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Sense of Wonder: Il basket secondo Trae Young - Crampi Sportivi

Sense of Wonder: Il basket secondo Trae Young

Voglio che la gente dica che sono qualcosa di nuovo, di diverso. Qualcosa che non avevano mai visto prima”.

Trae Young

Sono pochi i giocatori di pallacanestro capaci di meravigliare. Non parlo necessariamente di leggende, Hall of Famer e pluricampioni NBA. Parlo di giocatori in grado di sconvolgere l’ordinario attraverso il proprio originale modo di intendere e interpretare il gioco. Giocatori che sanno trasformare l’atmosfera di una partita, accendendo il pubblico e caricando di elettricità tutta l’arena. Non è così scontato per un grande campione provocare nella gente una reazione incontrollata e scomposta ogni volta che si esibisce in una grande giocata. Non sono in molti a potersi vantare di possedere un talento del genere. Possono entusiasmare o meno, questo è del tutto soggettivo, ma è innegabile il fatto che conferiscano alla pallacanestro una moltitudine di significati. Guardare una partita, attendendo quella giocata che ti lascia lì. Incredulo e, allo stesso tempo, incantato. 

Il tempo rimane sospeso e il cuore batte forte. Ne vorresti ancora e ancora.

Trae Young fa parte di questa categoria di giocatori. Certo, è appena all’inizio della sua carriera tra i professionisti ed ha ancora una tonnellata di aspetti da migliorare nel suo gioco. Questo, però, non è importante. Il senso di meraviglia che accompagna molte delle sua giocate non deve essere freddamente sottovalutato perchè il suo giovane curriculum non ne autorizza l’esaltazione. Non è questo il basket che prende i sogni della gente e li trasforma in realtà. Il freno emotivo di fronte allo sport è una delle cose che più stanno allontanando la gente dagli eventi live. È tutto inscatolato, impacchettato e distribuito dai media come se la prerogativa fosse quella di spingersi lontano dal reale per ambire alla finzione. No, non è questo il basket che ci piace vivere e raccontare. Abbiamo la necessità di sognare e di meravigliarci. Ne abbiamo un disperato bisogno. Ora più che mai.

Trae Young è un acceleratore di emozioni. La sua pallacanestro è istintiva, sciolta ed esagerata. Un saliscendi costante che non ha nulla a che vedere con la normalità ma che trascende naturalmente tutto quello che accarezza la superficie delle cose.

È una filosofia scribacchiata che se ne fotte della struttura e affronta tutto direttamente. Faccia a faccia. Immaginazione, fiducia e dedizione. Essere sempre la migliore versione di se stessi. Trae ci ha sempre creduto, anche quando tutti gli dicevano che avrebbe fatto meglio a uniformarsi alla massa. Testardo e profondamente motivato, ha costruito su questi valori le fondamenta del suo successo.


Background

Nativo di Lubbock, Texas, Young è cresciuto a Norman, città di 120 mila abitanti nel cuore dello stato dell’Oklahoma, assieme a mamma Candice e papà Rayford, un tempo giocatore di livello a Texas Tech University e successivamente professionista in Europa. Inutile spiegare quanto importante sia stato il ruolo del padre nella sua formazione cestistica. Condividere la passione per il gioco e farla diventare il collante del loro rapporto è stato il primo passo verso il successo. Nelle lunghe sessioni di shootaround, i due hanno costruito un legame profondissimo. Un legame che ha favorito in maniera eclatante l’innamoramento del giovane Trae nei confronti del basket. 

Nell’Oklahoma la gente è fortemente ancorata alla quotidianità e non prova alcun senso di empatia verso contesti differenti dal proprio. Un atteggiamento tendenzialmente chiuso, lontano geograficamente e caratterialmente dalla promiscuità culturale che si respira nelle due coste statunitensi. Trae, invece, cresce con una mentalità molto aperta, in parte derivante dai propri genitori, una moderna coppia interrazziale che ha girato il mondo, e in parte scaturita da una predisposizione naturale nei confronti delle diversità. È paradossale, per certi versi, che la sua connessione con Norman e lo stato dell’Oklahoma sia così forte. Due visioni della vita molto differenti, che si sono abbracciate e comprese attraverso la pallacanestro. In Oklahoma il basket piace. Molto. Un contesto ideale per trovare la propria strada e formarsi, nel verso senso della parola, praticando sport. L’esperienza cestistica di Trae Young, prima all’high school con la Norman North e poi con i Sooners a Oklahoma University, è caratterizzata da un profondo senso di appartenenza. 

Al liceo, dopo aver trascorso l’anno da freshman nel varsity team, gioca da leggenda. Non è la solita esagerazione per riempire qualche riga. Nelle sua stagioni alla Norman North HS, Trae regala prestazioni incredibili e mette assieme numeri totalmente senza senso. Nell’anno da senior sono 42.6 punti, 5.8 rimbalzi e 4.1 assist di media, tirando col 49% dal campo nonostante le difese avversarie marchino praticamente solo lui in ogni partita. Le palestre in cui gioca sono sempre strapiene e, al termine di ogni gara, tutti quanti cercano disperatamente un autografo o una foto assieme a lui. L’attenzione è talmente spropositata da costringere un assistente allenatore a fargli da bodyguard per organizzare il flusso di persone. Tuttavia, non sono i numeri fantascientifici e nemmeno i titoli vinti con la Norman North a creare tutto questo pandemonio mediatico. Sono le sue giocate a farlo.

Triple impossibili. Da qualsiasi posizione, in qualunque momento.

Ball handling da campetto. Incontrollato e imprevedibile.

Assist spettacolari, impensabili e irripetibili. 

Quando Trae scende sul parquet, ogni cosa è possibile.

La gente dell’Oklahoma lo adora e lui si sente talmente bene in quell’ambiente da rifiutare diverse borse di studio offerte da college di primissimo livello per giocare con la maglia dei Sooners. I “due di picche” arrivano, tra le altre, a Kentucky e Kansas, nonostante le numerose pressioni ricevute, genitori compresi, affinché scegliesse una delle due. Per Trae niente è più importante di rimanere nell’Oklahoma. Vicino alla sua famiglia, ai suoi amici e, soprattutto, alla sua vita. Il programma dei Sooners, allenati da Coach Lon Kruger, sembra fatto su misura per lui. Tanti minuti a disposizione e palla sempre in mano. L’allenatore gli dice chiaramente di giocare con la massima libertà, senza sentirsi ingabbiato da qualsiasi tatticismo. Per Coach Kruger le possibili palle perse o le cattive scelte di tiro sono il prezzo da pagare per avere un giocatore come Young. Condizionante ma determinante. Un ragazzo che lavora ogni singolo giorno per non essere dimenticato. 

Durante il suo periodo liceale e universitario, gli Oklahoma City Thunder sono una religione alla Chesapeake Energy Arena. Un palazzo caldissimo, forse il più caldo di tutta la NBA, che vive la pallacanestro con un trasporto pazzesco. Assieme a papà Rayford, il giovane Trae frequenta abitualmente la Chesapeake. I due arrivano ogni volta un’ora e mezza abbondante prima della palla a due perchè sono fissati con la fase di riscaldamento. Scendono vicino al parquet e osservano le routine dei grandi campioni. Kevin Durant e Russell Westbrook su tutti. Gli occhi di Trae sono quelli di un bambino. Da una parte la voglia di apprendere ogni movimento, dall’altra l’incanto nel trovarsi di fronte alla grandezza. Uno sguardo che non svanirà mai, nemmeno quando diventerà un giocatore NBA.


Confidence

La fiducia in se stesso non è mai mancata a Trae Young. Nemmeno quando molti addetti ai lavori, nel periodo tra la fine del suo brevissimo percorso al college e l’inizio della carriera NBA, l’avevano incautamente etichettato come un “bust”, cioè un giocatore scelto molto in alto al Draft che aveva disatteso clamorosamente le aspettative. In pochi, pochissimi, pensavano anche che sarebbe stato un “one and done” al college. Invece, Young a Oklahoma University rimane per una sola stagione, dimostrando di essere un giocatore unico nel suo genere. Con la maglia dei Sooners, Trae sconvolge il mondo del college basketball con prestazioni meravigliose. Ogni volta che scende in campo succede qualcosa di memorabile. 

Young è un tiratore da tre punti pazzesco ed è in grado di segnare da qualsiasi posizione. Praticamente il suo range di tiro è illimitato. È un eccellente penetratore al ferro, segna i liberi con l’86% e distribuisce assist splendidi con una facilità che lascia davvero senza parole. Tutta l’America lo paragona a Stephen Curry, definendolo senza troppi giri di parole il “primo figlio” della sua legacy. Trae incassa i complimenti e accetta il peso delle aspettative ma non cambia di una virgola il suo modo di approcciare la pallacanestro. Nella sua unica stagione con i Sooners chiude con 27.4 punti e 8.7 assist di media a partita e diventa il primo giocatore della storia guidare la NCAA in queste due categorie contemporaneamente. Il miglior realizzatore e passatore di tutta la nazione. Le critiche e i dubbi nei suoi confronti iniziano a farsi più intensi dopo l’eliminazione al primo turno di Oklahoma al torneo NCAA per mano di Rhode Island. Gli addetti ai lavori lo considerano troppo esile per gli standard NBA e trovano la sua difesa estremamente deficitaria. Il ragazzo segna tanti punti e fa tanti assist, è vero, ma la sue letture offensive sono spesso forzate. Il fatto che Young  accentri su di se tutto il gioco, si prenda troppi tiri e perda molti palloni, viene ritenuto troppo condizionante per la squadra da molti analisti. A che serve un giocatore così se poi vieni fatto fuori al primo turno da una Rhode Island qualunque. 

La durezza mentale di Trae inizia a cementare le sue convinzioni proprio in questa fase delicata della sua carriera. Una fase che continuerà nel primo periodo della sua esperienza NBA con la maglia degli Atlanta Hawks. L’attenzione ossessiva nei confronti delle sue percentuali dal campo, dei suoi turnovers e dal suo adattamento fisico agli standard dei professionisti. Sembra che tutti siano lì ad aspettare i suoi errori per poterne crocifiggere le fragilità. La forza di Trae Young è stata quella di non cadere nell’oscurità e di reagire con grande carattere nell’unico maniera che conosce. La sua. Ha lavorato duramente in palestra per migliorare la sua struttura fisica al fine di sviluppare la sua esplosività e la capacità di assorbire contatti, utile sia in difesa che in attacco, e ha continuato ad approcciare la pallacanestro con la medesima autenticità. Non ha cercato di cambiare la sua essenza di giocatore ma di potenziarla. Per prima cosa ha voluto ribadire a tutti che lui non è il nuovo Steph Curry, pur adorandolo come modello. 

È semplicemente Trae Young. Qualcosa di nuovo, di diverso. Qualcosa che nessuno aveva mai visto prima. 

Il numero 11 degli Atlanta Hawks svolta dopo l’All Star break e gioca una seconda parte di stagione eccellente (24.7 punti, 9.2 assist e 2.4 triple segnate di media dopo la sosta), scrivendo alla fine della regular season 19.1 punti (42% dal campo, 32% da tre), 8.1 assist e 3.7 rimbalzi di media a partita con l’83% ai tiri liberi. Coach Lloyd Pierce, con il quale Young ha stretto uno splendido rapporto, ha semplicemente proseguito il percorso iniziato da Lon Kruger a Oklahoma.

Ha permesso a Trae di testare liberamente i suoi limiti. Un progetto ambizioso, soprattutto se collocato all’interno di una NBA in cui contano sempre più i dati individuali tangibili e i risultati. Se c’è un ragazzo con una dose smisurata di “confidence”, di fiducia in se stesso, che può permettersi di crescere cestisticamente imparando dai propri errori sul campo, quello è Trae Young.


Immaginazione

Durante l’offseason 2019, Trae ha il privilegio di allenarsi con il suo eroe, il giocatore che personalmente definisce “G.O.A.T.” (greatest of all time) e che per lui rappresenta il punto di riferimento della sua formazione cestistica: Steve Nash. Non c’è alcun bisogno di presentare un due volte MVP, una delle migliori point guard di tutti i tempi, uno che ha rivoluzionato a suo modo la pallacanestro della sua generazione, ma è fondamentale comprendere la sua connessione con Young. Perchè uno degli aspetti più magnetici, elettrizzanti e sottovalutati di Trae è proprio il suo playmaking. I modi in cui passa la palla, creativi e immaginifici, e i tempi di gioco con cui lo fa sono di altissimo livello. Se poi andiamo ad osservare nel dettaglio le tecniche di passaggio, allora le somiglianze con Steve Nash cominciano ad apparire ancor più nitidamente. Schiacciata per terra, direttamente dal palleggio, o a una mano, no look, oppure dietro la schiena, facendo sparire la palla.

Corridoi immaginari, timing perfetto e l’istinto naturale, sempre quello, di meravigliare attraverso la pallacanestro. Durante l’estate 2019, Trae assorbe una quantità infinita di concetti e movimenti dal suo idolo, presentatogli da Coach Pierce (hanno giocato assieme a Santa Clara University), e porta il suo basket al livello successivo. È una frase che si sente spesso pronunciare nel mondo della pallacanestro ma la sua valenza è innegabile. L’incontro con Nash rafforza ancora di più la consapevolezza di Trae. 

Immaginare il proprio gioco senza chiedersi se sia possibile o meno quella giocata. Se riesci a vederla nella tua mente, allora significa che puoi eseguirla. La libertà sul parquet esiste e la sua ricerca è una questione sia mentale che tecnica. Non basta quindi avere tanta palla in mano per essere una buona point guard. Nasce tutto dall’immaginazione, prende corpo mediante la conoscenza del gioco e si serve della tecnica individuale, che necessita un costante lavoro di perfezionamento, per illuminare.

Il cammino di Trae è segnato.


Sense of Wonder

La prima convocazione all’All Star Game, i 29.6 punti e 9.3 assist di media a partita e uno status in continua crescita all’interno della NBA non possono e non devono prendere il sopravvento nella valutazione complessiva di Trae Young. Stiamo parlando di un fenomeno, che vi piaccia o meno, che sta riscrivendo i suoi record personali di settimana in settimana e non sembra destinato ad eclissarsi come molti credevano o speravano. Al di là delle statistiche, avanzate e non, e della sua vendibilità all’interno del sistema NBA, che mette in vetrina punteggi altissimi e giocatori ultraterreni, Young rimane un acceleratore di emozioni.

La sua natura è quella di meravigliare e di sfidare chiunque dubiti di lui, dimostrando che si sbaglia. A volte con presunzione, altre con indifferenza, ma sempre e comunque col sorriso stampato in faccia. Impossibile dimenticare le lunghe serate passate assieme a papà Rayford alla Chesapeake. Altrettanto impossibile dimenticare le sue parole, pronunciate qualche anno dopo.

Ricordati che c’è un ragazzino da qualche parte sugli spalti che ti sta guardando nello stesso modo in cui tu guardavi KD, Harden e Westbrook. E se va bene cercherà di emularti”.

Un nuovo senso di responsabilità si è fatto strada nel suo cuore. 

Un nuovo capitolo della sua vita davanti a lui. 

Can’t wait”. Non poteva essere altrimenti. 

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