Staples Center, Los Angeles, CA | 26 Aprile 2019
Gara 6 del primo turno dei Playoffs della Western Conference. I Golden State Warriors, numero uno del tabellone, hanno messo in ghiaccio la vittoria e la qualificazione giocando una partita praticamente perfetta dal punto di vista difensivo, guidati nella metà campo offensiva da un leggendario Kevin Durant (50 punti per lui). Mancano 2:25 alla sirena finale ma il risultato è già più che acquisito. In lunetta c’è Andre Iguodala. Il #9 dei Warriors sbaglia il primo tiro libero e Doc Rivers decide di concedere la standing ovation ai suoi giocatori più rappresentativi: Lou Williams, Montrezl Harrell e Patrick Beverley.
Hanno dato tutto quello che avevano sul parquet, spremendo ogni singola goccia d’energia del loro corpo. Era una sfida impossibile, quella contro Golden State, ma i Clippers non hanno mai mollato un centimetro, vendendo cara la pelle e spingendosi oltre i propri limiti come se nulla fosse più importante.
Patrick Beverley ha sacrificato tutta la sua carriera per un momento come questo. Certo, voleva vincere. Su questo potete scommetterci. Il suo modo di interpretare la pallacanestro, però, è radicato molto più in profondità del semplice risultato sportivo. Vive di eccessi, esplosioni di agonismo e passione. Non si tratta solamente di vincere o perdere. Si tratta di vivere o morire nel senso più puro e nobile che possiate immaginare. Lottare contro l’inevitabile, anche quando si è soli a credere nella speranza.
In questa serie Pat ha regalato a tutti gli appassionati del gioco momenti di ineguagliabile esaltazione tecnica. La sua sfida con Kevin Durant, nettamente più grosso e talentuoso di lui, desiderata e pretesa senza esitazioni, ha acceso una luce nuova negli occhi degli spettatori. Una luce fatta di empatia e sofisticata meraviglia. Un calore che ha unito tutto quanti attorno all’amore incondizionato nei confronti di questo incredibile gioco. L’abbraccio con KD, poco dopo il suono della sirena, rappresenta tutto quello che amo della pallacanestro. La durezza della battaglia sportiva, spinta oltre i confini delle convenzioni, oltre gli eccessi di una lega che si nutre delle individualità, che si conclude orgogliosamente senza rancori nell’assoluto rispetto dell’avversario.
“Greatness recognizes greatness, and is shadowed by it”.
Se pensate che Patrick Beverley si sia improvvisato come l’antieroe per definizione, vi sbagliate. Non ha recitato questo ruolo per convenienza scenica. No, l’ha interpretato per necessità, a causa dell’essenza stessa della sua natura. Quello che vedete sul parquet è esattamente quello che è sempre stato in tutta la sua vita. Più maturo di un tempo, certo, ma fottutamente autentico come pochi altri giocatori nella storia recente della NBA.

A tough motherf***er.
Se volete davvero conoscere le origini della durezza mentale di Patrick Beverley, allora non potete che tornare indietro alla sua infanzia e adolescenza. Precisamente nel West Side di Chicago, luogo dove è nato e cresciuto alla fine degli anni Ottanta. Da quelle parti la vita è fottutamente dura, soprattutto per un afroamericano. Lungo le strade della Windy City, il basket rappresenta una delle poche via di fuga dalla merda che scorre dentro i quartieri più malfamati della città. Per un giovane ragazzo di colore il segreto per sopravvivere è riempire il proprio tempo con attività costruttive e formative, altrimenti il rischio della deriva è molto più vicino di quanto si possa immaginare. Fuori dalla porta di casa le tentazioni e il pericolo rappresentano una costante minaccia per menti fragili e inesperte.
Per alcuni ragazzi la scelta si riassume drasticamente in due opzioni: criminalità o tirare a canestro. Nessuna via di mezzo. Nel West Side l’asfalto insanguinato dalla droga e dalla violenza non lascia spazio all’indecisione. Dentro o fuori. Lisa Beverley ha dato alla luce Patrick quando aveva nemmeno 18 anni, crescendo il figlio da sola assieme alla madre Celeste. Il padre non è mai stato molto presente nella loro vita. Negli Stati Uniti li chiamano “in and out parents”. La verità è che il doloroso vuoto che lasciano tende a non trovare alcun riempimento o consolazione, soprattutto nella vita dei loro figli.
Pat nasce in mezzo a tutto questo, controllato a vista da mamma Lisa che per lui desidera solamente un futuro felice, lontano dai guai. Il quartiere è molto pericoloso ma il senso di fratellanza che abbraccia tutti quanti rappresenta qualcosa di estremamente formativo per il carattere di chi ci vive. Tutti se ne vogliono andare, un giorno o l’altro, ma nessuno ha intenzione di dimenticarsene. Dimmi da dove vieni e ti dirò che giocatore sei. Il giovane Beverley inizia a sgomitare sotto canestro nei playground del West Side in un periodo estremamente significativo della pallacanestro di Chicago. I leggendari Bulls di Michael Jordan e Scottie Pippen stanno cambiando la cultura di un città che vive appassionatamente per lo sport e tutti sembrano esserne totalmente assuefatti. Il basket di strada diventa espressione primaria dell’individualità, della lotta per la propria affermazione sociale. Tutti giocano a pallacanestro. Tutti vogliono sognare di diventare giocatori NBA e giocare allo United Center.
Se nel violento South Side, un giovane ragazzino di nome Derrick Rose, coetaneo di Patrick, cresce idolatrando Michael Jordan, Beverley s’innamora della pallacanestro grazie a Kevin Garnett, formidabile talento dei Minnesota Timberwolves e leggenda della Farragut Academy, liceo del West Side della “Windy City”. “The Big Ticket” è un fottuto guerriero del parquet, uno capace di sputare sangue per recuperare una palla che nessun vuole recuperare e che farebbe qualsiasi cosa pur di vincere una partita.
Il giovane Patrick Beverley non è dotato assolutamente delle caratteristiche tecniche di Garnett. KG, infatti, è un ala forte (sempre che sia corretto “ingabbiarlo” in un ruolo), straordinario nel gioco spalle a canestro, devastante sotto i tabelloni. Pat, invece, è una guardia che non arriva al metro e novanta e muove il suo gioco attraverso principi tecnici completamente antitetici rispetto al suo idolo. Beverely ha sempre amato Garnett per la sua mentalità in campo e la sua intensità senza eguali. Caratteristiche che ne hanno fatto uno dei giocatori più forti della sua generazione.
Cuore, agonismo, trash talking, durezza. Sono questi gli aspetti che hanno fatto impazzire Patrick, quelli in cui si rivede sin da ragazzino. Kevin Garnett rappresenta essenzialmente il suo modo di approcciare la pallacanestro. Quello sguardo assatanato di chi sarebbe disposto anche a morire sul parquet, piuttosto di far prevalere il suo avversario.

Quando arriva il momento di scegliere l’high school in cui iniziare ufficialmente la sua carriera cestistica, Patrick supplica mamma Lisa affinché lo iscriva in una scuola della inner city, da lui considerato l’unico palcoscenico in cui poter mostrare il proprio talento senza cadere nel dimenticatoio. La differenza tra provarci e riuscirci, nello sport come nella vita, è dannatamente sottile. La scelta ricade sulla John Marshall High School, uno degli istituti pubblici più importanti del panorama cestistico della città di Chicago. All’interno delle mura della scuola il clima è molto simile a quello di un ghetto, con frequenti episodi di violenza e bullismo a scandirne le giornate. Dentro la palestra dove giocano i Commandos allenati da coach Lamont Bryant, invece, l’ambiente è estremamente stimolante e formativo.
L’allenatore diventerà una figura molto importante per la crescita di Beverley, sostituendo in parte quel padre che non ha mai avuto. Coach Bryant crede in lui, gli da fiducia e, soprattutto, lo aiuta a non perdere di vista i suoi obbiettivi. Il primo, nemmeno troppo nascosto, è quello di diventare un giocatore NBA. Il secondo, forse il più importante, è mantenere la testa sulle spalle e maturare come persona giorno dopo giorno. Insomma, l’esperienza liceale rappresenta per lui una vera e propria svolta esistenziale. Sceglie il numero 21, quello di KG, e scrive la storia cestistica dell’istituto, diventando in pochi anni, assieme a Derrick Rose della Simeon Career Academy, uno dei prospetti più esaltanti non solo dello stato dell’Illinois ma dell’intera nazione. Nel 2006, il suo anno da senior, chiude la stagione con 37.3 punti, 6 rimbalzi, 6 assist e 8 recuperi di media a partita, oltre a vincere il premio di Player of the Year. Un fenomeno assoluto.
Al college, con la maglia dei Razorbacks di Arkansas, gioca appena due stagioni (12-13 di media con un grandissimo apporto difensivo) prima di essere sospeso per irregolarità accademiche. Lo beccano a imbrogliare e lui non si difende nemmeno. Ammette le sue colpe e accetta il provvedimento. Non lo cacciano dall’università ma lo sospendono per un anno dall’attività sportiva. Siamo nel pieno dell’estate del 2008 e la vita di Patrick tocca il suo punto più basso. L’idea di restare fermo un anno lo annienta emotivamente. Sente il sogno di giocare nella NBA scivolargli tra le mani. Chi cazzo lo vorrà nella propria squadra tra un anno. Una stagione persa nel basket ha un valore incalcolabilmente negativo per un giocatore emergente, specialmente per uno che viene dalla strada, estremamente vulnerabile alle sue debolezze.

Pat non vuole restare a guardare i suoi compagni per un anno intero. Allo stesso tempo, però, non è nemmeno sicuro di continuare a giocare basket ad alti livelli. Durante l’estate, infatti, succede letteralmente qualsiasi cosa nella sia vita. Nasce sua figlia Adlaia, suo cugino viene ucciso in una sparatoria, morendo tra le sue braccia e, soprattutto, torna a “familiarizzare” intimamente con armi e droga.
Patrick si trova di fronte a un bivio cruciale: il basket o la strada. Sceglie quest’ultima.
Beverley, però, non abbandona totalmente la pallacanestro. Continua ad allenarsi in solitaria perchè la fiammella nei suoi occhi non si è ancora spenta del tutto. Sono la madre Lisa e l’amico fraterno Will Bynum, all’epoca giocatore tormentato del Maccabi Tel Aviv prossimo alla firma coi Detroit Pistons, a prenderlo per i capelli e a tirarlo fuori dal quel precipizio che lo stava risucchiando senza pietà.
Pa sceglie di risalire, abbandonando l’oscurità che aveva avvolto la sua anima. Prende una decisione molto importante per la sua vita e la sua carriera: lascia definitivamente il college, prepara le valigie e vola oltreoceano per giocare in Europa. Destinazione Ucraina. Ha bisogno di soldi e non vuole arrendersi al corso degli eventi. Vuole determinarlo.
Firma un contratto professionistico con il Dnipro Dnipropetrovsk, con cui gioca per tutta la stagione mettendo a referto 16.7 punti, 7 rimbalzi, 3.6 assist, 2.2 recuperi e 1.3 stoppate di media a partita. Pat è dominante sul parquet ed estremamente migliorato nel suo modo di approcciare la pallacanestro. L’esperienza nella UBL (Ukrainian Basketball League), contraddistinta anche dalla sua presenza all’All Star Game e dalla vittoria nella gara delle schiacciate, termina con 46 partite giocate ad alto livello. Il miglior modo per presentarsi al Draft NBA del 2009. Beverley sostiene molti workout, compreso quello con i Chicago Bulls, ma viene scelto alla numero 42 dai Los Angeles Lakers. Con la franchigia californiana, però, finisce ancora prima d’iniziare. Il giorno dopo il Draft, infatti, i suoi diritti vengono ceduti ai Miami Heat in cambio di una scelta del secondo giro del 2011 e un pò di soldi.
Il momento di giocare nella NBA, però, non è ancora arrivato. Per lui non c’è posto nel roster di coach Erik Spoelstra così, dopo la Summer League, decide di tornare a giocare in Europa. Questa volta il suo talento si ferma in Grecia all’Olympiakos, una squadra molto forte con giocatori del calibro di Milos Teodosic, Josh Childress, Linas Kleiza e Theo Papaloukas. Maglia numero 17 sulle spalle e tanti minuti di qualità che cambiano profondamente la sua conoscenza del gioco. In Europa il basket è molto più fisico, soprattutto nella metà campo difensiva, ed è fondamentale sviluppare il proprio IQ cestistico per poter incidere all’interno di una partita.
Nella stagione 2009/2010, Beverley assorbe tutto come una spugna, diventando un giocatore estremamente intenso e funzionale nelle rotazioni della squadra. L’Olympiakos vince il titolo greco e arriva in finale di Eurolega.

Nell’estate del 2010, Beverley ritorna a Miami per giocarsi le sue carte. Agli Heat , nel frattempo, sono arrivati LeBron James e Chris Bosh per formare con Dwyane Wade un clamoroso Big Three. Pat vuole assolutamente fare parte del roster e gioca col sangue agli occhi la Summer League. Mette a referto 5.8 punti, 4.8 rimbalzi, 1.8 assist e 2.3 recuperi di media a partita, guadagnandosi l’ingresso in squadra e la firma su un contratto biennale. Riesce a giocare sei partite di preseason e, dopo l’infortunio di Mike Miller, sembra aprirsi per lui la possibilità di un posto nelle rotazioni di coach Spoelstra.
Il front office degli Heat, contrariamente alle aspettative, decide di firmare il veterano Jerry Stackhouse. A fargli spazio nel roster è proprio Patrick Beverley, tagliato senza pietà poco prima dell’inizio della regular season. Una mazzata terrificante per la sua carriera e, soprattutto, per i suoi sentimenti nei confronti della pallacanestro.
Patrick, però, non si arrende e decide di analizzare con razionalità il momento difficile. Fino a quel momento aveva sempre cercato di diventare un grande tiratore, uno capace di gestire la palla nei momenti difficili e di difendere forte nella propria metà campo. Il fatto è che nella NBA tutti sanno segnare canestri e lui non rappresenta di certo l’eccellenza da questo punto di vista. L’aspetto del gioco in cui è davvero bravo, invece, è la difesa. La sua intensità, l’energia che ci mette in ogni cosa che fa e, soprattutto, la capacità di entrare sottopelle agli avversari devono rappresentare, in tutto e per tutto, il suo orizzonte futuro. Se vuole farcela davvero al piano di sopra deve diventare uno specialista difensivo. È con questa mentalità che firma in Russia per lo Spartak San Pietroburgo. Vuole un’altra possibilità nella NBA e l’unico modo per ottenerla è dominare oltreoceano e crescere ulteriormente dal punto di vista cestistico. Firma un contratto di tre anni per 3.4 milioni di dollari, diventando uno dei giocatori più pagati in Europa.

In Russia vince anche il premio di MVP dell’Eurocup e si dimostra come una delle migliori point guard della lega. Sono gli Houston Rockets di Daryl Morey a dargli una nuova possibilità nel Dicembre del 2012. Beverley, ancora sotto contratto con lo Spartak, per rescindere l’accordo con i russi deve sborsare una somma attorno al milione e mezzo di dollari. La NBA si offre di pagarne 450 mila, il resto sono a carico del giocatore. Lui paga. In contanti.
“It’s my dream”.
Il sogno di Patrick si realizza a inizio gennaio del 2013, quando firma un contratto con gli Houston Rockets. Inizialmente viene assegnato ai Rio Grande Valley Vipers, squadra di D-League affiliata alla franchigia texana, ma ci gioca appena una settimana. Il 15 Gennaio 2013 debutta in NBA nella sfida contro i Los Angeles Clippers, segnando tre punti, oltre a un assist e un recupero, in appena due minuti di gioco.
È l’inizio della sua storia nel basket professionistico americano, quella che tutti abbiamo imparato ad apprezzare in queste stagioni. Sette, per la precisione.

I duelli all’ultimo sangue con Russell Westbrook, Steph Curry, Damian Lillard, Chris Paul, Lonzo Ball e Jrue Holiday. Tutte le point guard della lega hanno fatto, prima o poi, la sua conoscenza. È proprio qui che nasce il soprannome “Mr. 94 Feet”, un doveroso tributo al suo intenso modo di difendere e di incidere in una partita sui 28 metri. Avanti e indietro, senza pause e senza risparmiarsi mai. Un reietto del basket che non ha mai smesso di credere in se stesso. Non una semplice “chip on the shoulder” quanto, piuttosto, una montagna di risentimento e voglia di dimostrare rabbiosamente a tutti quelli che l’hanno sottovalutato che si sbagliavano.
Senza paura. Con aggressività, fame e cuore.
Tanto cuore. Ogni partita. No exceptions.
Con la maglia dei Los Angeles Clippers, dopo la sfortunata passata stagione, è riuscito a ritagliarsi un ruolo principale all’interno del roster di coach Doc Rivers. Ha chiuso il cerchio, come è solito dire in questi casi. Nei Clips ha trovato la sua dimensione tecnica, sviluppando il suo essere role player come mai aveva fatto prima nella sua carriera. La sua storia di resilienza e applicazione è diventata parte integrante del suo gioco, imbevuto di puro agonismo e voglia di competere. Difficile trovare un compagno di squadra migliore di Patrick Beverley. Andare in “guerra” con uomini di questo spessore al proprio fianco aiuta sensibilmente il collettivo al raggiungimento dell’obbiettivo comune. Anche Pat, a modo suo, è un “facilitatore”, termine molto usato negli States. La sua mentalità vincente, avversa a qualsiasi forma di egoismo, è merce rara anche nella lega più famosa del mondo.
Credere di poter realizzare l’impossibile è il primo passo per fare qualcosa di grande. Nella vita come nella pallacanestro.
Su e giù lungo i 28 metri, senza fermarsi mai.
Come se quello fosse l’ultimo possesso della tua vita.
La palla non è mai fuori. La partita non è mai finita.
Ogni notte.
Fino alla vittoria.

Padovano, classe 1986, sono figlio di Seattle e del grunge degli anni Novanta. Amo le storie tormentate di quelli che si sono bruciati in fretta, illuminando, però, ogni cosa. Ho scritto dei libri sulla pallacanestro ma non sono un vero scrittore. Mi occupo di NBA per La Gazzetta dello Sport e collaboro con Overtimebasket.com. Al liceo i professori mi dicevano che ero un buono a nulla. Ne vado fiero.