Inghilterra-Italia vista dal divano

80 minuti che sarebbero riassumibili in un tweet:


Autoreferenzialità a parte, che la trasferta di Twickenham sarebbe stata un problema lo sapevamo, di certo trovare un’Inghilterra così fresca e libera da pensieri (c’è il serio rischio di perdere il torneo a beneficio di quel Galles che l’autore snobbava all’inizio, ça va sans dire), è stato un risveglio tremendo per i nostri dopo aver accarezzato il colpaccio ai danni dell’Irlanda due settimane fa.

Ricordo di aver partecipato (parecchi anni fa) a un raduno in cui oltre ad allenarsi, c’era una parte dedicata ad alcuni talk.

Uno degli interlocutori (non ricordo che figura fosse) descrisse il placcaggio come un problema culturale per noi italiani, non addentrandosi ulteriormente nella spiegazione, ma lasciando intendere che siamo portati a non mettere a terra, a placcare fin da piccoli di meno rispetto ai nostri corrispettivi britannici, francesi, australiani, etc.

Non penso che ridursi a una prospettiva culturalista aiuti a migliorare l’analisi di una realtà rugbistica come quella italiana, molto più giovane rispetto a quelle che incontriamo nel Sei Nazioni, molto cresciuta negli ultimi 10 anni di attività, ancora troppo distante dalle superpotenze mondiali di questo sport.

Non placca la nazionale e non placca l’under 16 del club di provincia che fa attività per passione, ma ridurci al dato di fatto (in Italia si placca meno che nel resto del mondo, facciamocene una ragione) è un errore che non dobbiamo commettere.

Da quando il bambino delle scuole elementari va al campo per la prima volta, deve essere abituato al contatto, perché il rugby è prima di tutto uno sport di contatto, per fermare l’avversario devi letteralmente sdraiarlo (non con un RKO, i mean, ci siamo capiti).

L’Italia non le ha prese per più di cinquanta punti solo perché è stata imprecisa nel mettere a terra l’avversario, però quel discorso dei dettagli che si faceva nella puntata precedente ha molto a che fare con i placcaggi mancati di questa partita.

I ball carrier dell’Inghilterra sono ingestibili, se prendono velocità sono armi improprie, metterli a terra con costanza è l’unico modo per disinnescarli.

A Londra si rivede capitan Parisse a guidare la nazionale, rientra anche Negri in terza linea e, un po’ a sorpresa, parte Bigi da tallonatore e non Ghiraldini.

Dall’altra parte Eddie Jones opta per una squadra pensata per un solo scopo: macinare chilometri in avanzamento.

Ben Te’o e Manu Tuilagi sono una coppia di centri che potrebbe tranquillamente far vergognare una terza linea, ma il vero prodigio è un altro. Prodotto delle Isole Fiji, a tre anni si trasferisce in Inghilterra perché il padre è nell’esercito britannico: Joe Cokanasiga è una macchina da rugby alta 1,93m e pesante 118kg con una massa grassa pressoché nulla;

nato nel 1997, forse è la cosa più simile (con le dovute proporzioni) al primo Jonah Lomu che si sia mai vista da quando il compianto fuoriclasse degli All Blacks ha fatto il suo ingresso nel mondo della palla ovale.

Esplosivo, elegante, guascone in quel modo che solo gli isolani sanno essere, Cokanasiga si presenta agli azzurri con un sottomano da giocoliere e passa il resto della partita ad arare la sua fascia di competenza. Ha debuttato con l’Inghilterra il novembre scorso, ma Eddie Jones, che di cose ne ha viste, è già convinto che questo qui sia speciale.

Tornando alla stretta attualità, l’Inghilterra impiega poco più di sette minuti per muovere il punteggio, preludio di una serata difficile per l’Italia.

Fin dalle prime battute è evidente come in campo ci siano due squadre che hanno poche cose in comune.

Il ritmo imposto dagli inglesi è subito molto alto, ma soprattutto fa impressione la loro costante ricerca dell’avanzamento, la capacità di martellare per linee dirette. Il concetto di “ball carrier” è estendibile praticamente a tutto il XV schierato da Eddie Jones, ogni volta che hanno l’ovale in mano questi maledetti inglesi creano delle crepe nella linea italiana.

Questione di tempo, la meta arriva presto, ma, sorpresa sorpresa, anche la reazione dei nostri è immediata.

Allan trova una linea di corsa stupenda e impatta la contesa. Rispetto al match d’esordio contro la Scozia i passi avanti compiuti dalla squadra di coach O’Shea sono veramente notevoli.

Non solo riusciamo a imbastire una situazione offensiva in cui teniamo il pallone anche per 15, 16, 17 fasi, ma siamo cresciuti anche nel decision making e nella velocità con cui l’ovale esce dal punto d’incontro. Su quest’ultimo punto c’è ancora del lavoro da fare però i segnali rimangono incoraggianti.

Quando sono gli altri ad avere il pallone, d’altro canto, la musica cambia radicalmente. L’Italia ha chiuso la partita con il 61% di possesso palla e il 61% di occupazione territoriale, statistiche che dovrebbero raccontare di una partita amministrata per lo più dagli azzurri.

In realtà i numeri sono parecchio drogati dall’abbondante utilizzo del gioco al piede che ha connotato il gameplan dell’Inghilterra durante tutto il torneo, e dal fatto che quando gli inglesi arrivano nella zona calda ci mettono molto poco a capitalizzare.



L’Italia resta in partita per una ventina di minuti, poi è abbastanza chiaro che non c’è modo di stare in campo contro questi qui se giocano al 100% (e l’Inghilterra ha giocato al 100%).

A fine primo tempo il tabellone recita già un esplicito 31-7 per i padroni di casa, tanto che metto a bollire l’acqua ma in fondo il tè, con così poco pathos agonistico, serve poco.

Resta il rituale, ma insomma.

Persino la coppia Raimondi-Munari è un po’ spenta, consapevole di una debacle che potrebbe essere ingentilita soltanto se gli avversari decidessero di staccare il piede dall’acceleratore.

Non succede, o meglio, quando succede l’Italia ha già staccato la spina da un pezzo e qualche regalo di troppo rende il passivo fin troppo demoralizzante.

Cinquantasette punti sono difficili da digerire e da elaborare nel giro di pochi giorni, dal momento che sabato arriva la Francia all’Olimpico e sarebbe un peccato non giocarcela al meglio delle nostre energie fisiche e mentali.

Altro lato negativo sono gli infortuni, con Campagnaro, Castello e Parisse usciti acciaccati dalla contesa, non sarà facile averli per l’appuntamento finale di questo Sei Nazioni.

Mettere a terra sarà decisivo anche contro la Francia, non possiamo pensare di competere contro queste squadre se non facciamo uno sforzo supplementare nei duelli individuali.

Certo che è difficile, certo che non è una cosa che cambierà dall’oggi al domani, ma non possiamo arrenderci all’evidenz: fisicamente non siamo in grado di contenere certi giocatori e più in generale certe squadre.

L’attitudine rimane positiva ma non basta, abbiamo tanti di quei limiti che non possiamo aggiungerci la mancanza di una tenuta difensiva accettabile quando gli altri sono più grossi e più veloci di noi.

Testa alta, ci sono ancora ottanta minuti da giocare, c’è ancora un tè da bere sul divano.

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