Domenica, con il tradizionale arrivo sugli Champs Elysee, si è concluso il Tour de France numero 107. Edizione povera di soddisfazioni per i colori azzurri, caratterizzata da zero vittorie italiane su ventuno tappe disponibili e nessuno italiano mai veramente in gioco per la maglia gialla o almeno per il podio. Dato che, seppur giustificato dai alcuni ritiri per infortunio, Nizzolo e Formolo, e allo stato di forma non ottimale di altri, Viviani e Aru, è la fotografia perfetta dello status attuale del ciclismo italiano.
Le cronache di Fabio Aru
La nona tappa del Gran Boucle, 153 km da Pau a laruns, è stata la tappa più discussa e più dolorosa per i colori italiani. Avremmo voluto evitare di vedere Fabio Aru appoggiare la bicicletta al guardrail e salire in macchina dopo aver percorso gran parte della tappa da solo, a diversi minuti dal gruppo, in completa solitudine senza ne ammiraglia ne compagni. E se già questo sembrava una punizione fin troppo severa per il campione sardo e per i suoi tifosi, le parole, durissime, di Saronni a confermare la bocciatura definitiva da parte del suo team, sono state il colpo di grazia. Il team manager dell’UAE Team Emirates, non si è risparmiato ai microfoni Rai, criticando sia l’aspetto sportivo, l’assenza totale di risultati e supporto ai compagni, sia l’aspetto economico, Fabio Aru percepisce infatti uno degli stipendi più alti fra tutti i ciclisti World Tour.
Se da un lato numerosi tifosi e addetti ai lavori, si sono ritrovati nelle parole di Saronni, non è mancato chi invece si è schierato in difesa del campione sardo, condannando il tempismo e il modo in cui queste dichiarazioni, farcite da numerose critiche dei tifosi, sono state fatte, primo fra tutti il collega Visconti.
Le aspettative su Aru
Alla base di tutto questo interesse mediatico ci sono le attese che ognuno di noi, dai tifosi agli addetti ai lavori, aveva risposto nell’ormai non più giovanissimo atleta sardo, unico a sembrar capace di poter lottare per un Grand Tour e raccogliere il testimone di Nibali. Campione totale il siciliano, capace di conquistare la tripla corona impreziosita da una Milano Sanremo e due Lombardia ma ormai all’alba dei 36 anni.
In una manciata di stagioni dal suo esordio nel ciclismo professionistico Fabio ha vinto almeno una tappa in tutti e tre i grandi giri riuscendo ad indossare le rispettive maglie da leader. Sono passati solo tre anni da quel giorno in cui alzava le braccia in solitaria al La Planche des Belles Filles, proprio lì dove nel 2014 Vincenzo Nibali diede inizio alla sua cavalcata trionfale verso Parigi. Di recente a causa delle pressioni, del discusso trasferimento all’UAE Team Emirates e di un carattere complicato che a volte lo ha fatto scontrare con compagni e addetti ai lavori, la luce del sardo sembra essersi spenta.
Lo stato di crisi del pedale
In un ciclismo come quello italiano che ha sempre prediletto i corridori da grandi corse a tappe, rispetto a cacciatori di classiche, l’età che avanza di Nibali e la crisi di Aru hanno aperto una voragine profonda. Causata no dal caso, ma dallo stato di crisi in cui si trova ad oggi il ciclismo professionistico nostrano.
Coppi. Bianchi. Giro d’Italia. Un tempo primeggiavamo sotto tutti gli aspetti dello sport a due ruote, ma ormai la tradizione da sola non basta per tenere i pezzi al proprio posto. La crisi economica, gli strascichi del doping e la mancanza di nuove stelle sono tra le cause principali dello stato di forma attuale del ciclismo italiano che a catena un calo degli sponsor, delle vittorie, delle squadre italiane e dei soldi investiti.
La crisi economica riguarda specificatamente il settore agonistico, infatti ora più che mai la bicicletta è il simbolo della mobilità eco friendly; aumentano i tesserati e i praticanti dello sport a due ruote, aumentano le gare amatoriali e le piste ciclabili in città. Il problema, al momento non risolto, è far accrescere l’interesse di tutto questo nuovo pubblico per il ciclismo agonistico, ma il panorama ciclistico italiano al momento appare diviso, senza fondi e forse anche senza progetto ben delineato.
Chiariamoci non è certo colpa della globalizzazione, in un ciclismo dove Italia, Belgio, Francia, Olanda erano e sono le principali nazioni di riferimento, si sono inserirti nuovi movimenti come quello britannico colombiano, nord europeo. Modelli da seguire ed imitare, capaci di colmare in pochissimi anni il gap che li aveva separati per oltre un secolo dalle nazionali più blasonate.
I numeri del pedale
La nazionale italiana può vantare ottimi atleti, da Ganna per la pista ad Elia Viviani per le volate solo per far due nomi ma, a differenza delle nazionali sopra citate, negli ultimissimi anni il movimento ciclistico nostrano non ha dato alla luce corridori passisti scalatori capaci, di primeggiare nelle corse a tappe o anche solo gareggiare per una top five. Le principali motivazioni risiedono nella diminuzione delle squadre italiane e nella cancellazione di gran parte delle corse svolte in Italia.

L’Italia un tempo stava bene da entrambe le parti. Nel 2004 contava sei squadre nel World Tour, massima divisione del ciclismo mondiale; dal 2017 il numero di squadre italiane è sceso a zero. La causa principale è la mancanza di finanziamenti, o meglio l’incapacità di attirare in Italia finanziatori, sia per la crisi economica sia per una questione di marketing.

Giusto per dare un’idea, le due strapotenze che hanno dominato gli ultimi anni, Ineos Grenadiers (ex Team Sky) e Deceunink Quick Step, vantano budget da almeno 30 milioni, e all’estero ci sono diverse squadre con sponsorizzazione “nazionale” come il team spagnolo Movistar sponsorizzato dalla società Telefonica, la francese Ag2r la mondiale finanziata dalla maggiore azienda assicurativa della Francia e l’Astana con sponsor statale.
Strano è che molte di queste squadre del World Tour “parlano” anche, se non soprattutto italiano. Sono infatti oltre cento gli italiani che lavorano nei team della massima categoria, da direttori sportivi a tecnici ai massaggiatori meccanici, senza contare i numerosi corridori di livello.
Poche gare italiane
Alla problematica dell’assenza di squadre si aggiunge la mancanza di gare nostrane. Negli ultimi anni molti tour della categoria élite u23 sono stati costretti a chiudere, persino il Giro d’Italia di categoria non si è svolto per alcuni anni, gara da cui sono passati la maggior parte dei campioni attuali e ha visto trionfare fra gli altri Pantani, Di Luca e più di recente Betancur e Sivakov.
Sotto questo aspetto però si può essere più fiduciosi, infatti per volere del ct italiano Davide Cassani e dei suoi collaboratori il giro under 23 è tornato e molti dei giovani hanno iniziato a disputare, come da anni si fa nelle altre nazioni, corse non solo nostrane ma anche all’estero.
“Siamo rimasti al ciclismo dilettantistico di 30 anni fa senza avere la qualità delle corse di 30 anni fa. Abbiamo delle bellissime squadre dilettantistiche ma che non vanno mai a correre all’estero. Vuol dire che i nostri ragazzi affrontano un calendario non all’altezza dei loro pari età e così facendo abbiamo abbassato il nostro livello qualitativo“ così Cassani due anni fa, spiegando le ragioni delle difficolta dei ciclisti italiani nelle grandi corse a tappe.
I risultati non si sono fatti attendere come testimoniano le recenti vittorie di si sono segnalati infatti Andrea Bagioli, Samuele Battistella, Giovanni Aleotti, Alessandro Covi in alcune fra le più importanti corse di categoria.
Tra cadute e consacrazioni
A conclusione di quanto esposto finora bisogna dire, che se da un lato probabilmente viviamo un momento storico, come già accaduto dalla metà degli anni ’80 fino agli anni ’90, piuttosto sfavorevole, dal punto di vista della “produzione” di passisti scalatori capaci di gareggiare nei Grand tour, palcoscenici che sembrano aver a oggi protagonisti i vari Bernal, Pogacar, Evanepool, Sikakov; dall’altro lato il ciclismo è uno sport di gambe ma soprattutto di testa, seppur le gambe possono risentire dell’età che avanza ciò non può influire sull’imprevedibilità e la capacità di reinventarsi.
Caratteristiche che sono state alla base di alcune delle imprese più appassionanti della storia di questo sport. Mai come nel ciclismo ci sono visti perdersi grandi predestinati e consacrarsi umili gregari. Se da un lato bisogna essere fiduciosi per il futuro, visti i risultati dei giovanissimi italiani nelle corse di categoria, dall’altro la sorpresa di una rinascita sportiva dei tanti italiani in gruppo, primi fra tutti Aru e Moscon potrebbe essere più vicina di quanto si pensi.
di Francesco Berio

Giornalista professionista. Curioso e mancino. Scrivo e scatto, senza pose che è più divertente. Con un buon caffè e una bella storia hai tutta la mia attenzione.