Dopo più di quarant’anni di assenza del tennis azzurro dalle ATP Finals, Berrettini stacca l’ultimo biglietto per giocarsela con i migliori tennisti al mondo
Prendiamo una matita, un pennarello, un gessetto, e disegniamo una linea.
Immaginiamola lunga, lunghissima, come se avessimo a disposizione quelle lavagne interminabili da aula magna universitaria.
Forse solo arrivati all’estremo della lavagna avremo spazio a sufficienza per segnare, sotto la linea, tutti i nomi dei tennisti italiani che son stati indicati negli ultimi trent’anni (tenendoci stretti) per aspirare ad un grande risultato nel circuito maschile.
Potremo segnare i nomi di tennisti fantastici che hanno, nonostante tutto, tenuto uno sport in vita all’interno dello stivale. Alcuni hanno raggiunto buoni risultati, altri meno. Alcuni avevano le armi per fare molto di più, altri si sono fatti carico di un bagaglio troppo leggero, andando comunque più lontano di quanto ci immaginassimo in partenza.
Nessuno, di quelli sulla linea, è mai entrato in quel cerchio ristrettissimo della Top Ten: recinto di pochi eletti e di qualche tennista che nel corso degli anni è entrato e uscito senza far notizia e senza che nessuno si dispiacesse troppo del suo allontanamento. Sfiorato da tanti dei nostri e raggiunto per poche settimane solo da quel Fabio Fognini che, dopo decenni, illuminava un terreno ormai dimenticato, quasi chimerico, per i tennisti italiani.
Poi quel lumicino è diventato luce, faro, lampo accecante. Quel bagaglio è stato preso da Matteo Berrettini, che in quel recinto è arrivato per restare, e non solo per passare a godersi il panorama. Forse è un po’ troppo presto per segnare su quella lavagna i nomi dopo Berrettini, ed è giusto (e forse anche meglio) che la nuova generazione di tennisti moderni made in italy cresca ancora un po’ sotto l’ombra rassicurante del tennista romano, che tra pochissimo debutterà nelle ATP Finals.
Sfatare il tabù
Sì, Matteo a ventitré anni è tra i migliori otto.
Quarant’anni dopo Panatta e Barazzutti è riuscito ad arrivare dove nessuno in quella linea sulla lavagna era mai arrivato. È tra i più forti, i più promettenti, i più vincenti.
E ci è arrivato al termine di un anno in cui il suo bagaglio si è riempito di torneo in torneo, affinando i fondamentali fino a farli diventare devastanti. Devastante come quel dritto che richiama i bombardamenti di Juan Martín Del Potro, ultimo a indossare la fascia di miglior dritto del circuito (più piatto e pesante il fondamentale dell’argentino, più lavorato quello di Matteo) ora pronta a passare in mani italiane.
La carriera di Matteo è appena iniziata e queste Finals sono per lui poco più che un battesimo, una seconda partenza. È un dire “io ci sono” ai più forti del mondo, senza alcun timore reverenziale.
Domani il crash test sarà contro un Novak Djokovic deciso a riprendersi la vetta del Ranking. Il serbo sarà la prima tappa di un girone di ferro (in cui l’altra sfida è Federer – Thiem) che a Matteo servirà soprattutto per prendere le misure del salotto buono. L’obiettivo è quello di essere il giocatore di casa nelle future Finals di Torino.
Poi a prescindere dal risultato finale di Londra il bello arriverà a inizio gennaio quando, dopo il periodo di (meritato) riposo, si tornerà in pista in Australia. Stavolta sì, con l’obbiettivo di stupirci per davvero.
Vola Matteo, vola, fin dove osano le aquile.

Per sempre grato al serve and volley, al piano sequenza e al doppio passo.