“E’ muort‘o rrè, evviva ‘o rrè”, cantava Pino Daniele in una magnifica canzone dai forti connotati politici. Chris Froome non è morto, per fortuna, ma mercoledì mattina ci è andato abbastanza vicino.
Ed ora che la sua carriera è a rischio, tutti corrono, come da copione, ad acclamare il re. Perché è chiaro che Chris Froome sia il re indiscusso del ciclismo moderno. Uno dei re assoluti della storia di questo sport. Ma in maniera piuttosto bizzarra, il re non è sempre stato osannato, anzi: la carriera di Chris Froome è stata costellata da aspre polemiche ed un inedito tifo contro che nel ciclismo è abbastanza raro.
Intanto, mercoledì mattina l’intero mondo del ciclismo si è fermato, in trepidante attesa di notizie dopo la primissima trapelata prima della partenza della quarta tappa del Critérium du Dauphiné: Chris Froome è caduto durante la ricognizione, forse non sarà al via oggi pomeriggio. Da lì in poi, è stato un continuo rincorrersi di voci e di smentite che hanno tenuto tutti col fiato sospeso. L’incidente potrebbe essere grave. Forse non potrà partecipare neppure al Tour de France. La faccia di Dave Brailsford, intervistato poco dopo l’incidente, ha tolto ogni dubbio ancor più delle sue parole: l’incidente è grave, molto grave. Potrebbe essersi rotto il femore, è in ospedale e le prossime ore saranno cruciali per capire meglio. In questo momento pensiamo più alla sua famiglia che al Tour de France, dice il general manager del Team Ineos.
Wout Poels, che stava seguendo a pochi metri il suo capitano nella ricognizione della tappa a cronometro di Roanne, racconta di una scena agghiacciante: alla fine di una discesa nemmeno troppo veloce, è bastato un attimo di distrazione per trasformare una qualsiasi giornata di avvicinamento al Tour (non un Tour qualsiasi, quello che avrebbe dovuto essere il Tour che lo avrebbe fatto entrare nella leggenda) in tragedia. Una distrazione come se ne prendono tante, i ciclisti. Probabilmente, era già da qualche chilometro che Chris aveva quel fastidio, quella necessità di soffiarsi il naso, ed aveva calcolato di aspettare il momento giusto, un tratto con meno curve, o dove poter rallentare un po’. Andava soltanto a 55 chilometri orari, quando ha tolto il braccio dalle protesi del manubrio: la bici da crono costringe ad una posizione innaturale, e ad un equilibrio parecchio difficile da gestire, con gomiti ed avanbracci a puntare in avanti, e soprattutto con sul posteriore una ruota lenticolare sensibilissima a qualsiasi movimento d’aria. Chris ha alzato il braccio, si è soffiato il naso, e contemporaneamente anche il vento ha iniziato a soffiare: un forte colpo, da sinistra.
E’ stato un attimo, una folata di un istante.
La bici punta verso destra, e sulla destra la sfortuna vuole che ci sia un muro. Un impatto micidiale, seguito da istanti di terrore. Poels ha dichiarato di essere rimasto immobile, incapace anche solo di avvicinarsi al suo capitano, e poi sotto shock per più di un’ora, tanto da non riuscire a smettere di tremare né essere in grado di offrire una prestazione dignitosa nella crono, qualche ora più tardi. Chris Froome è a terra, non si muove per secondi lunghissimi. Non perderà mai coscienza, ma le conseguenze dell’impatto sono devastanti: escoriazioni su tutto il corpo, gomito destro ed alcune costole rotte, una frattura al bacino, un’altra allo sterno, la vertebra C7 rotta e soprattutto, la peggiore di tutte, una frattura esposta al femore destro. Per fortuna, l’unica parte del corpo a non aver impattato contro il muro è stata la testa; sono esclusi dei danni neurologici. Ma la frattura esposta del femore è la cosa più grave: l’osso ha perforato la carne uscendo all’esterno, e Froome ha perso più di due litri di sangue; ci vorranno una sedazione intensa ed una serie di flebo sul posto per evitare pericolose infezioni, prima di poterlo caricare nell’elicottero diretto all’ospedale, e poi sei ore sotto i ferri e due giorni di terapia intensiva per poter finalmente tirare il fiato.
Non è morto, Chris, ma la sua carriera potrebbe essere ad un bivio decisivo, a trentaquattro anni. Tantissimi corridori, anche molto più giovani di lui, non sono più tornati ad alti livelli dopo un incidente del genere. Tanti hanno smesso di correre, alcuni anche di camminare per bene. I medici per ora parlano di sei settimane di ospedale e poi almeno sei mesi di riposo, poi si vedrà. Certo, Chris Froome non è un corridore qualsiasi. Un paio di brutti incidenti li aveva già avuti, ed in entrambi i casi si è comportato da eroe, più che da uomo. Al Tour del 2014 cadde nella quinta tappa (dopo essere già caduto il giorno prima), fratturandosi un polso, e prima di ritirarsi continuò a correre per circa cinquanta chilometri.
Nella undicesima tappa della Vuelta a España del 2015 cadde al primo chilometro fratturandosi un piede, e riuscì a portare a termine i 138 chilometri di gara arrivando trentaduesimo al traguardo, prima di avere una diagnosi di tre mesi di stop.
Chris Froome, lo sappiamo, è un eroe. E le motivazioni per andare avanti saranno grandissime. Dovesse riuscire a vincere un quinto Tour de France, raggiungerebbe gli unici quattro atleti in tutta la storia ad esserci riusciti: Anquetil, Merckx, Hinault, Indurain. Eppure, dicevamo, è stato sempre criticato, quasi incomprensibilmente. Nessuno si sarebbe mai sognato di criticare Merckx, ma Froome, chissà perché, è sempre stato messo in discussione, da certi appassionati come da una certa stampa. Un po’ perché in tutti gli sport chi più vince è sempre il più odiato di tutti, un po’ per il suo carattere freddo e poco incline all’amicizia nei confronti di giornalisti, colleghi e fan, un po’ per diversi sospetti lanciatigli addosso dagli addetti ai lavori: potremmo dire che Chris Froome è stato vittima da un lato dell’analfabetismo funzionale dei nostri giorni e dall’altro, per assurdo, della stessa squadra che lo ha fatto grande, la Sky. Sì, perché buona parte delle discussioni verte intorno al rapporto super leggero ed alla sua frullata un po’ scomposta studiata apposta per lui grazie alla corona ovale, e poco gradita ai puristi dell’estetismo (ma sicuramente molto efficace), al poco spettacolo dato dagli eccessivi check computerizzati di watt e frequenze cardiache e dal controllo assoluto che la sua squadra impone su gruppo in tutte le tappe fondamentali, fino alle critiche circa i marginal gains adottati maniacalmente in casa Sky ed i sospetti circa l’onestà del colosso inglese. Tutto ciò ha portato agli sputi in faccia e al lancio di sacchetti di urina che Froome ha dovuto subire sulle strade del Tour de France, e ad una certa gogna mediatica che veniva fuori ogni volta che aggiungeva un Grand Tour al suo palmarès.
Eppure, la grandezza di Froome non ha eguali nel ciclismo moderno. Tolte le due medaglie olimpiche e quella mondiale a cronometro, tolti i tre Dauphiné e i due Romandie – tolto cioè ciò che per qualsiasi altro corridore sarebbe una carriera di primissima classe, i bonus arrivano dai Grandi Giri, la sua specialità assoluta. Se escludiamo le prime due partecipazioni, quando, giovanissimo, era ancora “uno sconosciuto keniano bianco” che correva per una piccola squadra britannica, le altre quindici partecipazioni hanno dell’incredibile.
La Vuelta del 2017 è stata dominata in maniera quasi imbarazzante, con Froome che è andato all’ultima tappa a prendersi perfino la classifica a punti; nelle altre cinque partecipazioni spagnole, tre secondi posti (curiosamente, proprio in questi giorni uno dei secondi posti si è trasformato in un’altra vittoria alla Vuelta, quella del 2011, dopo la squalifica di Cobo; Froome ha ricevuto la notizia in ospedale ma non crediamo abbia avuto voglia di festeggiare l’ennesima vittoria) ed un quarto posto, oltre al ritiro per la frattura al piede.
Il Giro del 2018 passerà alla storia per un numero che definire ‘di altri tempi’ è poco, con quell’attacco sul Colle delle Finestre a 85 chilometri dall’arrivo che resta l’impresa più grande vista negli ultimi cinquant’anni di ciclismo.
Dei suoi Tour potremmo parlare all’infinito. Detto dei quattro vinti, stravinti, arrivando ad annoiare gli spettatori, ad inimicarsi i francesi, a costringere i bookmakers ad inventarsi una lotta al secondo posto, c’è stato quello del 2014 perso per il già citato polso rotto, e poi altri due nei quali Froome ha subìto, prima da parte della sua squadra e poi dalla cattiva sorte, un trattamento a voler essere buoni poco gentile, e per nulla giusto.
Nel 2012 si decise di far rispettare le gerarchie decise a bocce ferme anche quando fu evidente la sua superiorità nei confronti del vincitore designato a tavolino, Bradley Wiggins. Quello che successe a Peyragudes nella diciassettesima e decisiva tappa fu clamoroso, e Froome fece in modo che tutto il mondo sapesse chiaramente chi era il più forte tra i due, arrivando ad umiliare il futuro vincitore della Grande Boucle con una serie di gesti di facilissima interpretazione.
Sei anni dopo, nel Tour del 2018, una caduta alla prima tappa rese impossibile far rispettare allo stesso modo le gerarchie iniziali. Tra Froome, partito capitano, ed il suo gregario Geraint Thomas, si erano frapposti Dumoulin e Roglič, e tentare la vittoria con l’uomo designato divenne troppo rischioso per il Team Sky, che saggiamente decise di invertire i ruoli e far diventare Thomas capitano, piuttosto che rischiare di perdere del tutto la corsa.
Insomma, che piaccia o no, che sia simpatico o meno, il fatto è che Chris Froome è nettamente il più grande ciclista della sua generazione. E probabilmente, come abbiamo visto, ha vinto anche meno di quanto avrebbe potuto. Parliamo di lui al presente, e siamo pronti ad aggiornare il suo palmarès, perché siamo fiduciosi di rivederlo, l’anno prossimo, ancora in sella a combattere per il quinto Tour, o per il titolo olimpico di Tokyo, che si vociferava fosse il modo migliore in cui avrebbe voluto chiudere la sua carriera. E se anche non dovesse riuscirci, se anche non tornasse più a correre, il suo nome resterà per sempre scolpito tra i grandissimi, tra i cinque o massimo dieci più grandi ciclisti della storia. In bocca al lupo, Chris.

In principio fu Saul Bellow. Poi arrivarono, disordinate in momenti di distrazione, le altre folgorazioni: Diablo & Pirata, Kurt & Eddie, Tondelli e Maradona, Carver e Djorkaeff. A vent’anni la diagnosi ufficiale: grafomania.
Romanziere per vocazione, scrivo anche di sport e di musica da quando ho capito che a farli non ero in grado.