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Prima di andare via - Crampi Sportivi

Prima di andare via

È ufficialmente iniziato il tramonto di Roger Federer. Il nostro compito è non voltargli le spalle proprio ora.

Un passo di un noto romanzo di Ernest Hemingway dice: “l’uomo non è fatto per la sconfitta, l’uomo può essere ucciso, ma non sconfitto”.

Si tratta de Il vecchio e il mare, in cui un vecchio pescatore si rende conto, forse ormai troppo tardi, di essere circondato da pesci troppo più grandi e forti di lui, che le energie le ha finite da un pezzo.

Anche noi, come Hemingway e il suo pescatore, ripudiamo la sconfitta, quasi fino a preferirle la morte. Viviamo in un mondo – anzi, in una società – troppo competitiva, che fa della vittoria l’unica strada possibile per il successo. La sconfitta, il fallimento, il dolore, sono cose da nascondere, come si fa con un lavoro di cui non si va fieri, di una relazione andata male o di un post che non raggiunge molti like.

Forse è per questo che ieri sera, in quel terzo set finito 0-6 tra Roger Federer e Hubert Hurkacz, ci siamo trovati di fronte a qualcosa di estremamente fastidioso, anzi, di intollerabile. Il quarto di finale di Wimbledon, che ha dato l’accesso alla prima semifinale Slam per il polacco, ci ha messo faccia a faccia con il tramonto di un atleta che ha cambiato il proprio sport. 20 lunghissimi meravigliosi anni in cui c’è stato tutto e il suo contrario: le annate di estetismo scintillante, dittatoriale, impetuoso, seguite dalle lotte furibonde contro le proprie nemesi. Passando poi per le ultime stagioni in groppa alle montagne russe: le operazioni, i mesi di stop, il ritorno e i tre Slam conquistati in pochi mesi. Come diceva quel ritornello: tu mi porti suu, e poi mi lasci cadereee.

Questi vent’anni di Roger Federer sono stati, per noi testimoni, come un romanzo di formazione: noi, cresciuti insieme al nostro cavaliere elvetico, abbiamo assistito alla gioia e al dolore, alla rabbia, alla frustrazione. Ma – sempre – in un circolo narrativo che poi portava all’happy ending, al lieto fine. Il supereroe che, nonostante sembri davvero finita, poi alla fine riesce sempre, perché così funziona lo storytelling.

Roger Federer

Stavolta, invece, è davvero finita. 0-6, nel giardino di casa, per mano di un tennista fuori dai top ten. Una sconfitta di quelle che restano impresse, per svolgimento e contesto, quasi quanto quelle più famose, più lunghe, più lottate. Federer – Hurkacz è l’inizio del tramonto. Stavolta per davvero.

Un tramonto che, romanticamente, ci pone di fronte a quel concetto di sconfitta: dobbiamo incazzarci perché non si è ancora arreso? Dobbiamo essere infastiditi da quella cocciutaggine che porta lui e, sopratutto, noi, a essere così inesorabilmente esposti al concetto di sconfitta? Ci fa così male tifare per un tennista che dopo aver rappresentato la grazia, la superiorità, il divino, la vittoria, ora scende in campo consapevole di non poter arrivare a fine torneo?

La risposta, probabilmente, è sì. Ci fa male.

Come ogni dolore, però, anche questo racchiude dentro di sé un significato più profondo, quasi filosofico. Quest’ultima crepuscolare fase del tennista svizzero ce lo consegna, finalmente, umano. Ancor più che dopo gli infortuni e i lunghi stop, ancor più che dopo le sconfitte arrivate per un soffio.

Il quarto di finale di ieri, più che mai, ci ha poggiato sulle mani un uomo, con tutte le sue debolezze, con tutti i suoi difetti. Ce lo ha restituito dopo vent’anni in cui tutto ci è sembrato tranne che nostro simile, nostro fratello. Troppo lontano da noi, quasi distorto ai nostri occhi dalla luce che lui stesso ha emanato.

E questa, forse, è l’immagine che ci fa fare pace con quel concetto, quello della sconfitta, che mal digeriamo, in TV come nella vita. L’uomo che, finalmente, perde perché non ne ha più. I piedi, dopo aver volteggiato per decadi, toccano terra, la stessa che calpestiamo sgraziatamente noi.

Ora, Roger, siamo alla stessa altezza e ti possiamo guardare negli occhi.

Sono gli occhi di chi ha scelto la sconfitta e, noi, la abbracciamo. Come si fa con i grandi insegnamenti. Perché questo è, dopo vent’anni, il tuo più grande lascito: la bellezza della sconfitta come unica via per percepire il sapore della vittoria.

Grazie, Ruggero.

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