Grandi Classici: la Repubblica Ceca a Euro 1996

Il cammino folle della neonata Repubblica Ceca che andò ad un passo dal sogno, infrantosi contro il muro tedesco

Il 30 giugno 1996, a un quarto d’ora dal termine della finale del Campionato europeo di calcio, un’altra favola sportiva si sta per compiere, dopo quella realizzata dalla Danimarca quattro anni prima a Euro ’92.

La Repubblica Ceca, erede della Cecoslovacchia di Panenka e alla sua prima competizione internazionale, sta conducendo per 1 a 0 sulla Germania nel tempio di Wembley, grazie a un rigore segnato da Berger all’inizio del secondo tempo, in seguito a un fallo di Sammer su Poborský che il nostro Pairetto ha valutato erroneamente dentro l’area.

Gli inventori del gioco del calcio (Football Comes Home è lo slogan della manifestazione) hanno visto i propri beniamini uscire sconfitti ai rigori in semifinale proprio per mano dei tedeschi e i tifosi sugli spalti, che sostengono la Repubblica Ceca fin dal fischio d’inizio, ora non fanno niente per nascondere la loro soddisfazione.

La Repubblica Ceca è una nazione giovane, che ha conquistato l’indipendenza grazie alla Sametová revoluce, la rivoluzione di velluto, con la quale la Cecoslovacchia si è affrancata dal blocco comunista, seguita in poco tempo dal Sametový rozvod, il divorzio di velluto, che sancirà la scissione della Repubblica Federale Ceca e Slovacca e darà origine a due entità autonome: la Repubblica Ceca e la Slovacchia. In questa separazione, la prima si tiene la bandiera e a quanto pare anche il DNA calcistico della grande Cecoslovacchia degli anni ’60 e ’70.

La squadra ceca è allenata da uno slovacco, Dušan Uhrin, e si è qualificata a Euro ’96 come prima classificata in un girone complicato che comprendeva Olanda e Norvegia. I calciatori sono un mix di esperienza e gioventù: accanto ai veterani Němec, Kubik e Kadlec, ci sono calciatori nel pieno della loro maturità, come il centravanti Kuka e il portiere Kouba, seguiti da una generazione di nuove leve particolarmente interessanti e dotate che annovera, tra gli altri, Pavel Nedvěd, Karel Poborský, Radek Bejbl, Vladimír Šmicer e Patrick Berger.



In campo la squadra è un enigma: non si capisce se sono spregiudicati o catenacciari, spensierati o sornioni, se usano la spada o il fioretto; sul terreno di gioco i giocatori cechi sanno semplicemente fare tutto.

Inoltre, si esaltano quando le partite diventano sporche e sono fisici, aggressivi. Anche troppo, forse: i diciotto cartellini in sei partite rimediati durante l’Europeo inglese (diciassette gialli e un rosso) restano una specie di record che non li rende i migliori candidati per la Coppa Disciplina. Berger è probabilmente il calciatore più talentuoso del gruppo. Capocannoniere della squadra durante le qualificazioni e fresco campione di Germania con il Borussia Dortmund, nel giugno di venticinque anni fa offre un concentrato di quella che sarà la sua carriera: lampi di classe abbacinanti e pause interminabili durante le quali viene da chiedersi se è in campo.

Questa incostanza, mal sopportata da Uhrin, spinge il tecnico a tenerlo spesso fuori dall’undici iniziale, tant’è che partirà titolare solo in tre delle sei partite giocate dalla squadra ceca. Le sue prestazioni saranno comunque sufficienti per convincere il Liverpool a versare nelle casse dei Gialloneri poco più di 3 milioni di monetine raffiguranti la Regina Elisabetta II e portarlo ad Anfield.

Il sorteggio non è stato benevolo e ha catapultato la Repubblica Ceca in un girone di ferro con Germania, Italia e Russia. In pochi scommettono sulla riuscita di questa matricola e la prima giornata sembra dare ragione ai pronostici sfavorevoli: all’Old Trafford la Germania vince comodamente per 2 a 0, facendo fare ai cechi la figura degli imbucati. Cinque giorni dopo è il turno dell’Italia, vicecampione del Mondo e reduce da una vittoria convincente contro la Russia. Sacchi opta per un robusto turnover che mostra i suoi limiti dopo soli quattro minuti. Poborský dalla destra pesca Nedvěd in area, prendendo Mussi in controtempo, e il numero 4 ceco supera Peruzzi con l’esterno, dopo aver addomesticato il pallone con il petto. Nedvěd ha i capelli corti e una maglietta che gli va troppo larga. Non è ancora il caschetto biondo che terrorizzerà per più di un decennio le difese della Serie A, né tantomeno la Furia Ceca che conquisterà il Pallone d’Oro sette anni dopo, ma la partita di Anfield Road è il biglietto da visita che lo porterà in Italia di lì a qualche settimana e per il resto della sua carriera.

Chiesa la riporta in parità intorno al 20′ con uno dei suoi goal di pura volontà (simili a quelli che anni dopo realizzerà il figlio Federico), rischiando le gambe in mezzo a due difensori cechi. Ma dieci minuti dopo, Apolloni commette l’ennesimo fallo su Kuka e lascia i compagni in dieci per doppia ammonizione. Nello schieramento della Repubblica Ceca, Kuka è l’unica punta. Non è il centravanti tipico, alto e grosso, a cui appoggiarsi per rifiatare, ma è forte, polemico e scattante; si batte con gli avversari e si sbatte per i compagni: segnerà un solo goal in tutto il torneo, peraltro bellissimo, ma con il suo moto perpetuo e la sua tenacia farà sanguinare le difese di Italia, Russia, Portogallo, Francia e Germania.

Cinque minuti dopo l’espulsione di Apolloni, proprio Kuka scappa sulla destra e dal fondo mette in mezzo un cross che cade vicino al dischetto del rigore. Cade però non è corretto, perché Bejbl colpisce la palla al volo e la spedisce in rete alla destra di Peruzzi.

Nel secondo tempo Sacchi prova a rimediare inserendo Zola e Casiraghi, ma il risultato non cambia e la Repubblica Ceca può celebrare la sua prima vittoria in una competizione internazionale, portandosi a casa l’illustre scalpo degli Azzurri. La terza sfida del girone contro una Russia virtualmente eliminata inizia sotto i migliori auspici e già dopo 19 minuti la Repubblica Ceca conduce per 2 a 0. Non contenti, prima del duplice fischio, i cechi colpiscono anche due traverse e un palo.

È un monologo ininterrotto, un dominio totale. Al 45′ la Repubblica Ceca è ai quarti e l’Italia è fuori. Poi dopo cinque minuti del secondo tempo Mostovoj accorcia e dopo altri cinque Tetradze pareggia.

È un’altra partita: i russi prendono coraggio e premono, mentre i cechi sono nervosi e vacillano. Nedvěd prende un giallo, Němec lo imita, Poborský prova a riportare avanti i suoi ma coglie l’ennesimo legno della serata. Poi all’85’ un calciatore russo dal nome complicato, Besčastnych, che ha sostituito il foggiano Kolyvanov, riceve palla ai venticinque metri, si volta rapidamente e fa partire un missile che Kouba fa solo finta di provare a intercettare. Una rimonta inconcepibile alla fine del primo tempo si è completata a cinque minuti dallo scadere. Mancano pochi giri di orologio e non sembra plausibile che l’inerzia del match possa essere invertita, anzi è la Russia ad avere la palla del KO definitivo in un’azione confusa, ma Mostovoj s’impappina e Radimov calcia sul fondo a pochi passi dall’area piccola.

A due minuti dal termine la Repubblica Ceca è fuori e l’Italia, ferma sullo 0 a 0 contro la Germania, è qualificata ai quarti di finale.

Nella sua autobiografia “La mia vita normale”, Nedvěd racconta che alla vigilia della sfida contro la Russia nell’ambiente ceco si respirava un’atmosfera da fine vacanze. Gli accompagnatori e i dirigenti nutrivano ben poche speranze sul passaggio del turno e tutti erano pronti per il ritorno a casa: i bagagli erano pronti e persino il volo verso Praga era già stato prenotato.

All’88’ il goal di Šmicer fa scendere tutti dall’aereo e porta la Repubblica Ceca ai quarti, un po’ com’era accaduto due anni prima proprio all’Italia di Sacchi durante USA ’94, grazie alla doppietta di Roberto Baggio contro la Nigeria.

Dopo lo scampato pericolo, prima delle sfide a eliminazione diretta, lo staff ceco continuerà a fare i bagagli e preparare tutto l’occorrente per il ritorno in patria, in una sorta di rito scaramantico.

Ad aspettare la Repubblica Ceca ai quarti c’è Il Portogallo, una squadra giovane che per la prima volta presenta tra i “grandi”, i protagonisti dei successi della Seleção das Quinas ottenuti nei recenti Europei Under-17 e Mondiali Under-20: Rui Costa, Fernando Couto, João Pinto, Luís Figo, Paulo Sousa. Come da migliore tradizione portoghese è una squadra tecnica, con palleggiatori raffinati, difensori feroci e fantasisti imprevedibili, a cui manca però un terminale offensivo che concretizzi le trame di gioco imbastite dai suoi migliori solisti. I cechi subiscono il possesso palla portoghese e si affacciano raramente nell’area avversaria, ma con l’aiuto di Kouba, provvidenziale in un paio di occasioni, riescono ad andare al riposo a reti inviolate. Il secondo tempo riprende sulla stessa falsariga fino al 53′, quando Poborský riceve sulla trequarti destra del Portogallo e parte a testa bassa verso l’area. Il fantasista dello Slavia Praga vince un paio di rimpalli e si lascia alle spalle tre avversari, poi appena dentro i sedici metri sceglie la soluzione più originale: un lob alto e lento che gela Vítor Baía, uno dei migliori portieri al mondo, una scucchiaiata in corsa che fa venire giù Villa Park.

Il gioiello di Poborský è un momento di poesia in mezzo a una battaglia aspra, ruvida, che costringerà l’arbitro Krug a estrarre dieci cartellini gialli e uno rosso e la Repubblica Ceca a fare a meno di quattro titolari squalificati nella semifinale contro la Francia (Látal, Kuka, Bejbl e Suchopárek).

Perché la prodezza del numero 8 ceco, oltre ad essere premiata come il goal più bello di Euro ’96, consente alla sua nazionale di accedere al turno successivo.

Dal punto di vista personale, inoltre, la vetrina inglese sarà utile a Poborský per attirare su di sé le attenzioni di una big europea, come per Berger e Nedvěd, nel suo caso il Manchester United di Sir Alex Ferguson.

Francia quindi, una nazionale che si sta riprendendo dalla delusione della mancata qualificazione a USA ’94, grazie al gruppo amalgamato da Aimé Jacquet che due anni più tardi conquisterà il Mondiale casalingo e quattro anni più tardi Euro 2000. Deschamps è assente per infortunio e Karembeu è squalificato, ma Blanc, Desailly, Djorkaeff, Lizarazu, Dugarry, Thuram e Zidane sono tutti in campo quel 26 giugno. Quest’ultimo soprattutto è stato appena acquistato dalla Juventus di Lippi, fresca vincitrice della Champions League. La partita però non decolla, la posta in gioco è troppo alta e le difese soffocano gli attacchi.

Nei miei ricordi le partite della Francia di quell’Europeo sono di una noia mortale e quella contro la Repubblica Ceca non fa eccezione: primo tempo anonimo e nel secondo un paio di lampi di Djorkaeff, tra cui una traversa. I cechi soffrono le numerose assenze, ma riescono a tirarla per le lunghe e si arriva ai rigori. I primi dieci tiratori non sbagliano, poi Kouba respinge con i piedi il tentativo infelice di Pedros. La Repubblica Ceca è a undici metri dalla finale. Sul dischetto si presenta il libero Kadlec, che ha trentadue anni ma ne dimostra almeno cinquanta. Il numero 5 ceco spara un bolide centrale sotto la traversa come se stesse giocando sotto casa e scrive una pagina memorabile nella storia sportiva di un Paese neonato.

Il 30 giugno 1996 l’Europeo della Repubblica Ceca si appresta a finire proprio com’è iniziato, con la Germania di fronte e gli sfavori del pronostico. Ma in mezzo è accaduto qualcosa, in mezzo è successo di tutto.

Articolo a cura di Manuel Donati

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