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Quei due schiaffi che cambiarono il ciclismo | Crampi Sportivi

Quei due schiaffi che cambiarono il ciclismo

Nel giugno del 1994, Marco Pantani è di fatto sconosciuto al mondo del grande ciclismo

Un giovane ventiquattrenne, al secondo anno da professionista, venuto al Giro d’Italia come gregario di Chiappucci.

Il Diablo è leader assoluto del team Carrera in quegli anni: scalatore nel pieno della maturità, viene da sei podi consecutivi (3 al Tour, 3 al Giro) nei quattro anni precedenti, battuto negli ultimi quattro Grand Tour soltanto dal numero uno al mondo, Miguel Indurain. E’ alla soglia dei trent’anni, e tutti credono sia arrivato per lui il momento giusto – o ora, o mai più – per provare a vincere finalmente il Giro.

One man come he to justify / one man to overthrow

Dopo una interessante escalation al Giro dilettanti (terzo nel 1990, secondo nel 1991, primo nel 1992), al freshman year nel 1993 Marco ha disputato una stagione tranquilla, nel pieno rispetto delle regole dell’apprendistato: un po’ di esperienza fatta nelle classiche del nord, qualche gara a tappe minore, un Giro probabilmente troppo azzardato e finito con un ritiro per tendinite. E’ un ragazzo apparentemente timido, dicono, molto riservato, col quale è un po’ difficile interagire; piuttosto insicuro e spesso molto pessimista, ma allo stesso tempo estremamente fiducioso dei propri mezzi. A 22 anni, al suo primo contratto da pro, ha chiesto a Davide Boifava (al quale era legato da una semplice, quasi scherzosa stretta di mano di quattro anni prima, e che fu sorpreso nel vederlo tornare adesso a mantenere la promessa, di trovare un galantuomo in un mondo di arrivisti) di inserire una clausola con un bonus in caso di vittoria del Giro o del Tour.

La squadra è tutta al servizio del Diablo per il Giro ‘94, ma le cose non vanno come previsto: dopo le prime due settimane il ritardo dalla sorpresa Berzin è già superiore ai 10 minuti. Pantani è messo leggermente meglio del capitano, ma la tattica del DS Martinelli non cambia: alla vigilia delle tre tappe alpine che aprono la terza settimana è chiaro che la situazione è un la va o la spacca, o si recuperano minuti subito oppure la situazione sarà definitivamente compromessa.

Il primo atto del trittico, 234 km tra Kranj e Lienz, porta prevedibilmente ad un nulla di fatto: la tattica ha la meglio, e l’attesa delle due tappe monstre dei giorni successivi lascia gli uomini di classifica optare per un ‘magari, domani’. Dopo la tappa numero 13, Berzin ha più di due minuti su tutti gli avversari, quasi quattro su Indurain.

La tappa 14, il 4 giugno 1994, prevede altri 235 km con cinque GPM prima dell’arrivo a Merano. Chiappucci ci prova subito: si inserisce nella fuga di giornata che va all’inseguimento di Richard, e resta nel gruppetto di testa fino all’ultima salita. La fuga però non riesce mai a prendere davvero il largo: il controllo della Gewiss-Ballan della maglia rosa, operato in prima persona da Moreno Argentin, è troppo forte. Sulla salita che porta al Passo del Giovo, con ancora 42 km di discesa prima dell’arrivo, in un ultimo estremo gesto, il Diablo scatta e parte in solitaria. Ma è più che altro un gesto dimostrativo, poche pedalate prima che venga riassorbito dal gruppo. Berzin, Indurain, Belli, Bugno, Tonkov, De Las Cuevas, i capitani sono tutti là. Dopo duecento chilometri di gara, più di sei ore sotto la pioggia, al gelo dei duemila metri di altezza, sembra chiaro che si aspetterà la fine della discesa per giocarsi la tappa in volata, che nessuno avrà la voglia né la forza di provare più qualcosa. Ma non passano neppure trenta secondi, che succede qualcosa di inaspettato.

A 46’45’’ lo scatto di uno di quei giovani

Meno di duecento metri dopo che Chiappucci è stato ripreso, un suo gregario parte dal gruppo. “Un altro di questi giovani”, dice il commentatore Beppe Saronni un po’ annoiato “che non hanno niente da perdere. Mentre noi ci aspettavamo dei corridori più importanti, come Bugno e Indurain, a provare a fare qualcosa”. Il ragazzo fa uno scatto impressionante, un ultimo chilometro di salita fortissimo, e poi si lancia in una discesa tecnica, bagnata, pericolosa, senza alcuna paura; va noncurante a pennellare curve insidiose o a strafare con il sedere fuori sella sui rettilinei, salta Richard e resiste strenuamente al forcing del Team Polti che tira il gruppo alle sue spalle. Va a vincere la tappa. A pochi è chiaro che tipo di corridore abbiamo di fronte. Sembra poter essere un passista, un discesista o addirittura un finisseur; ha resistito per 40 km ad un gruppetto ben organizzato tra discesa e piano, assestando un primo, grande schiaffo in faccia a tutti.

Surely some revelation is at hand / Surely the Second Coming is at hand

Ma è il giorno dopo, il 5 giugno, che il corridore romagnolo va a dissipare ogni dubbio: la tappa regina del Giro, la numero 15, è a rischio, si affronta il lato nord dello Stelvio in cima al quale, a duemilasettecento metri di altezza, nevica copiosamente. Ma la gara va avanti, in fuga va Vona e subito dopo c’è un manipolo di uomini con Chiappucci; gli uomini di classifica fanno gruppetto ad un paio di minuti. Sul Mortirolo il gruppetto perde pezzi metro dopo metro, e poco dopo l’inizio della salita, prendendo di sorpresa tutti, perfino le telecamere, Pantani parte all’attacco. Berzin prova ad andargli dietro ma cambia idea appena capisce la portata dell’evento: si guarda indietro ed aspetta Indurain, la cui ruota, spera, gli consentirà di non andare a fondo, di non perdere da quell’ombra col corpo di leone e la testa di un uomo tutti i quasi sei minuti accumulati finora.

Pantani sfugge anche alle telecamere, a 21’45’’

Pantani raggiunge il gruppetto col suo ormai ex capitano, che non si accorge, o finge di non accorgersi, del suo arrivo nonostante Martinelli continui a gridarglielo dal finestrino. Ad uno ad uno, gli uomini in fuga vengono saltati, sverniciati, staccati da un Pantani indemoniato. Vladimir Belli prova a fare il gradasso e gli va dietro: durerà solo due minuti alla sua ruota. I commentatori sono strabiliati, gli aggettivi si sprecano. “E’ impressionante”, “Scatenato”, “E’ una belva”, “Si rialza ancora una volta sui pedali!”. Quello che Marco fa ha dell’inverosimile: il record di ascesa al Mortirolo viene distrutto, così come quello di spettatori a guardarlo alla TV. In sei milioni sono sintonizzati su Italia Uno, il Paese intero è strabiliato. Dietro, Indurain deve dare sfogo a tutta la propria potenza per non perdere troppi minuti, involontariamente aiutando la maglia rosa a non naufragare del tutto. Ai due chilometri dalla vetta, Pantani riprende anche Vona e va in testa da solo. Miguelòn sembra intuire la gravità della situazione e si scrolla Berzin di dosso.

L’impresa sembra essere troppo grande, impossibile da portare a termine; mancano ancora cinquanta chilometri, c’è da affrontare una lunga discesa e poi ancora due salite, il finale prevede il Santa Cristina e poi un’altra picchiata verso Aprica. Pantani continuerà imperterrito ad accumulare vantaggio su tutti: arriverà al traguardo con quasi tre minuti su Chiappucci, tre e mezzo su Indurain, quattro su Berzin. “Sono felicissimo, non tanto per aver risalito la classifica, ma per aver dimostrato che anche in salita si può fare qualche cosa”. Poche parole, all’arrivo, piene di modestia, piene di lucidissima, amara verità: lui ha solo 24 anni, è al secondo anno da professionista ma ha capito benissimo che il ciclismo sta cambiando, che è sempre più dedicato agli atleti muscolosi, ai cronomen, che la salita è stata ormai rilegata a un semplice ‘qualche cosa’.

Il secondo schiaffo è servito, con stile, eleganza, perfino con superiorità intellettuale.


19 luglio 1994: sull’Alpe d’Huez Pantani non vince perché la squadra non ha creduto abbastanza nella possibilità di riprendere la fuga; ma la sua scalata è talmente sovrumana che basta guardare come a 4’55’’ Pensec allarga le braccia vedendoselo passare di fianco

Verranno tante altre vittorie, altrettanto o anche più prestigiose. Verrà l’Alpe d’Huez (probabilmente la dimostrazione più devastante insieme ad Aprica della superiorità assoluta in salita di Pantani), verrà Duitama, arriveranno otto tappe al Tour ed altre sei al Giro; verranno due volte sul podio degli Champs-Elysées e poi il numero più grande della carriera, uno dei più grandi della storia: la doppietta leggendaria Giro-Tour – uno scalatore di 55 chilogrammi in grado di battere tutti proprio nel decennio in cui il ciclismo è diventato appannaggio di cronomen muscolosi e potenti; qualcosa che mai più è stato ripetuto dopo di lui. Altre venticinque vittorie, e tutto questo nel giro di soli cinque anni: tanto è durata la parabola vincente di Marco Pantani, che nel mezzo ha pure saltato per infortunio l’intera stagione 1996.

Soltanto dieci anni dopo queste prime vittorie da ragazzino sconosciuto, Marco sarà già morto.

And the doors are open now, as the bells are ringing out / ‘cause the man of the hour is taking his final bow

L’ultima vera vittoria, un altro 4 giugno, esattamente cinque anni dopo la prima, è quella schiacciante di Madonna di Campiglio. Marco è ormai un campione affermato, è il ciclista più forte del pianeta, sta per vincere un secondo Giro consecutivo e si nasconde circa le possibilità di fare un’altra doppietta. Al Tour non andrà, ha detto, ma tutti sperano di sì, tutti credono di sì. E’ la sua quarta vittoria in questo Giro, i distacchi da chi lo segue in classifica sono imbarazzanti. Al traguardo arriva con nonchalance, non alza nemmeno le braccia: forse ha una mezza idea di ciò che lo aspetta l’indomani all’alba.


L’ultima vittoria del vero Marco Pantani, a Madonna di Campiglio; ne arriveranno altre due al Tour nel 2000, ma quello sarà già un Pantani invecchiato, incattivito, che non ci piace ricordare.

Dei quasi cinque anni che vanno da Madonna di Campiglio in poi non vogliamo, non possiamo parlare. E’ doveroso, anzi, tacerne. Preferiamo credere che Marco, che tutto il ciclismo, che il mondo intero si sia fermato al pomeriggio del 4 giugno (del 1994, o del 1999, scegliete voi), quando questo circo era ancora completamente godibile e credibile, quando la vita, per chi amava lo sport, era di certo più facile. Pantani è andato oltre il mero risultato sportivo; come un Maradona, come un Alì, ha valicato i confini dello sport ed è entrato nella dimensione del mito. In quei cinque anni precisi, da un 4 giugno ad un altro, Marco Pantani ha cambiato davanti ad un intero Paese il volto del ciclismo, riportandolo ai fasti di Coppi o di Gimondi. Record di audience in TV, folle oceaniche a seguire le corse, migliaia di appassionati ad inseguirlo per strada – una vita degna di un divo, cosa che per un ciclista non accadeva da più di venti anni, e non sarebbe più accaduto dopo Marco: ancora oggi, le strade del ciclismo hanno dappertutto un unico nome.

Tutto questo è cominciato con due schiaffi che dopo un quarto di secolo risuonano ancora nell’aria; due schiaffi che ancora sentiamo sulla nostra faccia. Marco Pantani è vivo, e compie oggi 29 anni per l’ennesima volta.

May you always be corageous / Stand upright and be strong / May you stay / Forever young

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