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La nuova vita di Elvis Abbruscato - Crampi Sportivi

La nuova vita di Elvis Abbruscato

Dai gol tra Serie A, B e C, fino alla sua startup e il ruolo di allenatore in Nazionale

Per un aretino della mia età, legatissimo alla squadra della mia città, intervistare Elvis Abbruscato è, con le dovute proporzioni, un po’ come per uno juventino intervistare Trezeguet, per un milanista Shevchenko o per un interista Bobo Vieri, tanto per citare tre pari-ruolo in campo nello stesso periodo storico.

La nostra conversazione è iniziata proprio dalla stagione 2003/04 con la maglia amaranto dell’Arezzo, ripercorrendo le tappe più importanti della sua carriera da calciatore e parlando della sua nuova vita da allenatore e di un suo progetto innovativo dedicato, appunto, alla figura del “mister”.

Elvis, Arezzo è stato il trampolino di lancio per la tua carriera: quali sono stati i fattori determinanti stagione della promozione in B, ma anche nel successivo anno e mezzo tra i cadetti?

“Semplice: nella storia di un calciatore ci sono delle decisioni da prendere in momenti cruciali e che possono cambiarti la vita. Nel 2003 avevo varie opzioni, perché ero considerato un giovane promettente. Alla fine, convinto dal direttore sportivo Fioretti, che mi voleva a tutti i costi, andai ad Arezzo e fu una scelta vincente per entrambi. Tra l’altro ero già padre, quindi fu anche una scelta di vita: anche da quel punto di vista è stata una decisione giusta. Sapevo di dover rispettare certe aspettative, cosa mai facile perché il calcio è una roulette e ci sono mille fattori determinanti e imprevedibili. Ad Arezzo, però, ho trovato tutte le componenti per far bene: squadra forte, allenatore preparato… Si era creata un’alchimia tra noi che ci ha permesso di rimanere in testa dalla prima all’ultima giornata. In serie B, poi, non ho accusato il salto di categoria grazie alla città: ad Arezzo stavo bene, sentivo la fiducia di tutti e mi sentivo coccolato da una città intera, come un figlio. Mi sono davvero sentito a casa e questo, chiaramente, mi ha permesso di esprimermi al meglio”.

Nel gennaio del 2006 passi al Torino e raggiungi la serie A. Più volte, però, hai dichiarato che lasciare l’Arezzo fu un errore. La pensi ancora così?

“Sì, perché quello non era il momento giusto per andare al Torino, perché non era il Toro di adesso: era ancora in ricostruzione e forse aveva anche bisogno di un altro tipo di giocatori. Tutto mi ha fatto pensare che avrei dovuto finire la stagione ad Arezzo e poi valutare il da farsi, anche in base al piazzamento finale: sono sicuro che ci saremmo giocati i playoff per la serie A”.

Il Toro comunque è una realtà blasonata e dal grande fascino. Cosa significa giocare per i granata?

Abbruscato con la maglia del Torino

“Torino la associo sempre a Madrid, dove c’è il Real che è sicuramente più vincente ed è un brand più forte, ma poi c’è l’Atletico, con la sua forte identità. Stessa cosa si può dire di Juventus e Torino: il Toro significa passione sconfinata e la forza della sua identità e della sua storia. In questo senso non viene oscurato dalla Juventus, anche se è meno vincente”.

Cosa ti è mancato per affermarti anche nella massima serie? Hai dei rimpianti?

“Credo siano state soprattutto mancanze mie: perdite di tempo, scelte affrettate… A Torino ho subìto anche un brutto infortunio che un po’ ha inciso. In ogni caso, con i se e con i ma non si va da nessuna parte e dico sempre che si raccoglie ciò che si semina, nel bene e nel male. Una cosa è certa: io ho bisogno di instaurare un feeling forte con l’ambiente in ogni suo aspetto: vivere la città, percepire l’anima delle cose, provare emozioni, trovare punti di riferimento. Se questo non avviene mi perdo, perché non sono una persona fredda, cinica, anglosassone se vogliamo. Credo che sia quello che è successo ai tempi del Chievo, ad esempio, mentre a Pescara, qualche anno più tardi, nel momento di difficoltà non siamo riusciti a fare gruppo, cosa fondamentale se vuoi raggiungere certi traguardi”.

Parlavi di percepire l’anima delle cose: questo aspetto si riflette anche nella spiritualità?

“Senz’altro, ma è bene distinguere: nella fede, non nella religione. Le religioni hanno diviso più che unire ed esprimono tutto il contrario di ciò che è la fede, che è un concetto molto più semplice: è amore, pace, qualcosa che unisce e deve unire tutte le persone, anche di religioni diverse. Ognuno ha la sua intimità con Dio e non è una gara a chi ne ha di più”.

Torniamo al campo: in B, invece, potevi cambiare città e squadre ma hai sempre fatto benissimo. Penso a Lecce prima e Vicenza poi.

“Sì, è vero. Sono due casi di esperienze meravigliose in due città che abbiamo vissuto a pieno con la mia famiglia e con la gente. Città che ci hanno toccato la pelle, a prescindere dai risultati sportivi, come a Lecce, o dalle difficoltà incontrate, come a Vicenza”.

Facciamo un salto in avanti: nel 2016 ti ritiri e inizi la carriera da allenatore. Come hai vissuto la transizione dal campo alla panchina?

“Ritengo che sia proprio il sistema calcio in Italia che veicola il messaggio secondo cui, una volta finita la carriera da calciatore, si debba passare in automatico a quella di allenatore o direttore sportivo: diventa una transizione quasi inconsapevole. Di conseguenza, ho fatto i corsi di formazione, quelli che ti fanno credere di essere un allenatore quando invece fare l’allenatore è tutta un’altra cosa. È una volta che vivi un’esperienza sul campo, confrontandoti con una squadra e vivendo lo spogliatoio dall’altra parte, che capisci se hai la passione e le motivazioni per fare un percorso di questo tipo. Io ho sentito la voglia e il desiderio di farlo, però a modo mio”.

In cosa consiste il “modo tuo”?

“Sicuramente studiare tanto, approcciarmi continuamente a idee nuove, essendo disposto a cambiare le mie, ed espormi alla critica, che è un aspetto fondamentale. In questi anni ho creato tanti rapporti a livello internazionale girando in tutta Europa, a prescindere dalla Nazionale, che pure ti dà tanta formazione e permette confronti quotidiani con molti allenatori diversi. Fare questo tipo di esperienze con le realtà all’estero ti fa capire che esistono differenze abissali con l’Italia a livello di strutture, di padronanza di concetti, di progetti”.

Da vice dell’under 18 della nazionale e avendo allenato anche le giovanili di alcune squadre professionistiche, ti sarai fatto un’idea sui nostri settori giovanili. Quali sono le prospettive e quali le problematiche?

“Mettiamola così: in Italia ci sono tante prospettive perché abbiamo anche tante esigenze. Però, tutto deve partire da una programmazione e da progetti ben definiti e purtroppo da noi sono davvero poche le società con questo imprinting e che hanno una missione comune all’interno dello staff. Quelle che lavorano bene sono sotto l’occhio di tutti, perché poi parlano i risultati sul campo.

Spesso, invece, si ha a che fare con situazioni precarie, facendo calcio senza una progettualità. Il calcio è un’impresa, anche sociale, e occorre capire se c’è la volontà di avere davvero un impatto sul territorio che porti sostenibilità e sviluppo economico, o se invece i settori giovanili vengono considerati solo come requisito normativo per fare calcio a certi livelli o, ancora peggio, come mero tentativo di lucrare sulla passione per uno sport che continua ad avere grandissimo appeal”.

È da questo scenario che è nata l’idea di BeCoach, il tuo nuovo progetto basato su una piattaforma per la gestione di una squadra?

Elvis Abbruscato nel salotto di Sportitalia

“In parte, nel senso che questa piattaforma, come dice il nome, è dedicata alla figura dell’allenatore, figura che necessita di sviluppare un modello di studio e di approccio al mestiere totalmente diverso, dato che siamo di fronte a un’evoluzione digitale che non rallenterà: gli allenatori devono adeguarsi a tale novità, colmando il divario con la generazione digitale di oggi. Bisogna capire che il ruolo dell’allenatore non è solo tecnico e fisico, ma anche, anzi sempre più, mentale e psicologico. Ho ritenuto che ci fosse l’esigenza di colmare una nicchia di mercato che reputo essenziale e di aiutare gli allenatori a essere coach, appunto, attraverso strumenti e metodi sempre aggiornati che permettono un approccio comunicativo del tutto nuovo, e più efficace dei sistemi attuali, con tutti i componenti di una squadra e di una società sportiva. Per esempio, non si può usare WhatsApp per gestire la comunicazione di una squadra tra giocatori, direttori sportivi, membri dello staff: una società di calcio è un’azienda e, in quanto tale, serve una comunicazione di tipo aziendale, perché riguarda centinaia di utenti.

È quindi una piattaforma per far crescere gli allenatori, intesi come comunicatori e non manipolatori: laddove il manipolatore usa la ripetizione di schemi e concetti che non portano a uno sviluppo del talento, il comunicatore invece condivide e genera intelligenza e passione”.

BeCoach è già attiva?

“Certo, anche se siamo ancora in una fase di test con alcune società partner. A breve, comunque, andrà sugli store. Questa è ancora una fase di sviluppo delle relazioni, di promozione e diffusione del brand, della nostra cultura e del nostro metodo. L’obiettivo è anche quello di organizzare dei workshop con delle società sportive in giro per l’Italia”.

Per concludere: dove ti vedi tra qualche anno?

“In una panchina di una squadra importante. Se poi non sarà così, continuerò a pormi questo obiettivo, perché bisogna sempre puntare in alto”.


Credit Cover Photo: © Falsetti Alessandro / LaPresse

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