Italia ai mondiali 2002 al di là di Byron Moreno

Della nazionale italiana del 2002 si è parlato fin troppo nel corso degli anni, senza parlare di come giocasse

Qualsiasi appassionato di calcio si ricorderà di Byron Moreno (che trova ancora spazio nella cronaca del 2020), dello scandalo arbitri legato
alla Corea, di un mondiale pilotato che era pensato per non favorirci e della mancanza di potere di Franco Carraro che, a rileggerlo oggi fa ridere, abbiamo pagato con un’eliminazione tanto rocambolesca quanto
imbarazzante.

Non ho mai trovato, a posteriori, un’analisi di come giocasse realmente quella nazionale. Di come tutto il ben di Dio (che 4 anni dopo salì alla ribalta del mondo) a disposizione di Trapattoni si fermasse ad un
misero ottavo di finale.
Siccome non l’ho mai letta, mi sono chiesto: perché non scriverla? La nazionale del Trap è figlia di una madre che negli anni ’90 è andata vicina a trionfare in tutte le rassegne mondiali in cui è stata partecipe. Dai rigori del San Paolo, fino a quelli di Saint-Denis passando per Pasadena. Un ciclo di calciatori difficilmente ripetibile che, anche se ribadito non vale niente, meritava almeno un titolo iridato.

New Italian Order

Attanagliata dalla paura d’aver buttato al vento un’occasione irripetibile, l’Italia aveva bisogno di nuove speranze e le trovò in un gruppone di ragazzi nati tra il 1973 ed il 1976. La crescita di questa avanguardia era partita dalle mani di Cesare Maldini nella sua leggendaria U21. L’ex capitano del Milan allevò tutti questi nuovi talenti: da Vieri a Totti, da Inzaghi a Del Piero, da Nesta a Panucci, da Cannavaro a Buffon. Il loro svezzamento fu l’Europeo del 2000, dove sotto la guida di Dino Zoff gli azzurri rischiarono di far saltare il banco.

Da Olanda&Belgio l’Italia tornò a casa con una medaglia d’argento e una nuova consapevolezza: questa nuova generazione, oltre che essere fortissima, è già pronta a calpestare i palcoscenici di un certo spessore.

ANTI-BOOMER: avanguardia pura

L’Italia del Trap

Scossi da quest’aria innovativa, ad inizio millennio l’Italia subì altre modifiche sostanziali al proprio ecosistema calcistico.

Il primo caposaldo furono le divise, che passarono dalla prepotenza di Nike al patriottico Kappa. L’azienda torinese, forte della collaborazione già mostrata ad Euro2000, propose il kombat 2002 come kit per la spedizione nippo-coreana. Per i giocatori di movimento, la maglietta venne estremizzata all’inverosimile sia nel colore che nell’aderenza, mentre il pantaloncino cambiò il giro-vita in una forma affusolata. Particolarmente azzeccato fu il kit del portiere, soprattutto nella versione nera vestita da Buffon. Font poco originale.
La seconda rivoluzione riguardò le calzature, poiché sia Nike che Adidas proposero sul mercato due varianti iconiche. Da un lato il pacchetto Predator, mentre dall’altro le T90 e le Vapor, in voga soprattutto ai piedi di Ronaldo e Ronaldinho. Nike presentò anche il pacchetto delle Premier, nell’evoluzione pronta per il nuovo millennio. Se la Premier, ai piedi di Maldini e Cantona, era diventata nell’immaginario collettivo “la Scarpa”, con questo modello perderà appeal e competitività sul mercato.

Il terzo brand dominante sarà Sony, con il lancio della Play-Station2. Una console spedita sul mercato a partire dal 2000 e che raggiungerà un successo interplanetario. Anche gli azzurri rimarranno folgorati dalla
console intrattenendosi per ore ed ore con il nuovo giochino.

In particolare, Del Piero e Totti: il primo fu definito “il principe” mentre il secondo si lasciò andare un’espressione iconica durante una conferenza stampa: “me s’è squajata”.

IL C.T.

L’arrivo di Giovanni Trapattoni fu la logica conseguenza di un semplice assioma: “abbiamo un gruppo forte, potenzialmente da primi 4 posti, a chi possiamo farlo allenare? Facile, all’allenatore italiano più vincente di sempre”. Il Trap non fece nessuna fatica a scalzare Zoff, che nel frattempo si dimise per alcune scomode questioni politiche. L’ex premier Silvio Berlusconi, all’indomani della finale contro la Francia, pronunciò delle parole al veleno verso Zoff, regalandoci per l’ennesima volta la sua visione di calcio.

L’ex capitano della nazionale, piccato, rassegnò le dimissioni il giorno seguente alle critiche, lasciando vacante il ruolo di CT.

In uno speciale di Sky Sport andato in onda nel 2019 e condotto da Paolo Condò, Arrigo Sacchi rivelerà una dichiarazione tanto pesante quanto emblematica di come Berlusconi non fosse l’unico a pensare male del gioco di Zoff: “Dopo la finale dei campionati Europei ero in macchina con Lennart Johansson (allora direttore dell’Eufa) che mi disse «se l’Italia vince questo Europeo, per il calcio mondiale è un regresso di 30 anni».

Trapattoni esordisce come nuovo commissario tecnico della nazionale il 3 settembre del 2000 contro l’Ungheria al Nepstadion (lo stadio del colonnello Puskas), nella prima partita del girone qualificatorio per il mondiale in Corea e Giappone. L’Italia schiera un 3-4-1-2 con Zambrotta e Maldini a presidio delle fasce, un centrocampo molto tecnico con Albertini e Fiore, ed un trio d’attacco composto da Totti, Inzaghi e Del Piero. La partita finirà 2-2 (doppietta Inzaghi) e darà il via ad una magistrale interpretazione del girone da parte degli azzurri.

L’Italia del Trap

L’arrivo del tecnico da Cusino Milanino segnava un tratto di continuità con il recente passato della nazionale.

Dopo la parentesi sacchiana, la nomina dei successivi CT (Maldini, Zoff, e, appunto, Trapattoni) segnava un senso di persistenza verso la tradizione italiana. Trapattoni aveva fatto dell’innovazione un punto fisso ad inizio carriera. Nei duelli con Gigi Radice a metà degli anni ’70, l’introduzione della zona mista portò uno scossone nel calcio italiano ed europeo (non a caso la Juve vinse la prima coppa continentale grazie al Trap), segnando una svolta epocale. Trascorsi più di 20 anni dell’esordio, l’ex giocatore del Milan aveva perso lo smalto dell’avanguardista e si era rifugiato in concetti più semplici ed immediati. Se non vi fidate, provate a controllare una partita della Fiorentina nel biennio 1998-99 e 1999-00 (l’ultima esperienza prima della nazionale) per capire quale fosse l’idea tattica del Trap. Una difesa ad oltranza, quasi esasperata, ed una verticalizzazione che doveva necessariamente portare al gol.
La fase offensiva veniva delegata al pacchetto degli attaccanti che, in qualche modo, aveva il compito di buttarla dentro per poi esasperare ancora di più i concetti ed allungare la squadra. Proprio per quest’idea di continuità, soprattutto con Zoff, il cittì, in un primo momento, replicò modulo ed interpreti. L’idea di fondo era quella di delegare la gestione della palla agli avversari, per rifugiarsi nella propria fase difensiva che otturava tutte le linee centrali ed obbligava gli avversari allo sbocco laterale. Una volta recuperata la palla, l’azione doveva essere verticalizzata immediatamente. Ai tre attaccanti era deputato il gioco offensivo, che poteva prevedere anche degli scambi di posizione ma sempre orientati a conquistare la profondità. Spesso l’Italia si faceva attaccare per allungare le formazioni avversarie e regalare campo al proprio pacchetto offensivo.
Di fondamentale importanza era anche la creatività: per tutta la durata della qualificazione, gli azzurri schierarono sempre almeno due giocatori creativi e capaci di rifinire l’azione con giocate di alto livello.
Con l’avvicinamento della manifestazione l’Italia mise le marce alte. Il gironcino di qualificazione proseguì spedito con un filotto di 5 vittorie consecutive. Inzaghi concluse la campagna come miglior marcatore italiano con 7 gol in 6 partite, Del Piero ne mise 5, mentre sul gradino più basso del podio ci fu un ex equo giallorosso fra Delvecchio e Totti (2 reti ciascuno).

Un totale di 16 reti segnate e solo 3 subite. Il secondo miglior dato difensivo di tutto il raggruppamento europeo (Croazia, 2) fece però da contraltare ad un attacco che nonostante un arsenale pauroso (Inzaghi, Totti, Delvecchio, Montella, Del Piero), segnò 17 gol in meno del Portogallo nel percorso qualificatorio. A contornare questo girone vennero organizzate anche delle amichevoli-test, dove il Trap lasciò spazio a chi doveva recuperare la condizione (Vieri), o scommetteva su qualche faccia nuova (Doni, Gattuso, Materazzi). Le partite con questo stampo lasciavano sempre spazio all’immaginazione: nessuno voleva perdere, ma a nessuna delle due squadre interessava veramente vincere.

Gli episodi si sprecavano. Dall’eurogol di Gattuso che ci servì a battere l’Inghilterra, a quello di Montella contro il Sud-Africa. Alla titolarità di Pierini (premio per le fatiche in viola) e Zenoni con l’Argentina, a quella di Asta contro Team USA passando per Bonera con il Marocco. Il miglior momento fu sicuramente Fabio Liverani con la diez nella bolgia del “suo” Curi di Perugia: una chicca per intenditori.

Foto culto

La rosa

Nelle convocazioni Trapattoni fece fede ad un concetto chiaro: la regola dei doppioni. Ogni giocatore doveva avere la propria riserva, così da poter mantenere l’equilibrio anche nell’eventualità di infortuni. Tenne banco il caso Baggio, autentico eroe e trascinatore in tutti gli anni ’90. Nonostante
l’ennesimo recupero lampo, il 10 del Brescia non rientrò nei piani della nazionale: il titolare dietro le punte era Francesco Totti, con Cristiano Doni come riserva. Proprio questi due gioielli furono gli ultimi nella lista dei 13 esordienti al mondiale. Insieme a loro: Abbiati, Materazzi, Iuliano, Panucci, Coco, Tommasi, Gattuso, Zanetti, Zambrotta, Totti, Montella e Delvecchio si imbarcarono per la loro prima Coppa del Mondo. Per 7 di questi fu anche una sorta di doppio battesimo, essendo la prima fase finale di un torneo.

Forti della propria solidità difensiva e di un Christian Vieri ritrovato, l’esordio con l’Ecuador fu un tripudio di critica ed addetti ai lavori. Il caterpillar interista segnò una doppietta, la difesa tenne gli ecuadoregni a bada ed il mondiale sembrò già in discesa.
Pochi giorni dopo, contro la Croazia, iniziarono i primi scricchiolii. Gli azzurri trovarono il vantaggio (sempre Vieri) giocando un grande calcio ad inizio ripresa, poi, incomprensibilmente, bucarono 5 minuti difensivi e
l’uragano croato (Olic e Rapaic) li travolse. “Una nazionale di cartapesta”, come la definì Alberto Cerruti si riscoprì molto più fragile di quello che la carta diceva. Nell’andamento della partita pesarono tanto i due gol annullati agli azzurri, che però avrebbero dovuto recriminare più con loro stessi che contro i fischietti. Messi alle strette, contro il Messico già qualificato, serviva una vittoria per stare tranquilli.

I messicani giocavano un calcio meraviglioso, riuscendo sempre a trovare linee di passaggio e, per almeno 60’, dominarono l’incontro. L’Italia doveva segnare per stare tranquilla, ma andò più vicina a capitolare piuttosto che a bucare la porta di Perez. La provvidenza divina si travestì prima con i panni di Buffon e poi con quelli di Alex Del Piero, che segnò un gol rocambolesco per il passaggio del turno da seconda forza del
girone. Nella prima partita da dentro o fuori, l’Italia affrontò i padroni di casa della Corea del Sud allenati da Guus Hiddink. Secondo tanti complottisti, questa sarebbe la prova madre di un mondiale marcio. Rivedendola a distanza di tanti anni posso dire che la Corea era una buona squadra, di quelle senza tanta qualità ma che sanno asfissiarti. Al contrario del gioco di posizione applicato dal Messico, gli asiatici giocavano un calcio aggressivo e verticale. Potendo far leva su una condizione atletica paurosa, il ritmo imposto agli avversari diventava difficilmente sostenibile. Un calcio zanzara, senza particolari spunti creativi, ma abilissimo a disturbare ricezioni e iniziative avversarie con raddoppi di marcatura e falli tattici.

Detto ciò, l’Italia guidò la partita fino a 5 minuti dalla fine. Forse vi farà male leggerlo, ma Moreno, nei 90’ regolamentari, sbagliò solamente la gestione dei cartellini. Tanto che dopo il pareggio coreano, Vieri ebbe
immediatamente l’occasione per riportarci davanti, e sbagliò un gol praticamente fatto. Nel recupero, l’incidere dell’arbitro diventò fin troppo evidente, ma l’Italia era con il serbatoio vuoto.

L’eliminazione fu uno smacco difficile da digerire, soprattutto in relazione al talento oggettivo di quella formazione, che fece poco per battere i propri avversari. Già durante il mondiale, ma in particolar modo dopo l’eliminazione, tra i programmi che si schierarono in maniera netta contro Trapattoni ci fu il processo di Aldo Biscardi.

Nel calderone di mr. Super moviola, il
parterre composto da Xavier Jacobelli, Elio Corno, Gianfranco Teotino, Gianni Di Marzio e Maurizio Mosca fu molto critico con le scelte di formazione fatte da Trapattoni. Un altro imputato fu Carraro, e la sua
mancanza di potere e interesse verso il calcio e la nazionale, tanto da far rimpiangere Matarrese

Come giocava la nazionale?

La nazionale italiana usufruì di diversi schemi di gioco e rotazione di uomini durante le 4 partite. Dopo il 3-5-2 o 3-4-1-2 utilizzato in Belgio e Olanda e nella qualificazione, Trapattoni preparò una difesa a quattro nei primi due episodi, salvo cambiare nelle due partite chiave.
Per capire bene le modifiche del Trap, è necessario visionare le disposizioni iniziali.


In fase di possesso l’Italia dipendeva da Francesco Totti. Il numero 10 non aveva solo il compito di rifinire il gioco, ma spesso e volentieri doveva scendere a centrocampo o scambiare la posizione con Doni per aiutare la risalita del pallone per vie centrali o laterali.
Gli esterni alti svolgevano una funzione alternata: Zambrotta, sostanzialmente, doveva pedalare sul binario in linea retta, mentre Doni si associava benissimo con il capitano della Roma e dal loro fraseggio, oltre che dalla loro intesa, partivano le azioni azzurre.

Nel 4-4-2 iniziale ( o 4-3-1-2, cambia poco), la fascia sinistra era quella delegata al gioco di possesso, avendo in Maldini, Doni e dallo spostamento di Totti un abilissimo trio di gestione palla. Il lato destro era più abile a
lavorare senza palla, o a muoversi in reazione alla palla. Fatta eccezione per le sgroppate di Zambrotta, la parte destra doveva completare la manovra. Non è un caso che contro la Croazia, Zambrotta agisse come
una vera e propria seconda punta, con compiti di aggredire l’area e creare un’alternativa centrale ai cross per Vieri.

Zambrotta si inserisce come una seconda punta, con Totti che spazia.

Il tutto veniva fatto sempre in favore dell’equilibrio, con i terzini lato-palla che potevano sganciarsi in proiezione offensiva solo con il possesso consolidato. Con il passaggio repentino alle due punte, l’Italia diede un’altra forma alla propria proposta. Con un modulo molto sbilanciato verso destra, Trapattoni creò uno spazio vuoto dove sviluppare le iniziative palla al piede.

Attraverso le conduzioni di Paolo Maldini, con Coco abile a prendere la profondità e la coppia Totti-Del Piero a creare sovraccarichi, l’Italia formò il suo spot dove consolidare il possesso. Sul lato destro Trapattoni consolidò l’idea di affidarsi alle quattro ruote motrici di Zambrotta, mantenendo Panucci bloccato. La via principale del gioco azzurro rimaneva però la palla alta: potendo sfruttare centrocampisti verticali come Gigi Di Biagio o Cristiano Zanetti, la soluzione profonda ricopriva circa il 60% del fatturato azzurro.

L’Italia voleva guadagnare campo con una manovra veloce e diretta. In fase di non possesso, in entrambi i moduli le disposizioni erano chiare.

Avendo a disposizione un pacchetto offensivo fisico, abile a proteggere la sfera, e capace di scambiare la posizione in continuazione, il lancio lungo con conseguente rimorchio era la strada maestra per risalire il campo. Nel 4-4-2, Totti e Vieri erano quasi totalmente smarcati dal lavoro senza palla.

Kovac prende campo.

L’Italia faceva della compattezza e dell’equilibrio le sue peculiarità. La fase difensiva di Trapattoni prevedeva due linee strette da quattro giocatori, in modo da obbligare gli avversari a ripiegare esternamente, e delegava ai centrocampisti in zona palla il disturbo dell’azione, con gli altri tre molto abili e fare l’elastico per otturare gli spazi.

Se la palla si fosse mossa lateralmente sarebbe stato compito degli esterni salire per disturbare, tirandosi dietro i terzini e la difesa per accorciare i reparti, mentre se la palla fosse stata centrale, uno dei due
mediani avrebbe pressato il portatore con l’altro a garantire l’equilibrio
.

I difensori dovevano mantenere l’aggressività sulle ricezioni spalle alla porta e sulle palle alte. In particolar modo i terzini, che potevano contare sulla compensazione degli esterni.

Il lavoro di Doni che da esterno entra in mezzo al campo.

Gli scompensi nascevano quando l’Italia perdeva palla in zona offensiva senza un’adeguata numerosità sotto la palla. In quegli istanti dovevano salire di colpo le letture dei singoli reparti. Quando gli avversari
riuscivano a ricevere fronte alla porta, l’Italia ripiegava all’indietro orientandosi con marcature sulla palla e sul compagno.

Transizione difensiva azzurra

Nel modulo a tre punte invece, i reparti si muovevano diversamente. Avendo tre attaccanti in fase di non possesso, Trapattoni coinvolgeva tutti gli effettivi sotto la linea della palla, delegando alle tre punte e ad un
centrocampista le fasi di pressione e disturbo. Gli esterni di centrocampo erano chiamati ad un doppio lavoro: scalare in avanti quando la palla stazionava dal loro lato, e formare una linea a 4 quando l’azione prendeva corpo sul lato opposto. La difesa, sostanzialmente, aveva lo stesso compito potendo contare sulla disponibilità di 4-5 effettivi in ogni situazione, il che poteva permettere le solite aggressioni sia spalle alla porta che sui lanci lunghi. La differenza tra la partita con la Corea e quella con il Messico è riassunta in tre fattori: l’andamento della stessa, il contesto e le qualità tecniche differenti. Contro la Corea l’Italia seguì il piano partita per azionare i trigger di pressione in occasione dei retropassaggi asiatici, alzando il baricentro in momenti ben precisi (come nelle prime due partite).

63 a 37 il possesso palla per il Messico.

Contro il Messico l’utilizzo del pallone dei sudamericani non riusciva a permettere una gestione simile. Con un’abnegazione parziale del trio offensivo, ed i quinti messicani che tenevano bassi i nostri esterni, per la squadra di Aguirre si liberavano quasi 30 metri per giocare in libertà. In più l’Italia, spinta dalla smania di segnare, tendeva ad allungarsi in maniera spaventosa slegando completamente i reparti.

Cosa rimane di quel 2002?

Stando ai racconti postumi di quell’edizione, viene alla mente un altro ritornello aderente alla nostra nazionale: “Quando la situazione è idilliaca e tutto promette bene, aspettati il peggio. Quando la situazione è difficile, siamo con l’acqua alla gola o ci manca qualcuno, siamo semi-imbattibili”.

La realtà è che quella nazionale non era un gruppo.

Precisamente, dal minuto 3:45


Aveva tanti amici che si conoscevano bene, ma i dissapori interni erano enormi. Il ritiro non prese mai la serietà necessaria e Trapattoni, anche questa cosa è dura da ammettere, non fu un buon gestore. Di lui si ricorda la grande umanità (Adani e Baronio lo hanno fatto recentemente in una diretta Instagram), ma dall’esterno l’idea è quella di un allenatore in balia dei campioni che allenava. Il cambio repentino di formazioni e giocatori denota, oggi, un totale schiavismo dagli stessi: in un’edizione dei campionati del mondo questa è l’ultima cosa che puoi concederti.

L’amarezza che rimane, nonostante quasi 20 anni, è ancora lacerante.


Articolo a cura di Carlofilippo Vardelli

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