Mia nonna mi raccontava spesso una delle esperienze più emotivamente probanti che ha vissuto, il ritorno a casa dalla guerra di suo fratello. Non so perché lo faceva, forse non ricordava di avermela raccontata 100 volte o forse sapeva che ero decisamente più appassionato a quel tipo di racconti piuttosto che sentir parlare della nuova prole di un cugino di terzo grado sconosciuto, o dei problemi con la serranda della cucina, oppure chissà, magari era lei stessa a voler rivivere quei momenti così forti, rendendosi conto dell’ormai prossimità della sua morte.
Comunque, durante la seconda guerra mondiale due fratelli di mia nonna partirono al fronte, uno non fece mai ritorno dall’ex Unione Sovietica, l’altro tornò a sorpresa un pomeriggio qualunque dopo esser stato imprigionato in un campo di concentramento nell’est della Germania. Mia nonna, sua sorella maggiore e loro padre circa alle 16:00 di un pomeriggio qualsiasi, a distanza di un paio di mesi dalla fine della guerra, sentono citofonare e davanti alla porta si trovano un Vittorio denutrito, malandato, distrutto, ma pur sempre vivo! Vittorio dopo aver salutato con lacrime ed abbracci proferisce poche significative parole: “Ho tanta fame”.
Allora mia nonna e sua sorella Marina in fretta e furia corrono in cucina e iniziano a cucinare per un regimento, mentre Vittorio si fa un bagno e indossa dei vestiti puliti. Vittorio nei 2-3 giorni successivi mangia, racconta ciò che gli è successo, mangia, riposa, contatta amici e parenti e mangia ancora, fino a stare male per quanto ha mangiato non essendo più abituato a farlo. Addirittura lo dovranno accompagnare da un medico per verificare che sia normale il suo star così male per il troppo cibo.
Mia nonna e sua sorella Marina si sono sentite un po’ in colpa per averlo fatto mangiare esageratamente, ma la gioia di rivedere un fratello che pensavano morto era così tanta che cercavano di sopraffare il più possibile la sua denutrizione, come se il loro impegno in cucina fosse un modo per ringraziare chi o cosa aveva fatto ritornare Vittorio.
Ecco, questo preambolo interminabile ed eccessivamente personale è per provare a raccontare il concetto del RITORNO, applicato su Derrick Rose.
Lui con mia nonna ha in comune una storia di un ritorno speciale e l’essere il figlio più piccolo di quattro, per il resto direi null’altro. (A meno che mia nonna mi abbia sempre tenuto nascosto un atletismo debordante, ma ne dubito.)
La stagione 2018-19 di NBA sarà ricordata per tantissime cose (e siamo ad Aprile): ad esempio gli esordi di Luka Doncic e DeAndre Ayton, il passaggio di LeBron James ai Lakers, le performance di Harden, George e Antetokounmpo e appunto, l’ennesimo incredibile nuovo capitolo del libro della vita di Rose.
Generational player

L’approccio alla NBA per il prodotto da Memphis è stato generazionale: vittoria del rookie of the year, All Star Game al secondo anno e MVP al terzo. Molti si dimenticano che nella seconda stagione dovette affrontare un infortunio alla caviglia, ciò influì negativamente sulla sua mobilità in campo e successivamente ebbe pure un infortunio al polso in uno scontro con Howard, a quei tempi ancora ai Magic, che lo tenne fuori per 4 gare. L’aver giocato sopra un problema fisico è una di quelle cose che i tifosi difficilmente dimenticano, in più le prestazioni furono comunque di altissimo livello per un sophomore e in breve tempo entrò nel cuore dei tifosi. Il suo sconcertante atletismo era qualcosa di mai visto prima per una point guard, le sue articolazioni di cristallo gli permettevano di raggiungere vette inesplorate e di toccare velocità incredibili.
Qui è quando ha svelato il contenuto degli esperimenti dell’Area 51.
#TheReturn
Proprio quando la sua scalata sembrava aver preso l’abbrivo giusto, è arrivato quel terribile infortunio al ginocchio sinistro che gli ha stroncato la carriera. La riabilitazione era stata accompagnata da dei magnifici spot con Adidas in cui veniva dipinto un ritorno sofferto, ma imminente e di sicuro successo. In parte perché l’obiettivo era vendere la sua immagine e di conseguenza le scarpe nuove, in parte perché da un giovane supereroe era quasi lecito attenderselo. In una delle puntate c’è DRose che guarda in tv il successo di Miami dei Big Three, la rivalità con LeBron e con gli Heat sarebbe dovuta essere la storia di quel periodo NBA.

Il duro lavoro mostrato in questi spot-documentari è davvero uno dei marchi di fabbrica e pare proprio che lui ci tenga particolarmente a questo ambito. Più volte ripete frasi come: “il duro lavoro paga sempre, l’ho visto su me stesso l’anno del MVP…non voglio fermarmi, voglio lavorare per migliorarmi e vincere un anello… so che una persona normale si fermerebbe davanti a questo dolore, io resisto perché voglio essere diferrente dal resto delle persone” ecc. ecc.
Il rientro non è stato come lo sognava, gli infortuni lo hanno tormentato, quell’esplovisità è rimasta un ricordo evanescente e il duro lavoro svolto non era bastato. D’altronde il ritorno ad Itaca può non essere travagliato? Ulisse aveva Penelope ad aspettarlo e così Derrick ha avuto noi tifosi, per quanto alcuni proci possano aver tentato Penelope, lei ha sempre saputo pazientare sapendo che sarebbe ritornato a casa.
Noi tifosi ci siamo sì fatti abbagliare dai lampi del 2014-15, ma infondo abbiamo sempre saputo che il ‘nostro’ Derrick sarebbe ritornato a livelli ancor più alti.
L’illusione è parte integrante dello sport, non potrebbe essere altrimenti. Non tutti i talenti inespressi maturano, non tutte le squadre meritevoli possono raggiungere effettivamente la vittoria, quelle volte in cui accade è festa: per lo sport, per il bello e per il giusto.
Come già detto, il viaggio di ritorno a Itaca è un susseguirsi di disavventure e slittamenti, e da prode Ulisse, il nostro Rose non è stato da meno.
Il mare della NBA a volte lo ha riavvicinato a Itaca, il buzzer beater contro Cleveland, il trentello contro Boston 8 giorni dopo esser scomparso a New York, hanno allontanato con brutalità e angherie sottoforma di infortuni.
Trade che lo porta via dalla sua Chicago, appunto la sparizione dai Knicks per andare a trovare la madre nella città del vento e l’esser tagliato da Utah ad inizio febbraio 2018 soltanto 2 giorni dopo esser stato acquistato in una trade con Cleveland e Sacramento.
Se già durante il periodo ai Cavaliers aveva pensato al ritiro, per lasciarsi alle spalle i centri di riabilitazione e i fisioterapisti dopo l’ennesimo infortunio, a Febbraio dello scorso anno volente o nolente era fuori dalla lega. Tagliato dai Jazz nel finale di regular season dopo non aver brillato alla corte del Re a Cleveland. Una fine triste per un MVP.
Un mese trascorso allenandosi duramente (perché DRose conosce solo questo di metodo per rialzarsi), trascorso insieme alla famiglia, chiedendo continuamente eventuali novità al suo agente.
Le idi di Marzo questa volta portano in dote un nuovo contratto NBA e nient’altro. L’umiliazione di ricevere solo offerte di contratto decadali, termina con la telefonata di Tom Thibodeau. A Minnesota ritrova sia l’head coach con cui aveva vinto regular season e MVP, sia i compagni Taj Gibson e Jimmy Butler. I TWolves al termine di quella stagione tornano ai playoff, palcoscenico dal quale mancavano da 13 anni.
L’evoluzione del gioco e ovviamente del suo fisico hanno fatto diventare Rose un giocatore diverso nel tempo. Non è mai stato un knock-down shooter da 3, ma è migliorato più di quanto le statistiche classiche dicano.
È diventato un bank-shot shooter affidabile, specialmente dopo l’infortunio all’occhio che gli dava problemi di profondità di visuale.
Chiaramente è meno atletico rispetto al 2011, però è più esplosivo rispetto a Cleveland o allo scorso anno. Ha una fiducia in se stesso ritrovata e il ruolo da 6º uomo gli calza a pennello al momento. Tra l’altro il premio di 6th man of the year 2018-19 sembrerebbe avere già il suo nome sopra.
Il 31 ottobre, nella 1ª presenza da titolare stagionale, Rose ha fatto 50 punti (suo massimo in carriera) e ha piazzato la stoppata finale per la vittoria contro Utah.
Sì, proprio la squadra che lo aveva tagliato dopo 2 giorni di contratto: la vendetta è un piatto da servire freddo d’altronde.
Il 26 Dicembre è tornato per la 2ª volta da avversario allo United Center di Chicago e nella vittoria per 119 a 94 , in cui ha segnato 24 punti e 8 assist, durante un suo viaggio in lunetta si è sentito tutto il palazzetto intonare: “MVP, MVP, MVP, MVP!”.
Lui non è riuscito a trattenere il sorriso ed è senza dubbio uno dei momenti più emozionanti della carriera.
Il significato del suo cognome ha ovviamente portato più volte al paragone con il fiore o cliché come “anche la migliore rosa ha le spine”.
Gli infortuni come le spine, il talento come il fiore. La rosa è un fiore abbastanza inflazionato, tra film romantici, poesie e citazioni in canzoni, è diventata il simbolo dell’amore.
Derrick Rose non si sponsorizza poi tanto, non ha un profilo Instagram, non è loquace con la stampa e poco mediatico in generale; perciò è sorprendente la risposta del voto del pubblico per la gara delle stelle.
L’ex MVP è risultato tra i più votati fin dalla prima settimana e la vacanza prenotata con la famiglia in quei giorni è stata annullata. Il prodotto di Memphis si è detto sbalordito e toccato della risposta dei suoi tifosi e dall’affetto che gli hanno sempre dimostrato.
La risposta calorosa di noi fan è forse stata eccessiva considerando che ci sono tanti giocatori altrettanto meritevoli del voto per l’All Star Game, giudicarla con canoni standard è quantomeno superficiale, come mia nonna e la sorella si son sentite in dovere di far mangiare Vittorio per omaggiare il suo ritorno.
Così abbiamo fatto noi nel sommergerlo di voti dopo averlo visto in lacrime nell’intervista post 50 punti contro Utah.
Per Ulisse era Itaca, per Vittorio era Roma, per Derrick non è Chicago (dove certamente terminerà la sua carriera) e nemmeno l’agognato anello. Il senso dell’immensa mole di duro lavoro a cui si è sottoposto è proprio il lavoro stesso.
Se in un viaggio l’importante non è la meta, ma il percorso, la medesima cosa vale per Rose e il suo journey nella lega.
DRose non sta lottando contro una lega che lo ha messo ai margini, o contro Chicago che lo ha mandato via, sta facendo a pugni con se stesso per potersi guardare allo specchio e dire: “Sono diverso dagli altri, io ho sopportato tutto questo.”
Per questo motivo il premio di sesto uomo dell’anno e il ritorno all’All Star Game acquistano e perdono valore allo stesso tempo, perché forse finalmente Rose ha imparato a pensare un filo egiosticamente e quindi i premi individuali sarebbero del buon nutrimento per il suo ego.
D’altro canto non ne ha bisogno in quanto ha ritrovato realmente una sua dimensione e non sarà di certo la presenza all’All Star Game a cambiarla. Il racconto della carrriera di Rose sarà per sempre accompagnato da un gigantesco WHAT IF, ma non deve affatto fermarsi lì, dispiacersi per ciò che non è mai potuto diventare è un conto, non apprezzare ugualmente ciò che ha fatto è tutt’altro.
“Anche i dolori sono, dopo lungo tempo, una gioia, per chi ricorda tutto ciò che ha passato e sopportato”
Odissea

Classe 1996 romano laureato in “Letteratura musica e spettacolo” all’Università Sapienza. Ha lavorato per Radio Kaos, Mondo Radio e Radio Popolare Roma 103.3, ha scritto e scrive per vari siti online di calcio e basket come nbapassion.com, footbola.