Percezione e apparenza sono due aspetti interessanti nello sport in generale e, più concretamente, nel tennis. Se negli sport di squadra ogni gesto (non per forza atletico) viene rimodulato da quelli del team, nel tennis sembra meno complesso far coincidere la propria essenza con l’immagine percepita dagli occhi di chi guarda. Ci siamo allenati, nel nuovo millennio, con i simboli forse più potenti della storia di questo sport: l’eleganza religiosa di Roger Federer e la potenza selvaggia di Serena Williams, diventati entrambi un modo di vedere quello che, come diceva Agassi nel suo Open, è lo sport più vicino alla boxe.
Forse è questo allenamento che ci porta a riconoscere Naomi Osaka come nuovo simbolo dello sport femminile: ogni aspetto, nella figura della giapponese, è fondamentale e non scindibile per semplificazione. Non esiste una Osaka tennista che non susciti, durante il match, un’aura quasi di onnipotenza grazie alla sua calma, alla sua eleganza, al suo impegno politico. Di contro, come detto, non esiste una Osaka politica senza la percezione che, a parlare, sia una atleta ai prossimi limiti della perfezione.
Lo ha capito benissimo Jennifer Brady, alla sua prima finale Slam, che si è arrampicata fino all’atto conclusivo degli Australian Open con un tennis di incredibile prepotenza fisica, di intuizione, di nervi. L’americana ha assaporato, forse oggi più che mai, il sapore della lezione: un primo set combattuto e perso per due 15 sfortunati, un secondo set durato giusto il tempo della percezione. Quella che dall’altro lato della rete ci fosse, nonostante ciò che dice la classifica, la tennista più forte del mondo. Lo avevamo capito tutti già dal terzo turno di questo primo Slam dell’anno, quando una farfalla era andata a poggiarsi all’improvviso sulla guancia della Osaka che, con la serenità della sacerdotessa, la aveva sfiorata per allontanarla come se nulla fosse, vincendo il match pochi minuti dopo.

Ma, se ogni aspetto è inscindibile, allora la Osaka non esiste se non esistono i suoi numeri: quarto Slam vinto su quattro finali giocate. Ancor di più, un parziale di 12-0 nei match delle seconde settimane Slam: Naomi non conosce la sconfitta una volta superata la prima domenica di un torneo e questo ce la fa percepire come infallibile. Non importa se non lo sia effettivamente, noi la vediamo così e questo è dato anche dalla sua capacità di interagire con il mondo, perché la giapponese non è una figura separata dal contesto, il contrario: Naomi gioca, Naomi protesta contro le ingiustizie, Naomi scende in strada per dire la sua opinione. E quella Naomi è la stessa che macina avversarie, ride con il pubblico, dialoga con le farfalle.
I simboli sono riconoscibili e noi siamo allenati a riconoscerli quando li vediamo, ma con Naomi ci è voluto meno del previsto. Lo ha capito benissimo Jennifer, che nel discorso di fine torneo dice “è stato un onore giocare questa finale con te, sappiamo quanto tu sia la vera ispirazione per le bambine che guardano il nostro sport”. Non sappiamo come sarà il tennis (o lo sport, o il mondo) dopo il passaggio di Naomi Osaka, sappiamo però che la giapponese interagisce con esso, cambiandolo. Di certo rendendolo migliore.
Le Olimpiadi sono avvisate.

Per sempre grato al serve and volley, al piano sequenza e al doppio passo.