Un Giro d’Italia imprevedibile, con un finale mai visto; un Giro folle, diremmo, se non fosse che siamo nel 2020 e quindi bisognava aspettarsela, un po’ di follia. Tutti i grandi protagonisti attesi, per motivi disparati, hanno mancato il grande obiettivo. Kruijswijk e Simon Yates sono stati fermati dal virus, Geraint Thomas da una caduta, Fuglsang e Nibali hanno decisamente deluso. E allora largo ai giovani, con due under-25 a fare da mattatori in un’edizione che ricorderemo a lungo. A raccontarci il Giro sono Marco Baldassarre e Gianluca Losito.
Gianluca Losito
Jai e Tao, un Giro che vale come un Master
Tre settimane per cambiare una stagione. Ma anche una carriera, o meglio due. Alla partenza da Monreale, Tao Geoghegan Hart e Jai Hindley non riuscivano neanche ad immaginarsi sul podio di Milano, figurarsi sul gradino più alto. Entrambi sbarcati in Sicilia con compiti di gregariato, si sono trovati capitani quasi per caso. Ma non si tratta del classico adagio “il leader lo fa la strada“: Tao, in particolare, è arrivato a far classifica al termine della seconda settimana, senza che fosse neanche nelle intenzioni del Team INEOS. Si potrebbe dire che la squadra inglese raggiunge risultati nei Grand Tour anche senza volerlo.
Hindley e Hart si sono resi conto di cosa potevano raggiungere solo al termine della seconda settimana, arrivati insieme a Piancavallo assieme al terzo incomodo Kelderman, che in quel momento sembrava invece l’unico coerente con la situazione.
Una scalata sia letterale che figurata, quella alla salita friulana: da 10° a 3° l’australiano, da 12° a 4° l’inglese, separati da un secondo che poi avrebbe danzato avanti e indietro nell’ultima settimana, in cui i due si sono dati battaglia.
Tra lo Stelvio e il Sestriere, nessuno è riuscito a staccare l’altro, ingaggiando una guerra di abbuoni che li ha portati alla vigilia della cronometro di Milano appaiati in classifica. Esatto: 0 secondi di distacco tra i due.
3337 km lungo tutto lo Stivale idealmente percorsi fianco a fianco, ruota contro ruota senza mai riuscire a prevalere sull’altro, anche se la strada è ben diversa da questa idealizzazione tuttavia impressionante.
Decide tutto l’ultima manciata di pedalate verso Milano: nella capitale della Moda ha la meglio il corridore più composto, il più “classico” dei due ma allo stesso tempo quello più impostato, lo studente della Bocconi dei team ciclistici che indossa la corona d’alloro più ambita. Jai torna a casa con un podio inaspettato dopo aver assaggiato per 15 kilometri e 700 metri la livrea rosa (quanti l’avranno tenuta indosso per meno spazio di lui? Pochissimi, ammesso che ce ne siano) ma con le idee chiare sul futuro prossimo.
Stuzzica la fantasia un pensiero: se questi due sono riusciti a risalire la china pur dopo aver lasciato minuti per strada nelle prime tappe, cosa avrebbero potuto fare con i galloni del capitano dall’inizio?
La matematica dice che lo stand-off tra i due sarebbe durato tutta la settimana e non solo tra Sestriere e crono. D’altro canto avrebbero avuto una pressione diversa e sarebbero stati controllati ben più attentamente dalle altre squadre. Aspetti che vanno oltre i numeri, evidentemente. Nel dubbio, ci godiamo la loro sfrontatezza.
Joao Almeida, cocci di classe
Per questo Giro d’Italia, la Deceunick Quick-Step aveva in mente di fare classifica ad un Grand Tour per la prima volta da diverso tempo. L’idea era quella di portare nel Belpaese un corridore fantasioso, che rubasse l’occhio, le cui forme del talento avrebbero potuto esprimersi in diversi modi. Un corridore dai mille colori.
Una descrizione così calza alla perfezione per il record-breaker Remco Evenepoel, che però ha rischiato grosso cadendo in una scarpata a metà agosto al Giro di Lombardia: stagione finita.
Ma in casa belga non si sono fatti scoraggiare facilmente e hanno deciso di puntare su un corridore proveniente dalla Costa portoghese, più precisamente da Caldas de Rainha, capitale portoghese delle ceramiche: forme talvolta irriverenti, sgargianti e originali.
João Almeida si è immedesimato nelle più belle forme d’espressione del suo luogo natìo e ha corso un Giro tanto bello quanto spensierato. Ha tenuto la maglia rosa addosso per 15 giorni senza far mistero di credere alla vittoria, anzi: è andato spesso all’attacco, a prendersi pochi secondi da traguardi intermedi o abbuoni finali.
Un lavoro meticoloso e progressivo, fluido come il tempo guadagnato sugli avversari e come l’argilla lavorata nel creare vasi sinuosi. Ma sui Laghi di Cancano, qualcuno ha sbattuto il vaso sul pavimento: Sunweb e Sky hanno frantumato in mille pezzi il sogno del 22enne portoghese. Ci rimangono i cocci di un Giro corso più che bene: talento folgorante a cronometro, discreto in salita e coriaceo sull’arco delle tre settimane. In molti pronosticavano un suo crollo verticale, ma questo non è avvenuto: un 4° posto recuperato con le unghie e con i denti a Milano ai danni di Pello Bilbao. Dopo quest’opera d’arte interattiva, João è pronto a regalarci altre composizioni che ci lascino a bocca aperta.
Vincenzo Nibali: il viale del tramonto potrebbe avere deviazioni interessanti
“E sul piedistallo, queste parole cesellate:
«Il mio nome è Ozymandias, re di tutti i re,
Ammirate, Voi Potenti, la mia opera e disperate!»
Null’altro rimane. Intorno alle rovine
Di quel rudere colossale, spoglie e sterminate,
Le piatte sabbie solitarie si estendono oltre confine.”
Tra i fisiologici alti e bassi della vita, siamo abituati a pensare che quando qualcosa sta crollando, questa vada verso il basso. Ma non è sempre così. L’ultima fase della carriera di Vincenzo Nibali (per ora) si apre con una caduta in discesa e si chiude con un colpo di pedale più lento in salita. In mezzo, migliaia di km tra il circuito di Rio e lo Stelvio, nonché 4 anni e 2 mesi: dalle Olimpiadi perse al crollo in salita, l’ultima occasione di rimanere attaccato al treno del podio, il crollo definitivo in classifica generale.
È stata una fase della sua carriera piuttosto varia, in cui tante volte è mancato il colpo di pedale nell’arco delle tre settimane (3 podi nei GT dal 2017 al 2019), ma altre volte quel colpo è servito per portarsi a casa una classica (Lombardia 2017, Milano-Sanremo 2018). L’impressione è che, all’interno di una carriera splendida, lo Squalo avrebbe potuto raccogliere anche di più di quanto non ha fatto: ma adesso non è il momento di stare a guardarsi alle spalle, neppure quello di tirare le somme.
Non sembra che sia finita la benzina, a Nibali: un 7° posto in una corsa di tre settimane è un risultato più che degno, la cui reazione apocalittica rende la misura delle immense aspettative nei suoi confronti. D’altro canto, però, un vincente non può accontentarsi di piazzamenti di contorno: al messinese manca l’esplosività e la resistenza su lunghi percorsi (la sua famosa “terza settimana” non si è compiuta questa volta), ma nelle corse di un giorno può ancora dire la sua.
L’obiettivo dichiarato per il 2021 è l’Olimpiade di Tokyo, per riprendersi quello che era sfuggito in Sudamerica mentre sembrava involarsi per una vittoria che sarebbe stata estremamente meritata. E chissà che non provi a correre una volta per tutte la Parigi-Roubaix: sembra fuori tempo massimo, ma con la sua esperienza nulla è impossibile. Per questo Giro, almeno, non rimane l’amaro in bocca: è stato sì piuttosto anonimo, corso in maniera opposta al “Nibalismo” (mettere sempre una firma ad ogni appuntamento in cui si presenta), quantomeno però quest’anno ha dato tutto quello che poteva, al contrario del Giro 2019, probabilmente perso per un esagerato attendismo tattico.
Alle sue spalle, relativamente agli uomini delle corse a tappe, sterminate rovine: per la prima volta un corridore italiano non si è piazzato tra i primi 5 nella classifica generale della Corsa Rosa. L’unica prestazione di buon livello sotto questo aspetto è quella di Fausto Masnada, 9° a Milano: il suo lento miglioramento (26° nel 2018, 20° nel 2019 e 9° ieri) lascia accesa una miccia di speranza, ma ci vorrebbe un repentino cambio di marcia.
Marco Baldassarre
Oltre la maglia rosa: l’impero colpisce ancora
E’ innegabile che la vittoria di Tao Geoghegan Hart vada inserita in un grande ritorno del team INEOS Grenadiers. L’impero ex Sky sembra essere tornato più forte di prima, se mai fosse andato via: quando si parla di Grand Tour, agli inglesi spetta sempre l’ultima parola. Non è soltanto grazie a Chris Froome (un Giro, una Vuelta e quattro Tour vinti) che Brailford ha costriuto la sua fortuna; i sette Tour vinti nelle ultime nove edizioni parlano chiaro, e questa edizione del Giro ha messo una firma definitiva, se mai ce ne fosse stato ancora bisogno.
Già al Tour, un mese fa, avevamo notato che, al di là della defaillance di Bernal, la squadra era in uno stato di forma ottimale, e la tappa di La Roche-sur-Foron era stata una dimostrazione storica di forza assoluta. Alla Vuelta che si sta correndo in questi giorni sono in testa con Carapaz che è il candidato numero uno alla vittoria finale. Al Giro, poi, hanno portato un gruppo incredibile, e la caduta con conseguente ritiro del capitano Geraint Thomas ha soltanto temporaneamente confuso le acque.
Le tre vittorie su tre crono di Filippo Ganna erano dopotutto prevedibili: il campione del mondo in carica ci darà, ne siamo sicuri, ancora parecchie soddisfazioni in fatto di prove contro il tempo. Quello che non era prevedibile però è successo sulla Sila nella tappa numero 5. Un ragazzo di un metro e novantatre centimetri, per più di ottanta chili di peso, è riuscito non solo a restare con gli uomini in fuga per tutta una tappa movimentata di sei ore, ma addirittura a rilanciare sulla salita finale e resistere al contrattacco degli uomini di classifica – scalatori, ragazzi con venti chili in meno da portare in giro sulla bici – per andare a vincere una tappa di 225km adatta agli scalatori.
Quello che non era prevedibile è che lo stesso ragazzo ha tirato a lungo davanti a tutti anche sulle Alpi, portandosi dietro il gruppo intero. E come lui Rohan Dennis, al quale va fatto un altro monumento da parte di Geoghegan Hart. Secondo e terzo rispettivamente nelle crono di Valdobbiadene e di Milano: anche qui, normale amministrazione per chi ha vinto due mondiali di specialità.
Ma quello che ha dell’incredibile è il lavoro svolto dall’australiano per il capitano nella terza settimana. La cosa era chiaramente preparata a beneficio di Thomas: nelle tappe alpine la squadra sarebbe stata a suo servizio (compreso Geoghegan Hart: difficile immaginare cosa avrebbero combinato senza la caduta di Thomas!), e Dennis, uomo che in passato ha provato anche a fare da capitano, senza esiti spettacolari, nell’ultimo anno in BMC ed in quello sfortunato alla Bahrain, aveva il compito di spianare le montagne. La dedizione che abbiamo visto in tutte le ultime tappe, e soprattutto la prova di forza magistrale di Sestriere con la conquista della cima Coppi, sono sensazionali.
Un altro uomo venuto per fare il gregario, e che durante il periodo di interregno tra la caduta di Thomas e la scoperta di Hart ha approfittato per andare a vincere una bellissima tappa a Cesenatico è l’ecuadoregno Jhonatan Narvaez, che pure ha dimostrato, prima di cedere alla sfortuna e ritirarsi, quali siano i potenziali di una squadra dove anche l’ultimo dei gregari è in grado di battere tutti, se lasciato libero di giocarsela.
Ci ha provato anche Jonathan Castroviejo, nella tappa di Roccaraso battuto soltanto dall’agguerrito portoghese Guerreiro, e sull’Etna in grado di arrivare insieme ai top di classifica in un arrivo a quota 1800 metri. Per lo spagnolo, sulla carta anche lui cronoman e gregario, un Giro superlativo.
Così come incredibile, e forse ancora più stupefacente, è stato il Giro di Ben Swift, altro ragazzo che da velocista si è trasformato ed ha vestito i panni del supereroe, andando a fare le volate di gruppo (quarto a Brindisi) così come centrare le fughe vincenti (quinto a San Daniele del Friuli) o essere all’occorrenza il gregario numero uno del capitano (arrivato con gli uomini di classifica a Tortoreto). Per lui un diciottesimo posto finale in classifica generale, che mi ha fatto pensare inizialmente ad un errore, ed ancora adesso mi lascia piuttosto perplesso.
Da Sanremo a Milano: esiste almeno un francese che preferisce l’Italia al proprio Paese
Per Arnaud Demare nominare l’Italia deve essere come parlare del paradiso: lo ricordiamo tutti alzare le braccia al cielo in via Roma quattro anni fa – l’highlight indiscusso della sua carriera, se pure con qualche polemica dopo l’arrivo.
Certo, parliamo di un corridore con settantacinque vittorie all’attivo, uno degli sprinter più forti degli ultimi anni, ma una dimostrazione di forza così grande era difficile da prevedere, soprattutto considerando l’altalenanza di risultati del francese in passato (non troppo congeniale, stranamente, per lui il Tour, con soltanto due vittorie di tappa in quattro partecipazioni), e l’agguerrita concorrenza di Peter Sagan, che per vincere una tappa si è dovuto inventare un numero di altissimo livello a Tortoreto: dimostrazione da un lato di una capacità ancora indiscutibile nelle classiche da parte dello slovacco, ma dall’altro quasi di una bandiera bianca alzata, nelle volate, al cospetto del vero leader di questo Giro.
Quattro vittorie su quattro sprint di gruppo sono una sentenza, e la maglia ciclamino indossata a Milano è la degna coronazione ad una campagna italiana andata decisamente meglio di ogni aspettativa per il capitano della Groupama-FDJ.
Ulissi e Guerreiro, gli altri vincitori
Le prestazioni di Ganna hanno decisamente oscurato il resto dei corridori nostrani, ma le due vittorie di Diego Ulissi non sono assolutamente da sottovalutare. Il corridore toscano resta una garanzia del nostro ciclismo, e soprattutto quando si parla di Giro: è andato a segno in cinque diverse edizioni della corsa rosa, con ben otto successi complessivi. L’arrivo prepotente di Agrigento, tenendo testa alla reazione di Sagan, potrebbe benissimo essere definito “à la Ulissi”, per quanto sia ormai diventata un marchio di fabbrica la sua progressione su traguardi del genere,
Quello di Monselice invece è dimostrazione di come il toscano, che pure ha raggiunto le trentotto vittorie in carriera, avrebbe probabilmente potuto anche in passato puntare un po’ di più agli arrivi di gruppi un po’ più cospicui, piuttosto che andare a provare le mezze classifiche che non gli hanno mai sorriso più di tanto.
Oltre che per le due settimane in rosa di Joao Almeida, il Portogallo ricorderà questo Giro per la grandissima prestazione di Ruben Guerreiro, grande vincitore di una tappa super movimentata a Roccaraso, e leader fino alle fine (la degna concorrenza dell’immortale Giovanni Visconti è durata fino alla diciassettesima tappa) della classifica dei GPM.
Il portoghese della EF, ed ex compagno di squadra di Geoghegan Hart alla Axeon per due stagioni, ha raggiunto il suo obiettivo con tenacia, dimostrando di essere un uomo su cui poter puntare nei grandi giri, dopo la già ottima prestazione alla Vuelta dell’anno scorso, in cui da quasi sconosciuto era andato quasi a centrare una tappa di alta montagna, e concludere tra i primi 20 in classifica: il ragazzo è da tenere d’occhio attentamente nella prossima stagione!

Lo sport raccontato dal divano, Zidane e Rodman a cena dal Professor Heidegger.