromesso dal centrocampo ed al tempo stesso escluso un suo utilizzo sulla trequarti.
Certo non più dotato del dinamismo di inizio carriera, Fabregas è risultato abbastanza incompatibile con la filosofia di gioco di Maurizio Sarri, ma il suo eclettisimo, la sua classe, la sua versatilità avrebbero potuto far molto comodo come variante del 4-3-3 sarriano.
Non è difficile immaginare la differenza che lo spagnolo avrebbe potuto fare nel ruolo di trequartista, senza troppi compiti difensivi, con gli avanti blues Willian, Pedro ed Hazard falso nueve.
C’è sempre tempo per cambiare un destino

Ora c’è da vedere come Cesc entrerà in sintonia con l’ambiente francese.
In un contesto tecnico e tattico meno esasperato, con spazi più ampi da sfruttare e pressing meno asfissiante, forse potrebbe tornare a giocare come più gli si addice, liberando la mente e riaffermandosi come centro gravitazionale del gioco dei monegaschi.
Al netto del gol contro il Tolosa alla sua quarta presenza, diventa difficile quanto inutile esercizio di stile giudicarne sin da subito prestazioni e rendimenti.
Cesc è infatti un calciatore che deve innanzitutto ritrovarsi, ricostruirsi un’identità e ritrovare fiducia dentro come fuori dal campo.
In un certo senso, da un punto di vista karmico, sembra proprio destinato a questo Monaco, a sua volta alla ricerca delle sue note migliori dopo momenti iper difficili.
Solo il tempo saprà dirci se questa sarà una scommessa vinta oppure un ulteriore passo falso, il che getterebbe a quel punto più ombre che luci sul presente e sul futuro tanto di Fabregas quanto dello stesso Monaco.
Ma se il presente è da costruire ed il futuro indecifrabile, non resta che rivolgersi al passato che conosciamo e domandarci: avrebbe forse potuto imparare qualcosa in più Fabregas dai suoi errori?
Probabile, ed il Monaco rappresenta forse l’ultima chance che ha per non passare alla storia come un incompiuto.
Fabregas, infatti, non si è mai probabilmente considerato al livello dei migliori centrocampisti del suo tempo, finendo per accontentarsi di quanto già non avesse raggiunto, e di conseguenza, giocarsi male le sue carte nei momenti cruciali della sua carriera.
Così come a Barcellona non ha saputo aspettare il suo momento, all’apice della sua esperienza all’Arsenal, per troppo amore, non ha forzato per tornare qualche anno prima in Catalogna pur avendone la possibilità.
Al Chelsea invece è stato messo in discussione il suo modo di giocare senza riuscire ad imporsi né come leader tecnico né tanto meno carismatico.
Ma per cambiare il proprio destino e risalire il crinale di una carriera in apparente declino c’è sempre tempo.
Anche a 31 anni. Soprattutto se hai il talento e la storia di Cesc Fabregas.

Classe 1988, laureato in Giurisprudenza, consulente. Ad un passo dell’addio al calcio tifato, è arrivato Guardiola a scombussolarlo e a farlo sentire come un pallone calciato al volo da Ibrahimovic all’incrocio. A scuola, nell’ora di educazione fisica dovrebbero leggere Cruyff.