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QUATTRO. - Crampi Sportivi

QUATTRO.

Dopo tre anni passati a veder festeggiare gli altri, adesso tocca di nuovo a loro.

E con questo sono quattro. Quattro titoli NBA in otto stagioni. Lì dove l’aria si fa rarefatta: prima delle Finals appena concluse, erano “appena” 40 i giocatori nella storia della NBA ad essersi messi al dito almeno quattro anelli. A questi si aggiungono Steph Curry, che se ne torna a casa anche col trofeo di MVP delle finals, per la prima volta nella sua carriera; Klay Thompson, che dopo due infortuni gravissimi di cui uno durante le finals perse coi Raptors nel 2019, alla vittoria dell’anello è andato come prima cosa ad abbracciare il suo fisioterapista; Draymond Green, che ha “semplicemente” fatto il Draymond Green, con tutti i pro e i contro del caso; e Andre Iguodala, che a onor del vero aveva abbandonato la baracca per giocarsi un’altra finale NBA nella bolla di Orlando con la casacca dei Miami Heat, ma il richiamo della Baia è stato troppo forte, ed è tornato a indossare la maglia gialloblù per quello che potrebbe essere stato il suo ultimo giro di giostra. Con la redazione di Crampi Sportivi, abbiamo cercato di rispondere ai quattro quesiti che hanno turbato i nostri brevi sonni notturni. Quattro, come i titoli che la truppa agli ordini di coach Steve Kerr (a proposito: davanti a lui, nella graduatoria dei capoallenatori più vittoriosi, restano solo cinque autentiche leggende del gioco, come Phil Jackson, Red Auerbach e il terzetto Kundla-Riley-Popovich) ha saputo portarsi a casa nel lasso di tempo che va dal 2015 a oggi.

One, two, three, four, can I have a little more?

1. Arrendiamoci alla grandezza di Steph Curry

(Davide Piasentini) Ora che è arrivato il suo quarto titolo NBA e ha conquistato per la prima volta il premio di MVP delle Finals, Steph Curry sembra aver messo d’accordo tutti, anche buona parte dei suoi più fervidi detrattori, e si è guadagnato legittimamente un posto tra i più grandi di questo gioco. Questo per rispondere ad una logica tipicamente americana, adottata anche nel nostro paese, frequentemente a seconda delle simpatie personali, che tende a fissare in maniera piuttosto arbitraria e variabile i canoni necessari a raggiungere un determinato status nel firmamento di talenti che hanno scritto la storia della pallacanestro NBA. La verità è che questo titolo e questo MVP non cambiano particolarmente le cose. Curry aveva rivoluzionato la pallacanestro moderna già diversi anni fa, molto prima di alzare per la quarta volta al cielo il Larry O’Brien Trophy. Non possiamo fare finta di niente, né tantomeno ergerci a illuminati conoscitori del gioco, avversi per definizione a tutto quello che modifica, in un modo o nell’altro, il corso degli eventi portandolo lontano dalle nostre granitiche certezze e idealizzazioni. Quindi, arrendetevi alla grandezza di Stephen Curry. Scegliete voi come e quando farlo ma abituatevi a familiarizzare con l’idea che questo ragazzo, capace di cancellare e ridefinire il concetto di “buon tiro” e di stravolgere sistemi e filosofie attraverso il suo modo unico di interpretare il basket, sia uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi. Perché, se non lo farete, Steph continuerà a dimostrarvi che siete colpevolmente in malafede, che state sbagliando o, peggio, volete raccontare una bugia a voi stessi. Si può fare, chiaro, ma questo non farebbe altro che sottolineare l’esatto opposto di quello che volete orgogliosamente ostentare. E Curry, opponendosi a queste inscalfibili ostentazioni, ha costruito tutta la sua meravigliosa carriera.

1, 2, 3, 4.

2. A che altezza possiamo già collocare Kerr, in un ipotetico ranking all time degli allenatori NBA?

(Giacomo Manini) Nel 1988 il draft NBA viene ridotto da 7 a 3 giri di scelte e con la n° 50, l’ultima del 2° giro, viene selezionato dai Suns Steve Kerr provenienza Arizona Wildcats. Soltanto pochi mesi più tardi il college di Davidson decideva di affidare la panchina a Bob McKillop, che resterà in carica fino al 17/06/2022, il giorno successivo alla conquista del 4° titolo del suo allievo Steph Curry.

McKillop e Kerr sono i due capo allenatori più importanti della carriera di Steph, due personalità atipiche, entrambi decisivi per la sua carriera: un cerchio si è chiuso. 

Quando Kerr viene chiamato per diventare il nuovo allenatore degli Warriors era commentatore NBA per TNT e prestava la voce per NBA2k. Cambio d’abito alla velocità di Arturo Brachetti e via a vincere l’anello al primo colpo. Gli viene tutto facile? La squadra era così forte che avrebbe vinto a priori? E’ un genio che è riuscito dove Don Nelson e Mark Jackson si erano fermati? Presto per dirlo. Subito dopo arrivano i guai fisici che lo portano lontano dalla panchina, pur restando vicinissimo alla squadra e ai giocatori. Luke Walton guida gli Warriors con gli stessi risultati, dunque? Dunque sta a noi decidere se questo nobilita o sminuisce il lavoro orchestrato da Kerr, un lavoro che non sfigura se in mano a un suo collaboratore. 

Dopo vincerà ancora Kerr, vincerà giocando un basket all’avanguardia a tratti paradisiaco, gestendo superstar diversissime tra loro con uno stile tutto suo, sgretolando record e convinzioni di ogni sorta, esponendosi su temi sociali, allevando giovani e fidandosi dei veterani.  Dopo gara 6 ha dichiarato: “Sono solo stato fortunato a stare attorno alla gente giusta”, frase che però avrebbe potuto pronunciare anche uno dei suoi giocatori o collaboratori. 

Phil Jackson, Pat Riley, Red Auerbach, Gregg Popovich, Jerry Sloan, KC Jones, Erik Spoelstra, Steve Kerr. 

Date voi i criteri, metteteli voi in ordine e sostituitene pure un paio se volete, ma il fatto che Steve Kerr sia indiscutibilmente in questa lista ristretta è, da tempo, un dato di fatto. 

con uno stile tutto suo

3. Cosa manca a Boston per diventare una contender?

(Roberto Gennari) Cosa manca? Beh, così sui due piedi, considerando che hanno perso una serie per 4-2 contro una squadra di alieni, verrebbe da rispondere che non manca niente, se non che i Warriors facciano il loro tempo (apro e chiudo una parentesi: ma davvero li avevate dati per morti dopo le ultime due stagioni? Ma davvero davvero? Ah, questo brutto vizio di emettere sentenze affrettate…). Ma è ovvio che si tratta di una risposta di primo acchito, e che la realtà è un po’ più complessa di così. Il cammino dei Celtics verso le finali è stato in parte favorito dall’aver incontrato squadre non al meglio fisicamente, e questo è un punto su cui riflettere. La sensazione è che manchi, soprattutto in prospettiva futura, un po’ di supporting cast, perché Al Horford è sempre Al Horford ma ogni anno è un anno in più anche per lui, perché Pritchard è ottimo per le situazioni di gioco in cui è stato utilizzato da Udoka ed è stato determinante nello scavare diversi parziali nelle serie playoff di Boston, ma è difficile pensare per lui ad un impiego maggiore, perché forse da Derrick White ci si aspettava un po’ di più nella metà campo offensiva, dove invece è andato a corrente alternata, specialmente nelle finals, un po’ come Tatum, uno a cui però si può “imputare” ben poco della sconfitta. In primis, Boston deve cercare a tutti i costi di mantenere questo young core messo sapientemente insieme negli anni tramite scelte giudiziose ai draft. Poi cercare di implementarlo, perché è vero che non si può dipendere dal solo numero 0, ma è ormai un dato di fatto che Jaylen Brown (il migliore dei Celtics nella serie persa contro Golden State) è quella seconda stella che i biancoverdi non devono più preoccuparsi di andare a cercare nel mercato, a cui si aggiunge il Defensive Player of the Year, quel Marcus Smart che è la prima guardia a portarsi a casa questo premio dai tempi di Gary Payton (1996). La scelta di Udoka come head coach al posto di Brad Stevens ha dato quella scossa all’ambiente che era forse necessaria, nell’unico modo in cui era possibile metterla in atto senza apportare grosse modifiche al roster: spostando l’ex head coach di Butler, con cui i Celtics erano arrivati per tre volte alle finali di conference negli ultimi cinque anni, in un ruolo diverso, forse di responsabilità ancora maggiore, un po’ come a voler dire alla squadra: noi crediamo in voi ma crediamo anche in lui. Il dubbio, legittimo se vogliamo, è quanto a lungo il nativo dell’Indiana riuscirà a stare lontano dalla linea laterale di un parquet. E se è vero che per arrivare in fondo ci vuole che tutti i tasselli vadano a incastrarsi al posto giusto, Boston in questo momento non deve fare a meno di nessuno di quelli che l’hanno portata fino a qui.

4. Tatum, Smart, Brown, Williams III… ma non è che sono i Boston Celtics ad aver realmente realizzato il “The Process” dei Sixers, cioè la costruzione di una squadra competitiva ai massimi livelli attraverso il draft?

(Marco A. Munno) L’accezione spregiudicata data al Process dai 76ers, fatta di anni di sconfitte da riscattare con le scelte al draft, ha messo in secondo piano le ricostruzioni “classiche”, meno estreme ma non meno efficienti. E paradossalmente, se proprio si vuole individuare un singolo momento cruciale nella rebuilding messa in piedi dai Celtics, è quello in cui il destino di Boston si é incrociato con quello di Philadelphia: la trade down di Danny Ainge, che scambiò la propria prima scelta assoluta 2017 con la terza della franchigia della Città dell’amore Fraterno, e che ha regalato a Boston la stella principale su cui fondare il proprio ciclo. Senza dimenticare come poi al fianco vadano messi i pezzi giusti: a questo proposito Stevens, passato dalla panchina al front office, ha avuto più coraggio dei suoi predecessori nel premere il grilletto tentando di migliorare ora la squadra sacrificando qualcuna delle tante scelte accumulate nel tempo, ad esempio con la trade per arrivare a Derrick White. Che in qualche modo si può ascrivere sempre a quella di Tatum: difatti nel pacchetto per White è entrato Romeo Langford, scelto con l’altra pick data dai 76ers nel draft 2017 insieme alla terza per ottenere la prima (trasformatasi in Fultz, non diventato per motivi diversi un All Star). Mettiamoci lo sviluppo di Smart, Brown e Williams III, tre che all’epoca dell’inserimento in squadra si portavano dietro diversi dubbi sulla loro capacità di raggiungere mai il livello attuale (per motivi tecnici o comportamentali) ed ecco come siano i verdi ad aver gettato le basi migliori per un progetto a lungo termine: che ora ha trovato la sconfitta ma sembra essere al primo passo di un percorso ai massimi livelli nella Lega, magari prendendo esempio dalla dinastia creata da chi li ha battuti nel primo viaggio alle Finals con questo nucleo…

I tifosi dei Celtics, poi, non sono secondi a nessuno in NBA in quanto a passione.
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