Uno stadio più bello, una Coppa più scintillante o una cerimonia d’apertura coreografica. All’appassionato medio questo può sembrare solo un dettaglio da dare in pasto ai fotografi ieri e ai social oggi. In realtà è un raffinato programma di lavaggio, in quanto si tratta di sportwashing.
Diamo ad Aristotele un paio di calzoncini al posto di una meno ergonomica e più pittoresca tunica per un sillogismo sul campo alla base del fenomeno dello sportwashing. Lo sport è pregno di valori, io pratico sport: io incarno quei valori. Un ragionamento sposato e applicato a più riprese, nel corso della Storia Contemporanea, da parte di governi bisognosi di un colpo di spugna e di luci puntate lontano da pratiche al limite della violazione dei diritti umani.
Se oggi la posizione della UEFA e del CIO nei confronti della Russia stupisce, è bene ripercorrere alcuni passi indietro e riscoprire dei tasselli fondamentali per il mosaico che compone lo sportwashing, il modo in cui lo sport fa da spugna per lavar via lo sporco dal viso di un Paese. Dai Giochi Olimpici del 1936 ai Mondiali in Argentina del 1978 passando per le magliette rosse di Santiago nel 1976 per la finale di Coppa Davis.
Da Giovenale a Putin passando per Goebbels
In origine c’è la locuzione latina “Panem et circenses” firmata Giovenale. In sostanza l’autore satirico in due parole descriveva così i fabbisogni della plebe romana, divisa tra il bisogno di frumento e grano da innaffiare con il sangue che scorreva copioso nelle arene in cui i gladiatori si scontravano per la libertà o un pollice in su. La locuzione era dunque indicata per descrivere la leva che nella Roma Imperiale assicurava masse appagate o una via per far carriera politica in maniera agevole (come accadde a Lucullo e Clodio).
Dall’impero romano al Regno dei Borbone, in cui dal panem et circenses si passò al detto “feste, farina e forca“, in cui la carota composta da farina e feste era affiancato dal bastone creato dall’esibizione della punizione in luogo pubblico. Un atto nato per mostrare i muscoli del potere politico e l’effettiva protezione della legalità.
Un concetto, quello della ricerca del consenso grazie allo sport e al divertimento, rinvigorito dalle idee di Joseph Goebbels, ministro della Propaganda del Terzo Reich e ideatore della teutonica macchina propagandistica che portò Adolf Hilter al potere con il partito nazista.
Berlino 1936: le prime proteste ai Giochi e l’abbaglio di Brundage
Quando il mezzofondista tedesco Fritz Schilgen accese la fiamma all’Olympiastadion chissà se sapeva di non essere l’unico ad aver alimentato una fiamma che avviluppava la Germania. La fiamma di cui si scrive è quella delle proteste per la scelta del Paese ospitante. Di fatto lo sportwashing stava nascendo.

Già a partire dal 1933, con l’ascesa di Hitler al potere, le democrazie occidentali si interrogarono sull’opportunità di disputare i giochi in un Paese differente. A scrivere la parole fine sul boicottaggio dei Giochi fu l’allora Presidente del Comitato Olimpico Americano Avery Brondage. In un’ispezione serrata delle strutture tedesche, Brondage dichiarò che gli atleti Ebrei erano trattati in maniera equa.
In un documento ufficiale della AOC, Brundage dichiarò che gli atleti americani non dovevano essere coinvolti nella lite “Ebreo-Nazista”. A nulla valse l’opposizione del giudice cattolico Jeremiah Mahoney, il quale fu sostenuto dal sindaco di New York e i Governatori degli Stati di New York e del Massachusetts. Tra i sostenitori del boicottaggio ci fu anche l’ex sottosegretario della Marina USA Ernst Lee Jahncke, che pagò con una macchia sul percorso nel CIO questo posizionamento: in un secolo di storia fu il primo membro ad essere espulso dal Comitato.
La posizione dell’allora presidente americano Franklin Delano Roosevelt fu legata alla tradizione: da 30 anni l’AOC era indipendente nelle sue scelte, al netto degli alert indirizzati a Roosevelt circa l’opportunità di propaganda del partito nazista con la partecipazione ai Giochi.

I Giochi, come la Storia ci ha mostrato, si sono tenuti: a partecipare furono 49 squadre composte da 3963 atleti. Tra loro pochissimi atleti ebrei, tra cui Helen Mayer. Dopo la vittoria dell’argento individuale nella scherma per la Germania, tornò a vivere negli Stati Uniti. Ai Giochi del ’36 e il loro mancato boicottaggio va dato un altro merito: l’aver dato il via ad un pensiero critico nei confronti dello sport e dell’utilizzo propagandistico che in alcuni casi ne viene fatto, accendendo di fatto il dibattito e le coscienze sul tema.
Nota a margine: il copione di una Germania ‘pulita e accogliente’ messo in campo per le Olimpiadi si ripeté ai danni della Croce Rossa che nel 1943 visitò il campo di Terezin, in Repubblica Ceca.
Magliette Rosse: la protesta all’italiana contro Pinochet

Il nostro Paese è ancora indicato come un faro per la Moda nel mondo. Proprio con un capo, una semplice t-shirt rossa, l’Italia ha saputo mandare un messaggio senza avere bisogno di parole mentre viveva il suo primo e unico successo in Coppa Davis, datato 18 dicembre 1976. In sostanza lo sportwashing è stato sconfitto da una tinta unita sudata e compresa appieno solo anni dopo grazie al docu-film “La maglietta rossa” del 2009 girato da Mimmo Calopresti. Andiamo con ordine.
Sono passati tre anni dal golpe cileno che rovesciò il presidente Salvador Allende a favore del generale Augusto Pinochet. Tra il 1973 e il 1976 l’Estadio Nacional di Santiago divenne la più grande prigione del Paese, capace di accogliere 4000 persone. Arresti e sparizioni in nome della repressione che Pinochet operò nei confronti dei dissidenti e dei suoi oppositori politici. Operazioni che non passarono inosservate, al netto dell’appoggio iniziale in chiave anti-marxista degli Stati Uniti. Quale migliore occasione per riscattarsi se non la Coppa Davis?
Il Cile, complice il ritiro della selezione URSS (che strano incrocio nel 2022) avvenuta in protesta proprio per il regime di Pinochet, ebbe libero accesso alla finale. Dall’altra parte del tabellone la selezione italiana più forte di tutti i tempi (Barazzutti, Bertolucci, Panatta, Pietrangeli e Zugarelli) aveva polverizzato l’Australia proprio sulla terra rossa del Foro Italico. Sugli scudi l’allora ventiseienne Adriano Panatta, già conquistatore degli Internazionali e del Roland Garros.
In Italia il dibattito è acceso: si gioca o no? Si alzano slogan del tipo “Panatta milionario – Pinochet sanguinario” (slogan tra l’altro ingeneroso visti gli indotti ridotti di Panatta dopo le vittorie sul campo) e Nicola Pietrangeli, popolarissimo co-conduttore della Domenica Sportiva oltre ad essere il capitano della Selezioni, fu minacciato più volte al telefono e in una lite radiofonica con l’allora ministro degli Esteri (quota PCI) Gian Carlo Pajetta fu apostrofato come fascista per aver sostenuto l’intenzione di voler giocare comunque la partita. A corollario della situazione c’erano i pilateschi silenzi del governo Andreotti e del CONI. Una posizione particolare, considerando il precedente di Berlino 1936.
A sbloccare la situazione sono Enrico Berlinguer (con un clamoroso cambio di fronte) e il Partito Comunista cileno. Con una lettera ricevuta direttamente dall’altra parte dell’Oceano si chiedeva di giocare: la vittoria non poteva essere lasciata a Pinochet perché l’avrebbe strumentalizzata. Almeno sul campo il regime poteva e doveva essere battuto. Dicembre 1976, si vola in direzione Cile.
I primi due match singoli se li aggiudicano in scioltezza Corrado Barazzutti e Adriano Panatta: manca solamente un punto per “la grande insalatiera d’argento“. All’improvviso il genio. La mattina del 18 dicembre. mentre Bertolucci e Panatta si preparano per scendere in campo per il doppio, l’ultimo chiede se tra gli indumenti tecnici griffati Fila ci fosse una maglietta rossa. Rossa come i fazzoletti sfoggiati e agitati dalle donne cilene nelle piazze del Paese per ottenere informazioni e giustizia per i loro desaparecidos.
Non fare il matto. Qua c’arrestano.
Paolo Bertolucci
Le magliette furono indossate per i primi set: la stampa italiana ignorò la cosa, mentre il governo cileno protestò in maniera ufficiale rimediando un buco nell’acqua. La partita fu vinta dal duo Bertolucci-Panatta e il risultato complessivo fu 4-1 per la nostra selezione. Nel pomeriggio dello stesso giorno Adriano Panatta vinse su Jaime Fillol mentre Belus Prajoux ebbe la meglio su Tonino Zugarelli, anche se il risultato era ormai scritto.
La storia cadde nel dimenticatoio per gli ultimi trent’anni: al rientro in Italia con la prima Coppa Davis della storia la selezione italiana dovette evitare i contestatori giunti in aeroporto. Fino ad ora è stata l’unica occasione per celebrare una Davis in Italia: le altre quattro finali (’77, ’79, ’80 e ’98) hanno visto sconfitti i tennisti azzurri.
Argentina ’78: lo sportwashing col pallone sporco di sangue
I Mondiali del 1978 sono spesso ricordati come i Mondiali della vergogna. L’istantanea che viene in mente è Daniel Passarella che riceve il trofeo dalle mani del Generale Jorge Videla. A seicento metri da quel palco montato al Monumental di Buenos Aires c’era il “Garage Olimpo” (un campo di prigionia occulto) più temuto di tutti, stanziato all’ESMA.

Il Mondiale, costato 500 milioni di dollari (circa quattro volte di più rispetto al Mundial del 1982), servì a coprire le nefandezze della Junta Militar di stampo neofascista salita al potere nel 1976, solo due anni prima. L’Argentina sfiorò il Mondiale due volte in termini di paese ospitante: nel ’62 fu preferito il Cile a causa dell’instabilità politica del tempo e nel 1970 il Mondiale toccò al Messico. Per un accordo di rotazione otto anni dopo i Mondiali tornarono in Sudamerica e spettavano dunque all’Argentina.
In questo caso alcuni Paesi provarono a boicottare la manifestazione: in paritcolar modo in questa direzione si spesero la Francia, la Svezia e la finalista Olanda orfana di Johan Cruijff. Se Cruijff era assente per motivi personali, ci fu chi rifiutò di partecipare proprio rispetto a quanto accadeva in Argentina.
A non partire per la competizione furono il tedesco Paul Breitner e l’allora capitano dell’Albiceleste Jorge Carrascosa, l’unico argentino ad avere una sorta di presa di coscienza in merito. Non presa ma pressione sulla coscienza, quasi mortifera, fu quella che invece Jorge Videla applicò sulla selezione peruviana allenata dal ct Marcos Calderòn e già campionessa sudamericana in carica. Per il passaggio in finale dopo la seconda fase a gironi l’Argentina aveva bisogno di 4 gol per colmare la differenza reti con la Seleçao. Le partite del girone non furono giocate in contemporanea: l’Argentina giocò dopo il Brasile e sfido il Perù. La squadra blanquirroja in porta schierava il naturalizzato Ramòn Quiroga, nato a Rosario e naturalizzato l’anno precedente al Mondiale.
Quale fu la pressione di Videla allora? Prima della partita il dittatore andò a far visita allo spogliatoio peruviano. Il risultato? 6-0 per l’Argentina, 35 tonnellate di grano al governo peruviano e una linea di credito aperta per oltre 50 milioni di dollari. Questo risultato è passato alla storia come “marmellata peruviana“.
La finale tra Olanda e Argentina si consumò fino ai supplementari, in cui l’Albiceleste chiuse il conto con le reti di Kempes e Bertoni per rompere l’equilibrio fermo sull’1-1 firmato da Kempes e Nanninga. Nel corso della partita anche i Garage Olimpos si fermarono, per poi riprendere la loro diabolica funzione mentre Baires festeggiava e la Junta portava a compimento un’operazione Monumental di sportwashing.
Un episodio increscioso che regala alla Storia figure positive. Il ct César Luis Menotti, il quale non si piegò al regime sapendo di essere l’unico allenatore in grado di centrare questo obiettivo. Menotti, noto sostenitore del Partito Comunista, diede asilo in casa propria a numerosi oppositori. Puntò sul risultato con la stessa scelta operata dall’Italia sul Cile due anni prima: giocarsela sul campo dando valore alla vittoria strappandone il significato a chi strumentalizza lo sport. Il capitano uscente Jorge Carrascosa, che di fatto rinunciò ad una carriera intera pur di non essere ‘pedina’ della Junta e Mario Kempes, arrivato al Mondiale mal visto. I giocatori che giocavano all’estero, secondo quanto voluto da Videla, non andavano presi in considerazione: Kempes non solo fu convocato ma fu il miglior marcatore del torneo. La giocata migliore però fu ‘di mano’: rifiutò di stringere la mano nel corso della premiazione a Jorge Videla. Un gesto che iniziò pian piano a sgretolare l’operazione di sportwashing meglio architettata… fino ad ora.

Giornalista professionista. Curioso e mancino. Scrivo e scatto, senza pose che è più divertente. Con un buon caffè e una bella storia hai tutta la mia attenzione.