El Superclásico

Sarebbe bello se Carl Gustav Jung avesse avuto ragione. La sua teoria dell’inconscio collettivo ha affascinato scienziati e scrittori, ma a quanto pare non ha basi scientifiche. Resterà per sempre una teoria, per quanto coerente ed estremamente affascinante.

Ma se lo psicologo svizzero avesse davvero avuto ragione, allora — forse — oggi sarebbe possibile, magari tramite ipnosi collettiva, far scendere tutti quanti noi di un paio di gradini nel nostro animo e andare a scavare là dove non si va quasi mai, se non durante le fasi rem più profonde. E si potrebbe entrare insieme in un ideale campo di battaglia, abbracciando magari un’altra idea, quella di George Orwell, secondo cui lo sport altro non è che guerra senza le fucilate.

Un esperimento collettivo, con queste premesse, sarebbe probabilmente possibile. Si potrebbe riunire un buon numero di persone in un anfiteatro chiuso, con le luci soffuse, e chiedere loro di chiudere gli occhi, immaginando la più incredibile battaglia sportiva che venga loro in mente.

E se Carl Gustav Jung avesse davvero avuto ragione la risposta — collettiva — non potrebbe che essere una e una soltanto.

UN SUPERCLÁSICO DA SOGNO

Sul Rio della Plata di derby ce ne sono un’infinità, così come nel corso della storia sono state tantissime le stracittadine infuocate, storiche e decisive tra quei due club che — quando si incontrano — formano la partita più famosa del mondo. Per questo motivo gli psicologi junghiani che vi hanno ipnotizzato vi hanno chiesto di concentravi su un Boca-River giocato tra i migliori Xeneizes e i migliori Millonarios che hanno vestite le rispettive casacche nell’ultimo decennio.

Immaginate quindi di scendere nel vostro inconscio e di trovarvi a Buenos Aires. A stagione — quella europea — terminata e pertanto, trovandovi alla fine del mese di giugno, in pieno inverno australe caratterizzato da piogge e un clima difficilmente sopra i 15 gradi. In città, da settimane, non si parla d’altro: i migliori giocatori di Boca e River degli ultimi 10 anni — la cui identità verrà resa nota solamente al momento della lettura delle formazioni — scenderanno in campo per un match di beneficenza che ha già fatto segnare il tutto esaurito. Immaginate — voi sottoposti all’esperimento collettivo — che per evitare problemi di ordine pubblico la partita si giocherà nel territorio dell’Interior, magari nelle provincie di Santa Fé o di Córdoba, come peraltro molto spesso avviene nel corso dell’estate australe quando le due squadre si incontrano per fare e (far fare) cassa.

E finalmente siete al giorno della partita. I 22 — così come i panchinari e chi resterà in tribuna — sono tutti schierati. Non resta da svelare l’identità degli invitati.

PARTITA  – PRIMO TEMPO

Causa traffico siete però in clamoroso ritardo e vi perdete la lettura delle formazioni. Per scoprire chi sono i giocatori invitati non vi resta che gustarvi la partita.

Sarà anche un incontro di beneficenza, ma dopo cinque minuti sono iniziati a piovere insulti in porteño e entratacce. Dell’organizzazione del comitato di benvenuto si è occupato per primo — come sempre — Walter Samuel che ha messo subito le cose in chiaro, spendendo subito un fallo da cartellino giallo per non aver più a che fare con l’avversario che solitamente, impaurito, gira al largo per il resto della partita. Vittima delle sue attenzioni, lo riconoscete subito nonostante i capelli ormai grigi, è Hernán Crespo. Non è che Walter ce l’avesse proprio con lui — emergerà poi nel corso delle interviste post-gara — è che Crespo (che con Samuel ha giocato tre anni all’Inter) ha parlato male della Bombonera proprio alla vigilia di Argentina-Perù valevole per le qualificazioni al campionato del mondo 2018. Sul quotidiano sportivo “Olé”, Crespo ha dichiarato che la Bombonera “trema perché è fatta male”, quasi sbeffeggiando il detto dei tifosi bosteros secondo cui il loro catino non solo tiembla sotto i colpi del loro tifo, ma addirittura late, pulsa come un cuore. Ma Crespo è Crespo: in una intervista per il programma di Italia 1 “Le Iene”, alla domanda “Qual è la donna più bella del mondo?” rispose: il River Plate. D’altraparte tre anni di gloria in biancorosso sono difficili da dimenticare. Ma anche Samuel è fatto così: prima di vincere tutto in Europa si è fatto notare (e sentire) in azul y oro tra il 1997 e il 2000 quando col Boca — cui approdò tramite Newell’s, dove era noto come Walter Luján, dal nome del suo padre biologico che però lo abbandonò in tenera età — vinse anche la Copa Libertadores del 2000.

Del calcio di punizione dalla tre quarti si occupa un ex biondo: “Che strano — deve aver pensato — ho fatto la fortuna di almeno due squadre europeo giocando da diga, ma quando vestivo la maglia bianca con la banda rossa facevo il trequartista. E d’altraparte vengo dalla scuola dei numeri dieci: dalla cantera dell’Argentinos Junior vengono nientemeno che Maradona e un altro 10 che ho qua di fronte oggi come avversario. Io però — che per i miei tifosi sono umile e intelligente — so quel che valgo e so che per almeno dieci anni dove c’era il pallone c’ero anche io e superarmi è stato difficile per tutti i numeri 10 avversari. Mi chiamo Estaban Cambiasso e adesso, ancora una volta, sorprendo tutti. Non sono né veloce né particolarmente tecnico, ma tutta la difesa si aspetta il pallone in area e io, che se faccio qualcosa di banale mi sento poco bene, vedo libero un giocatore che ho finto sino a questo momento di non considerare”.

Sull’esterno, a destra, c’è uno che invece in fatto di combinazione di velocità e tecnica non ha probabilmente eguali al mondo e che a quei geni degli osservatori dell’Udinese non è sfuggito. Quando era al River aveva 19 anni, ma spaventava tutti. Si chiama Alexis Sánchez, e non c’è giocatore al mondo che voglia trovarselo davanti in un uno contro uno. Nella biografia scritta per lui da Danilo Diaz e Nicolás Olea — “El camino de un crack” — si legge che quando era un ragazzino superava tranquillamente, palla al piede, ragazzi ormai uomini che avevano cinque anni in più rispetto a lui. Chiamarlo Niño Maravilla è stato un attimo.

Vittima sacrificale della freccia cilena è uno delle risposte alla domanda “Come può l’Argentina zoppicare in fase di qualificazione ai Mondiali con una squadra di questo tipo? Con un attacco di questo tipo?”. Precisazione doverosa. Se Juan Sánchez Miño è uno dei migliori terzini provenienti dal Boca degli ultimi 10 anni, forse qualche domanda la scuola argentina deve farsela. Per carità: ottimo sinistro, buonissimo atleta, capace di coprire quasi tutta la fascia. Col Boca, nelle non felicissime stagioni successive a quel torneo apertura del 2011 quando il Boca fu anche campeón invicto (campione senza sconfitte), l’esterno mancino si mise in mostra. Se ne accorsero anche al Toro, dove però Sánchez Miño non si trovò benissimo: difficile collocarlo tatticamente nel nostro campionato, senza contare che il pubblico granata è abituato a pretendere maggiore garra dai propri beniamini. E in pochi attimi, tornando al nostro esperimento di ipnotizzazione di massa, il malcapitato esterno mancino viene infilato da Alexis Sánchez che mette un bolide al centro sul quale si avventa un altro dei non-argentini presenti in campo.

La tradizione dei colombiani in Argentina è tutt’altro che da sottovalutare. Se chiedete ai tifosi del Boca della grande squadra dei primi anni 2000 vi parleranno del Boca de los colombianos per la contemporanea presenza del centrocampista Mauricio Serna, di Jorge Bermudez — capitano — e di un portiere, lui pure invitato a questo particolare Boca-River. E anche al Monumentál se ne sono visti, specie in tempi più recenti. Il più rappresentativo è senza dubbio l’autore del gol dell’uno a zero di questa particolare partita: il genio predatorio di Radamel Falcao, quattro anni di River Plate — un torneo clausura nel 2008 — prima di cedere alla sirene europee, giusto due anni prima che la sua ex squadra finisse in B Nacional a seguito di una scellerata gestione anche dei quattro milioni e mezzo di euro conseguenti alla sua cessione.

Uno a zero per il River, pelota al medio.

Il Boca non sembra però aver accusato il colpo. A dare la carica sono i due frangiflutti, la spina dorsale di quel 4–2–3–1 un po’ allegro, ma mantenuto solido proprio grazie a quei due volantes. E dalla loro grinta. Uno dei due sembra un pitbull per come si muove sul campo. No, un attimo: È un pittbull. Uno di quelli che il cartello “attenti al cane” se lo mangia e che pensa che la paura sia una di quelle cose che capitano sempre agli altri. Viene dal Cile — e pertanto per gli avversari insultarlo diventa ancor più facile — e ai derby è abituato. Soprattutto ai Superclásicos. Segna poco, pochissimo, ma i tifosi del Boca se lo ricordano bene: è quello che nel torneo clausura del 2010 ha firmato il derby con addirittura due gol. Si chiama Gary Medel e in quella partita, colto dall’entusiasmo, venne addirittura espulso. Un’Inter in piena ricostruzione lo ha portato a Milano, dove le sue fortune — tra difesa e centrocampo — sono state alterne. Ma a tutti è sembrato di avere davanti uno dei più grossi mastini da calcio dell’ultima decade.

Il suo compagno di avventura è un soggetto che ha recentemente ridefinito la nozione di dolore fisico. Nel semitragico 0–0 interno dell’Argentina contro il Perù, Fernando Gago si è rotto il crociato in un’azione di gioco — non il primo brutto infortunio che lo colpisce — e ha “chiesto” ai massaggiatori di rimetterlo in condizione di poter giocare. Uomo del Boca dalla tenera età, è passato presto ai Blancos di Spagna e anche alla Roma, per poi tornare alla casa madre. Ma la sfortuna ce l’ha avuta con lui più del necessario e la sua carriera — pur brillante — è sempre stata zoppa. Lui però al fato avverso ha risposto con la carica di quei due, i quattro davanti più che correre volano. E per la ripartenza ci si affida al passo felpato, magari non rapidissimo, ma in qualche modo sempre in anticipo sull’avversario di un ex capelluto, che di quell’esperienza da capellone conserva, gelosamente, solo una treccia. In campo è disponibile (per usare un eufemismo), davanti ai microfoni è umile ed è concittadino di un altro che in quanto a mezzi atletici non ha mai primeggiato, ma che ha fatto dell’autodisciplina, dell’applicazione tecnica delle proprie doti e — probabilmente — dell’andare a letto presto uno stile di vita. Quest’ultimo si chiama Emanuel Ginóbili e il suo concittadino — entrambi sono nati a Bahía Blanca — ex Boca è Rodrigo (detto TrenzaPalacio. Entra in campo come entra nel cuore dei tifosi: per non lasciarlo mai. Ha strappato lacrime e applausi quando ha abbandonato la Bombonera, il Ferraris e il Meazza, anche se negli ultimi due casi la bacheca dei trofei è rimasta vuota. Non in azzurro-oro però: tre campionati e la Libertadores del 2007.

La palla arriva subito a Palacio, lanciato nello spazio: sembra in ritardo e il suo diretto marcatore tenta anche di intimidirlo. Di esperienza, quest’ultimo, ne ha da vendere: ha giocato nel Bayer Leverkusen dei miracoli, quello di Lucio e di Ballack che si arrenderà solo alla girata volante di Zidane nella finale di Champions League di Glasgow. Per quattro anni però ha interessato i club europei, ma non avrà la stesse fortune dei due compagni di squadra citati sopra. Si chiama Diego Placente e superarlo non è mai stato facile. In quell’ideale uno contro uno tra ex capelloni però la spunta Palacio che mette in mezzo e trova la zampa rapace di uno dei più appassionati tifosi azul y oro che il campo abbia mai visto.

Per carità, non è né un santo né il salvatore della patria. Quando è finalmente tornato a casa, dopo un paio di stagioni spaventose con la Juventus, non ha saputo resistere al richiamo degli yuan che attualmente riempiono — e non poco — il suo conto corrente bancario. Ma allo stadio “Alberto José Armando” se lo ricordano con affetto. Meno al Monumentál, dove rischiò il linciaggio, venendo salvato da un arbitro colombiano che per quell’esultanza decise — saggiamente — di cacciarlo. Probabilmente però a Carlos Tévez, appena ventenne all’epoca, non deve essere importato granchè. Aveva appena segnato il gol dell’1–1 in casa del River, al minuto 88. Con quella realizzazione il Boca era ad appena due minuti dalla finale della Libertadores del 2004 con i colombiani dell’Once Caldas grazie all’1–0 rimediato all’andata. E quindi perché non esultare prendendo per i fondelli un Monumentál muto? Perché non esultare mimando una gallina, soprannome dispregiativo con cui quelli del Boca apostrofano i rivali, gallinasappunto. La sorte volle poi un gol del River a tempo scaduto e i calci di rigore (nella Libertadores dell’epoca non esisteva la regola dei gol in trasferta) ai quali passerà il Boca che poi perderà la finale. Ma Carlos Tévez, che poi volerà in Europa via Corinthians, sarà per sempre un idolo azul y oro. Yuan permettendo.

Uno e uno palla al centro. Al calcio d’inizio il genio di Cambiasso torna a mettersi in moto: l’ex biondo cerca subito la testa di Crespo, sovrastato però in anticipo dall’altro centrale difensivo che fa compagnia a Samuel. Si tratta di un giocatore tutt’ora in attività, attualmente in forza al Torino, che oltre ai Superclásicos dalla vita ha avuto una richiesta di impegno extra, decisamente più serio e importante. Nel gennaio del 2005, mentre si trovava nella casa milanese di Cambiasso, insieme anche a Kily Gonzalez e alle rispettive famiglie, la sua figlioletta di pochi anni cadde battendo lievemente il capo e procurandosi un bernoccolo. Del tutto normale per un bimbo. Quello che era meno normale era che quel bernoccolo non tornasse al suo posto anche a settimane di distanza. I successivi controlli diedero un esito terrificante e inaspettato: leucemia infantile. Il giocatore dovette smettere di giocare, proponendo alla sua squadra dell’epoca, l’Inter, la risoluzione del contratto. Moratti, però, gli concedette una sorta di aspettativa senza condizioni e la stagione successiva — con Mancini che già lo aveva inserito in lista Champions, quasi al buio — tornò in campo. E se oggi Angelina Burdisso può vivere felicemente la sua adolescenza, lo deve anche alla forza di Nicolás Burdisso, che per lei, da 24enne, era disposto anche ad abbandonare la professione. E figurarsi se lui, attuale numero 13 del Toro (ma all’Inter indossò per un periodo anche la maglia numero 3 che fu di Facchetti) si spaventa per un Boca-River. L’amore per lui di tifosi e compagni di squadra fu incondizionato. In quella che fu ribattezzata “La Corrida di Valencia” (terrificante rissa post partita del marzo 2007) il far west iniziò con un pugno preso da Burdisso (nell’occasione centrocampista, vista la serie di infortuni contemporanei di tutti i mediani in quel periodo in forza all’Inter). Si scatenarono, tra gli altri, Julio Cruz e Iván Córdoba, per vendicare l’amico. L’impressione, da fuori, è che se quel pugno l’avesse preso qualcun’altro la vendetta sarebbe stata meno ricercata.

Il colpo di testa di Burdisso rispedisce il pallone nella metà campo avversaria, fin sui piedi dell’omologo in maglia biancorossa. Più che un giocatore, una colonna di tutte le squadre in cui ha giocato. A 18 anni era titolare fisso al River Plate, dove ha conquistato due campionati tra il 2002 e il 2003. Poi trofei in Germania e Inghilterra, tra Bayern Monaco e Manchester City. Insieme a Samuel, l’ultimo grande centrale della nazionale Argentina, con la quale ha sfiorato il mondiale del 2014, da titolare. Provate a passare oltre Martín Demichelis. Un atleta in grado anche di fare reparto da solo, anche se di fianco ha un altro buon giocatore. Magari il suo livello è leggermente inferiore al titano che ha di fianco, ma certamente non è da buttare. Mario Yepes, colombiano, ha collezionato presenze ovunque e al River è approdato nel 1999 contribuendo ai due campionati del 1999 e del 2000, quando i biancorossi vinsero apertura e clausura. Dietro, a chiudere tutto, c’era Yepes: davanti Javier Saviola (poi volato a Barcellona) e un altro colombiano, Juan Pablo Ángel, visto anche con la maglia dell’Aston Villa. Resta nei cuori di tutti i tifosi rossoneri per la clamorosa Lecce-Milan 3 a 4 in cui proprio lui segnò il punto della vittoria.

Il gioco ha un attimo di respiro e langue sotto la pioggia dell’inverno australe. Un retropassaggio al portiere, un rinvio sghembo e qualcuno comincia a sbadigliare. Non fosse che improvvisamente il pallone entra in porta. Dal rinvio del portiere qualcuno, un pazzo, ha respinto di testa cercando volutamente la porta. E trovandola. Non è la prima volta che questo gigante, questo Titán, mette a segno un gol del genere. È vero, la prima cosa che viene in mente in Europa parlando di Martín Palermo, sono una carriera non entusiasmante tra Villareal e Betis Siviglia e soprattutto i famosi tre rigori sbagliati in una partita con la maglia della Selección. E se non è record, poco ci manca. Ma di record, positivi, al Boca se ne ricordano un altro: più di 230 gol in azzurro e oro, in due intervalli (tra il 1997 e il 2000 e tra il 2004 e il 2011) in cui ha portato a casa tutti i trofei dell’America meridionale. Al suo ritiro la Doce gli ha fatto un regalo sobrio: la porta da calcio che sorge proprio davanti alla parte più calda del tifo Xeneize. Imbarazzato rispose: “Non so se ho posto a casa, vedrò di sistemarla”. Le sue imprese sono molte, dai gol nei Superclásicos (tanti) alla rete sotto un acquazzone torrenziale che permise all’Argentina di Maradona — piuttosto contestata — di approdare ai Mondiali di Sud Africa 2010. Tra le preferite dai Bosteros c’è però il gol — tanto per cambiare — al River nella Libertadores del 2000 quando, rientrando decisamente troppo presto da un infortunio, volle essere in campo per dare morale ai suoi.



Raramente alla Bombonera si è verificata un’esplosione simile.

Due a uno per il Boca quindi. Quelli del River non ci stanno. In particolare lui, con quel carattere spigoloso, con l’aria di uno che te le promette, anche se di mestiere fa l’attaccante. Sarà anche nato in Bretagna — il padre all’epoca faceva il difensore per il Brest — ma il suo cuore è bianco con una banda rossa sopra. Giovanili e esordio sono stati all’ombra dei gradoni del Monumentál, dove ha impressionato argentini e europei, facendo scatenare una gara nelle finestre di mercato. La spunterà, come sempre, il Real Madrid. In questa ideale partita viene schierato come esterno d’attacco, ruolo che ad inizio carriera poteva tranquillamente ricoprire. Dimenticate il fisico rotondo di oggi: nel 2006 — guardacaso in un caldissimo Superclásico — Gonzalo Higuaín era capace di sgroppate maradoniane come questa. Fisico e connotati sono irriconoscibili, ma il tocco di palla e la voglia di fare gol sono un marchio di fabbrica. E nell’ideale Boca-River che sta giocando, prende palla sulla sinistra, salta anche i coriandoli gettati in campo dai tifosi e segna il 2–2, mostrando gli addominali di 11 anni fa.

Intervallo. Necessario a tifosi e giocatori. Nella speranza che non si ripeta l’episodio degli ottavi di finale di Libertadores del 2015 quando nel tunnel — che passa proprio sotto la Doce, alla Bombonera — volò dello spray al peperoncino che costrinse quelli del River a blindarsi nello spogliatoio. La partita fu decisa a tavolino: River ai quarti, Boca escluso e multato. E quella Libertadores l’alzò proprio il River, che con quella vittoria segnerà per sempre il suo ritorno tra le grandi, dopo l’esperienza in serie B tra il 2011 e il 2012. Questa volta però le squadre tornano subito in campo. Erano previste sostituzioni, ma nessuno dei titolari vuole smettere di giocare. Troppo conti aperti, troppi giocatori abituati a segnare un gol al diretto avversario e ancora a secco. Come il 10 di quelli in maglia giallo-blu.

Si tratta di un caso raro anche per l’Argentina. Per motivi sconosciuti, è una persona della quale è noto più che altro il secondo nome, che gli calza talmente a pennello da sostituirne il nome sulla maglia (quantomeno nella sua seconda esperienza al Boca) e da entrargli quasi nel documento di identità, da solo. Del primo nome Juan e il cognome Riquelme quasi non c’è bisogno. Superfluo anche ricordare il numero di maglia, anzi: per qualche anno qualcuno in Argentina ha creduto di essere finalmente di fronte all’erede del 10 per eccellenza, con la sola differenza riguardante il piede prediletto. Ma i paragoni con i semidei non sono mai consigliabili e lo splendore della carriera di Román è meno lucente se osservato da questo punto di vista. Ma da tutti gli altri angoli, la vita sportiva di Riquelme è quella di una divinità dell’Olimpo. A costruire il parallelo con Maradona ci ha messo certamente del suo: le orme sono state le stesse, dalle giovanili dell’Argentinos Juniors alla prima linea del Boca campione del Sudamerica e del mondo nella lezione impartita al Real Madrid.



I tifosi del Barcellona lo hanno ringraziato talmente tanto di quella prestazione che devono averlo abbracciato a braccia spalancate quando ha messo piede all’aeroporto El Prat. Ad abbracciarlo un po’ meno fu Van Gaal che lo schierò da esterno, fancedogli perdere completamente la bussola. L’anno dopo Román se ne andrà al Villareal, Van Gaal verrà esonerato e in blaugrana si presenterà Ronaldo de Assis Moreira, Dinho per gli amici, che se fosse stato schierato da esterno forse avrebbe risposto con una risata delle sue. Restando su Riquelme: al Villareal viene amato come Maradona al Napoli, ma non riuscirà a dare al Sottomarino Giallo l’alloro della vittoria. Arriverà a pochi centimetri dalla finale europea, venendo fermato dai guantoni di Jens Lehmann che parerà il calcio di rigore decisivo — calciato proprio dal 10 — permettendo al suo Arsenal di volare a Parigi per la finale di Champion’s, contro il Barcellona. Riquelme tornerà in patria, dove solleverà trofei col Boca. In questa ideale partita si toglie una soddisfazione: alla prima punizione disponibile la spara in porta.

Per la mera cronaca: in quell’occasione Riquelme disse qualcosa come “qui, no!”, in direzione della panchina ospite. Ma a pochi minuti dalla fine, con un copione hollywodiano, segnerà il River che vincerà il Superclásico, il primo dopo il ritorno nella massima serie. In questa ideale partita Riquelme aspetta una e una sola occasione. L’avrà quando verrà steso al limite dell’area da un difensore biancorosso, interessante prospetto e speranza per la retroguardia della nazionale.

Classe 1991, titolare fisso in nazionale dalla Copa América che l’Argentina perse in finale ai rigori contro il Cile. Ha anche segnato un paio di gol fondamentali, uno proprio per la Selección, uno per il suo attuale club, l’Everton. Il primo ha dato il vantaggio all’albiceleste nel match d’andata contro il Peru, e di ‘sti tempi per l’Argentina anche i gol dei difensori vanno benissimo; l’altro, invece, è quello che l’ha fatto entrare nei cuore dei tifosi del lato blu della Mersey.



Una segnatura all’ultimo minuto nella semifinale di Coppa di Lega contro il Manchester City. Oltre a quello ci sono le doti atletiche e tecniche. L’Argentina del futuro riparte anche da Ramiro Funes Mori. Col River ha vissuto e vinto tutto: dall’onta della serie B alla Libertadoresdel 2015. E a proposito di Superclásicos: prima di prendere il battello per l’Europa ha lasciato la propria firma sul campo del Boca con il colpo di testa vincente nel derby vinto dal River nel 2014.



E il calcio di punizione di Riquelme, inesorabilmente, va dentro. Dopo il vantaggio del Boca, in casa River calano un po’ la tensione e l’entusiasmo. Per risollevare il morale c’è bisogno di quello che in molti considerano il vero leader e capitano dell’Argentina, la cui fascia è sul braccio di Messi — sempre vedendo la questione da questo particolare punto di vista — a furor di sponsor. Ma il vero jefe, anzi jefecito perché il personaggio in questione non è un gigante, è un altro. Ha tanto carattere quanta tecnica, e il mix è esplosivo. Mediano vecchio (vecchissimo) stampo, ma con le idee di un futurista del pallone. Appoggia al proprio attaccante con la stessa forza con cui supera dolori fisici terrificanti. Sono famose le sue dichiarazioni dopo la semifinale dei Mondiali del 2014, quando disse che a seguito di una scivolata per fermare uno scatenatissimo Arjen Robben si rese conto di essersi “aperto” (sic) una parte molto intima del fondo schiena. Giocherà la finale (in modo meraviglioso) tappezzato in qualche modo dallo staff tecnico. Esiste una foto che ritrae un già sconsolato Messi — la fascia sul braccio — in attesa dell’inizio dei supplementari della finale contro la Germania, mentre tutta la squadra fa quadrato attorno a un urlante Javier Mascherano, cuore pulsante di quel gruppo. Del River è un canterano: non ebbe altra divinità che il Monumentál — ma in un caso più unico che raro, e per iniziativa di Marcelo Bielsa, debuttò prima in Nazionale e solo successivamente nella prima squadra del River — sino a quando un danaroso Conrinthias non lo prelevò, insieme a Tévez, per portarlo in Brasile dove conquistò subito il campionato. Anche per lui poi suonarono le sirene europee e si imbarcò in direzione dell’east-end londinese in compagnia proprio dell’Apache. Gol in carriera? Pochissimi, ma chi ne ha bisogno?

Questa però più che una partita e un sogno e per una volta anche il “capetto” va a segno.

Magari con un tiro più di precisione che di potenza.


Magari così

Modo di fare tipico di chi sa di non avere la dinamite nei quadricipiti e non ha altra soluzione far funzionare i muscoli del cervello. Tre a tre, partita spettacolare. Ma il River ha ancora benzina e soprattutto ne ha la freccia cilena. Due minuti dopo il pareggio millonario Cambiasso trova libero sulla destra Sánchez che salta netto il malcapitato quasi omonimo Sánchez Miño e vola contro i tabelloni pubblicitari. Ma cosa è successo? Si accende una rissa — non una novità per i Superclásicos — dalla quale esce l’arbitro con solo un giallo (dovrebbe essere un’amichevole per beneficenza, non si possono estrarre 22 cartellini rossi in un colpo solo) destinato all’autore del fallaccio, una spallata che sarebbe fallo anche in altri sport più rudi che costa al povero Niño Maravilla un viaggio in ospedale, al Boca un calcio di rigore e al difensore, come detto, un giallo. A fermare il cileno è stato un terzino massiccio, non estremamente elastico, ma che col Boca è stato campione imbattuto nel 2011. Non è né il nuovo Zanetti, né la soluzione ai problemi calcistici del Paese, ma con la sua solidità si è guadagnato la presenza da titolare fisso tra Firenze e Genova, sponda rossoblù. El Torito gioca così: più fisico che tecnica, prendere o lasciare. E in questa ideale partita, per la parte destra della difesa, non ci sono alternative migliore di Facundo Roncaglia.

Calcio di rigore. Sul pallone vuole andare Higuaín, anche se Yepes lo vuole avvertire. Al Milan, gli dice (siete narratori onniscenti, carpite tutto di quella ideale partita), qualcuno ne parla ancora. Non è il nuovo Lev Yashin, ma nella finale di Intercontinentale del 2003 ha ipnotizzato nientemeno che Pirlo e Seedorf. E quella non era nemmeno la prima Intercontinentale che si portava a casa, aveva già fatto fuori il Real Madrid, tre anni prima. Lo chiameranno anche papero, ma in porta ha pochi eguali. E infatti Roberto Abbondanzieri quel rigore lo para, come fece proprio a Yokohama quel 14 dicembre di 14 anni fa.

Higuaín è disperato, ma non sa che la sua tristezza potrebbe essere senza consolazione perché trenta secondi più tardi si è già in area dall’altra parte, con Palacio che come al solito ruba il tempo a difensori che valgono il doppio rispetto a lui — specie sul piano atletico e fisico — e arriva davanti al portiere. Ma l’accoppiata tremenda formata da Demichelis e Yepes lo stende. L’arbitro dovrebbe espellerli entrambi, ma fa finta di niente e decreta solo il rigore all’ultimo secondo di gioco per quelli in maglia giallo-blu. E sul pallone va un’altra delle tante bandiere presenti in campo, questa volta di parte bostera, Tévez.

L’Apache è tranquillo. In porta non c’è praticamente nessuno, sta pensando. Sì, bravo ragazzo, ci ho giocato contro anche in Europa, ma niente di che. È vero, tra i pali del River, questa sera, non c’è un fenomeno. Ma la sua carriera lo giustifica: non ha mai giocato in una situazione tranquilla — tranne forse il 2008, dove ha vinto il torneo clausura da titolare — ma non si è mai tirato indietro. Lo ricordano, forse anche con un po’ di affetto, tra Lazio e Catania dove ha giocato in ogni condizione climatico-societaria. Lo ricordano anche all’Inter, dove però in 4 anni lo hanno visto poco, data la contemporanea presenza, da titolare inamovibile, di Samir Handanovic. E se lo ricordano eccome anche al River, magari a fasi alterne: bene per i primi anni, malissimo per la seconda parte della carriera, che lo vide anche scendere in B coi suoi. Ecco, lui però c’era. E quindi, Superclásico più, Superclásicomeno, è presente anche questa volta. Tévez parte, ma la sua bordata è troppo centrale: Juan Pablo Carrizo non si muove e respinge coi pugni. È finita. Carrizo esulta, sente di essersi levato di dosso l’onta di quel maledetto autogol di quella maledetta stagione e per una notte torna a essere il portiere del Clausura 2008.



Una partita che è certamente valsa il prezzo del biglietto e di tutti i problemi connessi col vedere una partita dal vivo in Argentina. Un match anche ben arbitrata — se non si sta a guardare in modo troppo pignolo il libro del regolamento — dal fuoriclasse del fischietto Horacio Elizondo, uomo lontano da polemiche calcistiche e arbitro, tra le altre partite, anche della finale mondiale del 2006. Ha lavorato anche per il governo argentino, cercando di mettere a punto una politica per porre un freno alle violenze sugli spalti.

Un match anche ben allenato, se non stiamo a guardare il fatto che sì, in effetti, una sostituzione la si poteva anche effettuare. Sulla panchina del Boca, per questa ideale partita, c’era un personaggio controverso. In Italia non vede (o finge di non vedere) il talento di Francesco Totti, che a causa delle poche presenze in campo, stava per abbandonare la sua Roma per la Sampdoria. Ma in Argentina quelli del Boca lo chiamano Virrey (Vicerè) perché non esiste coppa che non abbia sollevato. Tra il 1998 e il 2004 Carlos Bianchi ha fatto esultare i suoi tifosi, poi ci riproverà con l’Europa, ma non andrà oltre un decimo posto con l’Atlético Madrid. Sette anni più tardi aver appeso il taccuino al chiodo, tornerà in giallo-blu senza raccogliere però nulla.

Il suo omologo per il derby di beneficenza non poteva che essere uno dei principali artefici del nuovo River, confermato a furor di popolo. Anche perché la dirigenza ha da farsi perdonare il fatto di aver chiamato in panchina tale Juan José López, che non solo indossò per un anno la maglia del Boca (dopo essere stato un giocatore simbolo del River), ma fu anche l’autore della cavalcata donchisciottiana che terminò dritta in serie B. Senza contare che negli ultimi 10 anni ai tifosi millonarios è toccato assistere a leadership discutibili come quella del CholoSimeone, che prima di fare sfracelli — in positivo — in Spagna, fu autore di una partenza terrificante nel 2008, con la sua squadra all’ultimo posto. E come non parlare di Daniel Passarella, grande giocatore del River degli anni ’80, approdato anche in Italia, che però nel 2013, da presidente (ma del River fu anche allenatore prima di Simeone) finì un magma giudiziario a seguito della presunta compravendita di biglietti proprio per un Superclásico. E quindi la dirigenza della panchina va a Marcelo Gallardo, dal 2014 regista del club con la banda rossa e già vincitore di Copa Sudamericana e Copa Libertadores.

Eppure in questa ideale e spettacolare partita nessuno si azzarda a fare un cambio. Peccato, perché los suplentes sarebbero di livello assoluto. Il Boca, ad esempio, in panchina avrebbe

Oscar Córdoba (portierone colombiano riserva anche di René Higuita sul finire degli anni ‘90), due conoscenze del calcio italiano come Gabriel Paletta e Matías SilvestreGuillermo Burdisso (fratello di Nicolás col quale per un periodo ha condiviso la difesa della Roma), una coppa di Ledesma senza legami di parentela, ovvero Cristian Pablo ex rispettivamente di Lazio e Catania, Juan Sebastián Veron, il cui cuore appartiene all’Estudiantes e che non ha certo bisogno di presentazioni, l’uruguaiano juventino Rodrigo Betancur e poi un terzetto mica male composto dall’ex Inter Éver Banega, dal romanista Diego Perotti e nientemeno che da Ezequiel Lavezzi, che si è fatto tatuare simbolo e colori della squadra del Papa, il San Lorenzo, ma che dal Boca è passato. Tenere in panca uno così forse è un delitto, ma in Argentina ancora qualcuno si chiede il motivo di quel cambio a fine primo tempo nella finale contro la Germania del 2014 quando il Pochofu tra i migliori in campo.

Niente male nemmeno il banco di sponda biancorossa. A partire dalla solidità dell’ex Lazio e Atalanta Leonardo Talamonti, così come da altri due ex aquilotti quali Juan Pablo Sorín (passato anche per Juve e Barcellona) e Matías Almeyda (autore di prove incandescenti nelle stracittadine); a questi si aggiunge l’ex Cesena e Doria Carlos CarboneroAndrés D’Alessandro (la cui carriera manterrà meno di quanto non promettesse in tenera età), Pablo Aimar detto prima Payaso poi Mago perché va bene notare i capelli sparati per aria ma coi piedi faceva magie, l’esterno d’attacco Manuel Lanzini che ha ricalcato le orme di Tévez e Mascherano diventando uno degli intoccabili del pubblico degli Hammers, il figlio d’arte Giovanni Simeone attualmente in forza alla Fiorentina ma già visto brillare nella Genova rossoblù, il talentuoso mancino di Erik Lamela, Maxi López che molto prima di essere al centro di inutili polemiche extracalcistiche è stato ed è soprattutto un buon giocatore e se lo ricordano bene nei primi anni 2000, in biancorosso, in quella squadra che vinceva titoli a ripetizione e, a completare un’ottima panchina, nientemeno che David Trezeguet, più argentino che francese, a sentirlo parlare, che è andato a “svernare” (ad arrivare in quelle condizioni fisiche a fine carriera c’è da metterci la firma) al River, negli anni della ricostruzione post-serie B.

Come in tutte le grandi feste non mancano, ovviamente, gli auto-inviti. Sulla sponda gialloblù sarebbero voluti entrare in campo anche Mauro Boselli, quel del clamoroso gol in un derby della Lanterna che condannò di fatto la Sampdoria alla serie B senza che lo stesso Boselli — vuole la leggenda — fosse a conoscenza delle posizioni di classifica della sua squadra e di quella dei rivali di sempre; c’era anche Leandro Paredes, uno dei tanti “nuovi Riquelme”, attualmente in fase di costruzione ossa allo Zenit, dopo le parentesi — discrete — di Roma e Empoli; voleva essere del match Ricardo Álvarez che ha fatto soprattutto le fortune del Vélez (pur essendo un prodotto del vivaio bostero) e che in Argentina chiamavano Maravilla con un po’ di sorpresa da parte del pubblico della Milano nerazzurra, anche se nella Genova blucerchiata si sta ritagliando il suo perché; l’ultimo ad aver mandato giù il boccone amaro dell’esclusione è il Tanque Santiago Silva, giramondo visto tra Chievo e Firenze con risultati modesti. Se lo ricordano bene invece al Boca e se lo ricorda un malcapitato tifoso del Tigre che ebbe la non fortunata idea di rivolgersi al pullman dei giocatori gialloblù puntando proprio Santiago Silva, urlandogli “Uruguayo muerto de hambre!” (“Uruguaiano morto di fame!”). Silva scese a tutta forza dal mezzo e raggiunse il tifoso, di cui si sa poco: il Tanque si ruppe invece un dito, probabilmente non per averlo semplicemente sventolato davanti al tifoso.

Restano in tribuna anche altri cinque millonarios, di buonissimo valore. Prova ne sia il Jardinero Julio Cruz, un anno di River Plate con un’ottima media realizzativa, tanto per cambiare; gli fa compagnia nientemeno che Ernesto Farías, del quale non verrà chiesto un parere ai tifosi del Palermo ma che contro il Boca ha segnato in tutti i modi: quando militava nell’Independiente il Tecla (ovvero il tasto del teclado, la tastiera, nomignolo che gli viene dallo spessore degli incisivi superiori) segnò tre gol alla Bombonera in una partita finita 5–4 per il Diablo in cui il Boca a un minuto dalla fine era in vantaggio 4–3. Farías, in quell’occasione, segnò almeno due dei tre gol con un occhio solo: l’altro gli si era gonfiato in uno scontro di gioco. Fuori dal campo anche Leonel Vangioni (15 presenze nel Milan lo scorso campionato), Diego Buonanotte, altra promessa non esattamente mantenuta, e Lucas Boyé, arrivato a sorpresa dalle fila del Toro dove sta alternando buone sgroppate a qualche punto di domanda. Ma lui nel River c’è praticamente nato e non voleva mancare.

HINCHAS

Nel corso del match le telecamere non hanno potuto non indugiare sul pubblico. Diverse le celebrità presenti, una fra tutte Ricardo Darín, tra i più famosi e popolari attorni del pimpante cinema argentino, visto anche in El secreto de sus ojos, Oscar al miglior film straniero nel 2010. In un documentario sulle tifoserie in Argentina, l’attore ha ammesso di aver vissuto per un periodo sotto scorta proprio nella sua Buenos Aires. Il motivo? Aveva fatto outing, confessando pubblicamente la sua fede biancorossa. E indovinate da che sponda calcistica arrivavano le minacce di morte.

Seduto a fianco dell’attore non poteva mancare uno dei personaggi che ricalca perfettamente la frase di Andy Warhol: “Nel futuro ognuno sarà famoso al mondo per 15 minuti”. Il soprannome è Tano per via delle origini nostrane, ma all’anagrafe è Santiago Pasmán, diventato famoso nel 2011 quando i figli, senza pietà, lo filmarono nel corso della tragica gara d’andata dello spareggio che il River giocò contro il Belgrano per non retrocedere. 



Il video-tutorial ideale per chi vuole imparere un po’ di sproloquio rioplatense.

Per la sponda gialloblù ci sono invece ci sono, ovviamente Diego Maradona, presenza fissa come alla Bombonera dove lo si vede spesso in uno dei box dello stadio insieme a tutta la famiglia e il gigantesco tennista Juan Martín Del Potro, amico di Martín Palermo,che venne omaggiato nella stessa Bombonera per le vittorie dello Us Open del 2009 e per la Coppa Davis del 2016.

IL RISVEGLIO

La prima cosa che notate al risveglio dall’ipnosi è che la realtà è ben diversa. Oggi il campionato argentino vive dei colpi di classe dei suoi talenti (comunque non pochi) che però in madrepatria restano pochissimo. Tensione e spettacolo restano però intatti. Una prova? Pochi giorni fa il River ha buttato alle ortiche il pass per la finale di Libertadores, regalandolo alla cenerentola Lanús (ex squadra, tra gli altri, di Camoranesi) che andrà al grande ballo — per la prima volta — contro i brasiliani del Grêmio. E l’impressione è che in quella semifinale il River abbia tirato i remi in barca col pensiero fisso alla partita di domenica sera.

E il Boca? Gli azzurro-oro, dopo quella stagione in cui hanno vinto il campionato da imbattuti, non hanno più trovato né leader (Riquelme ha finito la carriera all’Argentinos, là dove l’aveva iniziata), né identità tattica, perdendo anche qualche derby tra le mura amiche. Oggi però le cose sembrano andare diversamente. In testa in questo folle campionato (le squadre nella massima serie da un paio d’anni sono nientemeno che 28, una formula contestata e destinata, come tutto in Argentina, a cambiare) con 21 punti in 7 partite c’è proprio il Boca.

L’arbitro, quello dell’incontro che si giocherà per davvero, sarà Néstor Pitana, il medesimo che arbitrò la gara d’andata del tragico spareggio che costò al River la discesa in B. Tra i tanti dubbi, una certezza: lui di paura non ne ha. In quella partita dovette fronteggiare una serie di incappucciati, ufficialmente tifosi biancorossi, che volevano mettere le mani addosso ai loro “beniamini”, rei della disfatta. Oggi il clima è fortunatamente diverso.

E a noi non resta che metterci comodi.

BONUS TRACK

  • Non si sa se George Orwell fosse appassionato di calcio argentino, ma di sicuro un Boca-River se lo sarebbe gustato. La sua citazione completa recita infatti così: “Lo sport non ha nulla a che vedere col fairplay. È composto da odio, gelosia, spacconeria, disprezzo di tutte le regole e un piacere sadico nell’essere testimoni della violenza. In altre parole è guerra senza gli spari”. E ditemi se non sembra la descrizione di un Superclásico.
  • I soprannomi usati per indicare le squadre hanno la loro storia. Quelli del River sono Millonarios perché hanno speso e guadagnato molto dai loro tanti titoli nazionali, ma anche Gallinas secondo i tifosi del Boca, per il loro incredibile numero di secondi posti collezionati negli anni ’60 quando il River perse anche una Libertadores già in tasca. In italiano tradurremmo con “polli”. Quelli del Boca invece si tengono stretti il nomignolo dispregiativo che gli è stato assegnato tanti anni fa dai rivali. L’origine è incerta ma pare che bosteros derivi dall’usanza di indossare gli stivali quando il canale che attraversa il quartiere della Boca esondava, con un’acqua lontana dall’essere limpida vista anche la vicinanza del porto. Il River nacque nella Boca ma se ne andò presto. Quelli del Boca, invece, cantano “Bostero soy” forse proprio orgogliosi delle proprie origini, mai rinnegate, mai abbandonate.
  • Per il Boca volevano essere della partita anche altri due personaggi per i quali però il destino aveva in serbo altro. Uno è Lucas Viatri, che ad un certo punto della sua carriera veniva soprannominato Puma per le movenze e per la capacità di farsi valere in area. Mise gli occhi su di lui una Juventus in fase di ricostruzione post serie B, ma a poche settimane dall’apertura del mercato invernale, il numero 9 del Boca fu vittima di un bruttissimo infortunio al ginocchio che ne precluse le vie dell’Atlantico. Oggi è in forza agli uruguaiani del Peñarol. Con lui, nell’ultimo Boca campione d’Argentina, giocava tale Dario Cvitanich — mamma albiceleste e papà croato — che tentò la fortuna anche in Europa tra Ajax e Nizza anche se il suo cuore batteva per la squadra che l’ha lanciato, il Banfield, dove si trova attualmente. A ricordargli di non negare le sue origini, nel corso di un Banfield-Boca in cui tornò da ex, fu la signora Marta che estrasse tutto il porteño di cui era a conoscenza, insultandone madre e sorella e ricordandogli che “Il Banfield ti dava da mangiare quando non eri nessuno!”, il tutto filmato da una telecamera di sorveglianza e condiviso in mondovisione. Ora l’attaccante e la signora sono amici: l’incidente è stato ricomposto in una trasmissione televisiva molto seguita e i gol del croato-argentino sono anche per la ex nemica.
  • Come forse avrete notato il River si è presentato a questa partita senza il portiere di riserva. La verità è che qualcuno ai cancelli dello stadio si era anche presentato, ma gli addetti hanno consigliato a lui e al suo amico di restare fuori. Quello coi guantoni si chiama Juan Carlos Olave, quello con due cosce che fanno provincia e col vizio del gol è Hugo Pavone. Nessuno dei due è mai stato realmente del River: entrambi sono arrivati in prestito da altre squadre e forse se lo sarebbero anche risparmiato. Olave piombò in biancorosso nel 2006, collezionando la bellezza di zero presenze. Pavone invece era in campo per il River in quel maledetto pomeriggio quando i biancorossi dovevano rimontare il 2–0 rimediato a Córdoba contro il Belgrano qualche giorno prima. In palio c’era la permanenza nella massima serie. Pavone segnò subito, facendo impazzire un Monumentál disperato, poi però pareggiò il Belgrano (che in campo aveva anche il mudo Vazquez). A 20 minuti dalla fine occasionissima per il River: calcio di rigore con possibilità di un assalto finale per trovare il gol della salvezza. Sul pallone andò proprio Pavone che calcio forte e centrale. Il portiere non solo parò, ma addirittura bloccò il pallone mettendo la parola fine alle speranze del River. Quell’arquero era proprio Juan Carlos Olave, che a Córdoba ci è anche nato e nel Belgrano, di cui è stato una bandiera fino ai 40 anni, si è formato come giocatore.

Formazioni

CLUB ATLÉTICO BOCA JUNIORS: Roberto Abbondanzieri, Facundo Roncaglia, Walter Samuel, Nicolás Burdisso, Juan Sanchez Miño; Gary Medel, Fernando Gago; Rodrigo Palacio, Carlos Tévez, Juan Román Riquelme, Martín Palermo. SUPLENTES: Óscar Córdoba, Gabriel Paletta, Matias Silvestre, Guillermo Burdisso, Cristian Ledesma, Pablo Ledesma, Rodrigo Betancur, Juan Sebastián Verón, Ever Banega, Diego Perotti, Ezequiel Lavezzi. TRIBUNA: Mauro Boselli, Pablo Osvaldo, Leandro Paredes, Ricardo Álvarez, Santiago Silva.


CLUB ATLÉTICO RIVER PLATE: Pablo Carrizo, Ramiro Funes Mori, Martín Demichelis, Mario Yepes, Diego Placente; Javier Mascherano, Esteban Cambiasso; Alexis Sánchez, Radamel Falcao, Gonzalo Higuaín, Hernán Crespo. SUPLENTES: Leonardo Talamonti, Juan Pablo Sorín, Matias Almeyda, Carlos Carbonero, Andrés D’Alessandro, Pablo Aimar, Erik Lamela, Manuel Lanzini, Giovanni Simeone, David Trezeguet, Maxi Lopez. TRIBUNA: Leonel Vangioni, Lucas Boyé, Diego Buonanotte, Julio Cruz, Ernesto Farias.


Approfondimento a cura di Alessandro Moretti

Condividici

Commenta



Copyright 2018 Crampi Sportivi © All Rights Reserved