O.J. Mayo: Non è finita finché non è finita

Taipei, Tawian
30 Novembre 2018

Manca poco all’inizio della partita e nello spogliatoio dei Dacin Tigers regna l’assoluto silenzio.

Da queste parti ci si concentra così prima di ogni appuntamento importante, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà.

I Tigers, infatti, vengono da quattro sconfitte nelle prime cinque gare della SBL (Super Basketball League) e sono alla ricerca di se stessi, dopo aver vinto il campionato nella stagione 2016/2017.

Seduto davanti al suo armadietto, intento a prepararsi per la palla a due attraverso i soliti rituali pre partita, c’è un giocatore molto diverso dagli altri.

Lunghi rasta (o dreads, come preferite) gli cadono sulle spalle e una barba folta riempie il suo viso, sofferto ma, allo stesso tempo, molto concentrato. 

La maglia è la numero 32 e il nome, al contrario di quello dei compagni di squadra, non è scritto con i caratteri cinesi. Viene dagli Stati Uniti, nato e cresciuto ad Huntington, West Virginia.
Si chiama Ovinton J’Anthony, per tutti O.J., ma sulla maglia c’è scritto solo il cognome: Mayo.

La palla a due è sempre più vicina.

Gli avversari di giornata sono i temibili Fubon Braves, vicecampioni SBL.

O.J. è quasi pronto a scendere in campo. Si aggiusta le fascette attorno alla testa, due perchè una sola non basta a contenere tutti quei capelli, e si allaccia attentamente le scarpe, come ha sempre fatto da quando ha iniziato a giocare a pallacanestro.

È passato tantissimo tempo dalla prima volta, quando aveva circa 6 anni.

L’amore per il gioco non è mai venuto meno, nonostante la vita non gli abbia proprio sorriso durante la sua carriera.

O.J. non è un giocatore come gli altri, come tutti quei talenti americani troppo scarsi per giocare nella NBA, costretti ad emigrare all’estero alla ricerca di un contratto tra i professionisti.

No, non è stato l’O.J. “giocatore” a portarlo all’esilio. È stato l’O.J. “uomo” a farlo.

Tredici anni fa, Mayo era considerato uno dei prospetti più importanti della nazione. Sports Illustrated gli aveva dedicato addirittura un lungo articolo dal titolo “The Next One”, accostandone il talento (non le caratteristiche) a sua maestà LeBron James e definendolo un possibile crack nel futuro del basket NBA.

O.J. è sempre stato un giocatore sulla bocca di tutti sin dai tempi dell’high school, periodo per lui ricco di successi individuali, soprattutto nelle stagioni a North College Hill, Ohio, e ad Huntington.

In attacco si dimostra un giocatore clamoroso, uno capace di scollinare i trenta punti senza nemmeno versare una goccia di sudore, palesando una facilità irrisoria nel fare canestro. Un talento grezzo, per nulla equilibrato nel suo modo di interpretare il basket, ma estremamente efficace nella metà campo offensiva.

The Next LeBron, come lo chiamava qualcuno, incanta anche al college, per la precisone a USC, University of Southern California, dove gioca solamente per una stagione (assieme al nostro Daniel Hackett), mettendo a referto 20.7 punti, 4.5 rimbalzi, 3.3 assist (e 3.5 palle perse), 1.5 recuperi di media a partita.

Il suo futuro nella NBA è in discesa, a detta di molti.

Eppure per O.J. il percorso non è stato dei più facili. Un padre che è stato più dentro che fuori (droga e possesso d’armi), un fratello pure lui in carcere giovanile e una serie di amici alla deriva sociale, pericolosamente in bilico fra la morte e la detenzione.

Il giovane Mayo non è mai stato in grado di mettere a fuoco degli obiettivi concreti per la sua vita, eccetto quelli collegati al basket. Ancor prima di diventare professionista, il suo temperamento, spesso e volentieri, ne ha preceduto ogni successo sportivo.

Marijuana, topless bar e risse violente sono sempre stati all’ordine del giorno. Anche sul parquet esagera, rendendosi anche protagonista di un’aggressione ad un arbitro.

Per O.J. il basket è lo strumento con cui mettere tutto in equilibrio, rifugiandosi in esso per salvare la propria anima dalla perdizione. 


Joe Murphy/NBAE via Getty Images

La NBA diventa realtà nel 2008, anno in cui viene scelto con la terza chiamata assoluta del Draft dai Minnesota T-Wolves e poi scambiato con i Memphis Grizzlies per Kevin Love.

Il primo anno in Tennessee, conclusosi con il secondo posto nel premio Rookie of the Year (dietro D-Rose) e numeri importanti per una matricola (18.5 punti, 3.8 rimbalzi, 3.2 assist e 1.1 recuperi di media a partita), sarà paradossalmente il migliore della sua carriera.

Nel primo mese da professionista mette a referto quattro prestazioni da 30 punti, lasciando intendere che avrebbe recitato un ruolo di assoluto protagonista negli anni a venire.

Invece, qualcosa va storto.

Dal terzo anno iniziano una serie di problemi che lo accompagneranno negativamente in tutto il suo percorso NBA. Finisce in panchina, diventando sesto uomo (ma, di fatto, venendo retrocesso nelle gerarchie), e litiga con alcuni compagni.

Uno su tutti, Tony Allen, aka Mr. First Team All-Defense, con cui viene quasi alle mani durante un volo di squadra.

Viene anche sospeso per 10 partite, dopo essere risultato positivo al deidroepiandrosterone (DHEA), un ormone steroideo vietato dalle norme antidoping della lega.

O.J. affermò di aver assunto la sostanza dopo aver bevuto un energy drink a una stazione di benzina. Non gli credette nessuno.

Nella stagione 2012/2013 finisce ai Dallas Mavericks e ne gioca 82 su 82, sempre partendo in quintetto base.

I numeri tornano su livelli importanti (15.3 punti con 40.7% da tre, 4.4 assist e 3.5 rimbalzi) e la considerazione attorno a lui, merito soprattutto della egregia prima parte di regular season, riprende a crescere.

Finisce ai Milwaukee Bucks nell’estate del 2013 (24 milioni complessivi di stipendio) e in tre stagioni fa terra bruciata attorno a sè.

Le statistiche crollano vertiginosamente a causa di un deleterio stile di vita e a diversi infortuni, il più serio alla caviglia destra (procuratosi inciampando dalle scale di casa).

O.J. perde progressivamente fiducia nelle proprie potenzialità, circondato da persone che non gli vogliono bene e concedendosi agli eccessi e al lato oscuro della notorietà: alcol, sesso e droga a profusione. Non necessariamente in questo ordine.



È il primo Luglio del 2016, quando Mayo viene sospeso e squalificato per due anni dalla NBA per aver violato le regole antidroga.

Viene trovato positivo durante un controllo ma la sostanza non viene resa nota dall’Association.

Una cosa è certa: una squalifica del genere accade solamente quando nell’atleta viene riscontrata la presenza di una droga pesante; non una semplice canna, insomma.

All’improvviso, nella carriera e nella vita di O.J. Mayo si spegne completamente la luce. 

“Togliermi il basket è stata, probabilmente, la cosa più vicina alla prigione che poteva capitarmi. Da quando ho 6 o 7 anni, ho sempre giocato una stagione. Questo è il punto più basso di tutta la mia vita”

O.J. Mayo

Dopo la squalifica, Mayo sparisce dalla circolazione per diversi mesi. Non si mette in contatto con nessuno e si isola totalmente dal mondo che l’ha portato a raschiare il fondo del suo orgoglio.

Nessuno sente la sua mancanza, a dire il vero: il basket NBA si dimentica in fretta di gente come lui, specialmente a seguito di una situazione così grave. Il nome di O.J. Mayo viene cancellato con forza da tutti gli addetti ai lavori.

Lui, nel frattempo, parte per una lunga vacanza alla ricerca di sè stesso: Dubai, Maldive, Uganda, Sud Africa e, infine, Kenya.

In questo periodo, O.J. torna a toccare con mano la realtà, vivendo tra le persone normali, lontano dagli ambienti che hanno corrotto il suo animo.

Non è mai stato un cattivo essere umano. Non lo è nemmeno diventato. 

Al ritorno negli Stati Uniti la decisione è quella di tornare a giocare a pallacanestro, lottando con tutte le sue forze per ripulire il suo nome da tutta la merda che gli è caduta addosso negli ultimi anni.

Vuole farlo per sè stesso e per tutte le persone, come sua madre Alisha, che lo amano e che vogliono solamente vederlo felice.

Nonostante sia totalmente fuori forma, ingrassato e provato, trova qualcuno disposto ad allenarlo. I due “pazzi” si chiamano Chris Johnson e Travelle Gaines, due professionisti che lavorano stabilmente con tantissimi giocatori NBA.

I due accettano di allenarlo ma pretendono da lui massima serietà. Non ammettono alcuna distrazione da Mayo, obbligandolo a seguire un ferreo regime alimentare e a non saltare nemmeno una sessione, pena la sospensione definitiva dal programma.

O.J. è umile e determinato. Passa tutta l’estate in palestra a Los Angeles, scomparendo letteralmente dal mondo reale. Conta solo il basket, l’unica cosa ad averlo mai fatto sentire bene nella sua vita.

“I dug myself a hole, but it’s not a coffin. I can still get out”.

Tradotto: mi sono scavato una buca ma non è una bara. Posso ancora uscirne.

Ripartire da zero per riprendersi la propria vita e la propria carriera.



Sta per iniziare la partita. Il palazzetto è quasi vuoto ma i tifosi presenti sono ugualmente molto rumorosi. Non proprio l’atmosfera del Madison Square Garden, insomma.

I Tigers partono subito forte, guidati dalla classe di O.J. Mayo.

Il #32 dispensa assist ai compagni, coinvolgendoli sin da subito. Ai tempi dell’high school lo criticavano molto per il suo individualismo. Ora, però, le cose sono cambiate. Il suo primo canestro è una penetrazione con fallo, eseguita come fosse un semplice esercizio di riscaldamento.

Step back jumper dall’angolo. Dentro.

Tripla eseguita un metro dietro la linea da tre. Solo rete.

Stessa posizione. Stesso risultato. Altri tre per lui.

Spin move e parabola accolta dal ferro. Dentro.

Fade away jumper. Ancora dentro.

I pochi presenti dentro il palazzetto iniziano a scaldarsi. Non avevano mai visto uno così forte prima d’ora a Taipei.

O.J. continua il suo spettacolo, prendendo, di volta in volta, maggior ritmo. Ogni canestro è più difficile del precedente. Ogni volta la palla non sfiora nemmeno il ferro. Il pubblico impazzisce sempre di più. Non sbaglia mai, segnando triple come fossero semplici layups.

Saranno otto le bombe alla fine.

Alla sirena finale, il referto dice 39 punti e vittoria dei Tigers sui Braves 110-90.



Nulla di epico guardando la prestazione dal punto di vista statistico, anche se bisogna sempre segnarli quei punti, anche contro giocatori mediocri.


No, il significato va ben oltre tutto questo e non ha quasi nulla a che vedere con il basket.

O.J. Mayo vuole salvarsi e uscire dal buco nero in cui è caduto un paio d’anni fa. Non si tratta solo di tornare a giocare a pallacanestro o di tornare a farlo nella NBA.

È la vita stessa di O.J., il suo significato più profondo, ad essere in discussione. 

Il suo volto mostra ancora le cicatrici della lacrime versate dopo la squalifica. Il suo gioco non è più quello di un tempo e, forse, non tornerà mai più. In tanti l’hanno abbandonato, voltandogli le spalle come fosse un malato contagioso. Tutto questo, ora, sembra essere alle spalle. 

O.J. ci sta riprovando e vederlo giocare così, in un palazzetto semivuoto con addosso la maglia di una squadra taiwanese, non può lasciare indifferenti. Lottare per riprendersi la dignità. Per riprendersi il suo nome.

It ain’t over ‘til it’s over.

Non è finita finché non è finita.

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