Intro storico-musicale
“Saint Louis Blues” è una canzone di Louis “Satchmo” Armstrong scritta nel 1929 e registrata insieme a Bessie Smith.
Anche se a dire il vero la prima versione del brano, il cui titolo viene a volte riportato con la grafia “St. Louis Blues” è stata scritta da William Christopher Handy quindici anni prima ed è considerata uno standard del blues. Nella lista degli artisti che hanno inciso la loro versione del brano, oltre ai due già citati, abbiamo un All-Star Team che comprende gente come Glenn Miller, Guy Lombardo, Chuck Berry, Doc Watson, Stevie Wonder, Benny Goodman e Billie Holiday. Per “Saint Louis Blues” si intende un sottogenere musicale di cui l’esponente più noto è indubbiamente proprio Chuck Berry, quello che tutti conoscete per Johnny B. Goode.
The early days
L’assetto della National Hockey League, per brevità NHL, dal 1942 al 1967 era rimasto lo stesso, con le sei squadre note come “Original Six”: i Montreal Canadiens, i Toronto Maple Leafs, i Boston Bruins, i Chicago BlackHawks, i Detroit Red Wings e i New York Rangers. L’espansione del 1967 è stata la più grande mai vista in uno dei quattro “major sports” americani (Basket, Baseball, Hockey su ghiaccio e Football americano): l’NHL passò da 6 a 12 squadre, con l’aggiunta dei Minnesota North Stars (oggi Dallas Stars), dei California Seals (che non esistono più e grosso modo sono stati sostituiti dai San Josè Sharks), dei Los Angeles Kings, dei Philadelphia Flyers, dei Pittsburgh Penguins e dei St. Louis Blues. Il primo expansion team a vincere la Stanley Cup furono i Flyers, con la doppietta 1974-1975. I Penguins i più vincenti con cinque trofei all’attivo, uno in più dei New York Rangers. Due coppe anche nella bacheca dei Kings, nel 2012 e 2014. E la squadra del Missouri? I St. Louis Blues, che hanno come stemma sul petto una grossa nota musicale con le ali che richiama vagamente una mazza da hockey nel momento di impatto col puck (il disco di tre pollici di diametro per uno di spessore e con un peso che oscilla tra i 165 e i 170 grammi) furono il primo team di espansione a centrare le finali di Stanley Cup. E il secondo. E il terzo. Tre finali del campionato nei primi tre anni di storia, una roba mai vista prima né dopo. Ovvio, il regolamento della NHL dell’epoca favoriva questo exploit, visto che le due conference in cui era divisa la lega erano semplicemente “Original Six” (East Division) e “Expansion Teams (West Division), quindi fondamentalmente si disputavano il posto nelle finali con altre cinque squadre, tutte appena arrivate in NHL. Il dislivello tra le Original Six e gli Expansion Teams, visti i risultati, non dovrebbe sfuggirvi.
The Brett Hull Years
Dopo quel triennio di effimera gloria, gli anni a venire videro una maggior carestia per i Blues. Carestia relativa, certo, se si considera che la squadra con la nota musicale sul petto è stata capace di centrare i playoff in 34 delle prime 37 stagioni disputate in NHL, sfiorando il ritorno alle finali di Stanley Cup nel 1986 e nel 2001, in entrambi i casi eliminata alle finali di conference, la prima volta in gara-7 contro i Calgary Flames, la seconda con un più netto 4-1 dai Colorado Avalanche che poi si portarono a casa la coppa. Ma l’astro più splendente per l’Hockey in Missouri è stato senza dubbio Brett Hull, che per 11 anni ha giocato a St. Louis, dal 1987 al 1998. Brett Hull è il figlio di Bobby Hull, che fu MVP della NHL nel 1965 e 1966 e che giocava con passaporto canadese. Brett Hull scelse di giocare con passaporto USA facendo storcere diversi nasi a Belleville, Ontario, sua città natale. Il figlio di Bobby Hull, nei suoi 11 anni ai Blues, è stato “First Team NHL” (l’equivalente del primo quintetto NBA) per tre volte, è stato convocato per sette All-Star Game e si è portato a casa il titolo di MVP della NHL nel 1991, primo – e finora unico – figlio di MVP a riuscire nell’impresa.

Nel 1996, per un breve periodo, i Blues poterono schierare sia lui sia Wayne Gretzky, che semplicemente è il più forte giocatore di Hockey su ghiaccio di tutti i tempi. Non ci fu tempo di trovare l’amalgama. Non funzionò: in una delle gare-7 più tirate della storia dei playoff NHL, i Detroit Red Wings segnarono il gol dell’1-0 nel secondo overtime, eliminando Brett, Wayne e tutta la compagnia. Brett Hull andò a prendersi due Stanley Cup altrove, una a Dallas e una a Detroit. Chiuse la carriera come quarto miglior marcatore della storia della NHL, dietro ai soli Jaromir Jagr (che però giocò 464 partite più di lui), Gordie Howe (498 partite in più) e appunto Wayne Gretzky – che già che c’era ha chiuso primo anche negli assist. Per poi tornare a St. Louis, nel 2013, come Executive VP, e contribuire attivamente a costruire QUESTI Blues.
Interludio. Le luci si spengono.
La NHL è ad oggi l’unica lega ad aver visto cancellata un’intera stagione per sciopero collettivo dei giocatori. Nel 2004-2005, così, i St. Louis Blues videro interrotta la loro striscia di 25 partecipazioni consecutive ai playoff che andava avanti dal 1980. Per forza, direte voi: i playoff non ci sono stati affatto. Ed è vero. Solo che col lockout qualcosa sembrava essersi incrinato, nella città gemellata con Bologna. I Blues, infatti, mancarono la qualificazione ai playoff anche in cinque delle sei stagioni successive, perdendo per 4-0 contro Vancouver l’unica serie di playoff a cui parteciparono. Il 4-1 del 12 aprile 2004 contro i San José Sharks rimase per otto anni l’ultima vittoria in una partita di postseason. L’ultimo passaggio del turno in una serie di playoff, peraltro, risaliva al 2002. Un anno di stop (forzato) e sei anni di vacche magre. Not good.
“Dissolution and rebirth”.
La rinascita del blues come genere musicale viene fatta abbastanza arbitrariamente risalire a inizio anni ottanta, quando a Jackson, Mississippi prese il via una sorta di “nuova ondata” che veniva identificata come “southern soul” o “southern blues”. Texas Flood, il primo disco di un allora ventinovenne Stevie Ray Vaughan, uscì il 13 giugno 1983. La rinascita dei Blues intesi come squadra ebbe inizio quasi trent’anni dopo quel disco. I St. Louis Blues si qualificarono ai playoff come secondi della Western Conference alle spalle dei Vancouver Canucks. Le sole 22 sconfitte rimediate – e i 165 gol subiti, appena 2.01 di media a partita – li vedevano al primo posto della NHL. Se non fosse stato per l’incredibile stagione dei Los Angeles Kings, che partendo dall’ottava piazza a Ovest arrivarono a portarsi a casa la Stanley Cup, probabilmente saremmo qui a parlare di una stagione da ricordare per St. Louis. Che comunque tornò a vincere una serie di playoff dieci anni dopo. E alle porte delle finali di Stanley Cup, nel 2016. I St. Louis Blues del presente sono una squadra che ambisce ai playoff tutti gli anni, con quattro giocatori convocati all’All-Star Game negli ultimi tre anni (Tarasenko, Pietrangelo, Schenn e O’Reilly), un portiere solido (Jake Allen) e una riserva che sembra venire su bene (Jordan Binnington). Solo che poi coach Ken Hitchcock, che di questa rinascita era stato un po’ il direttore d’orchestra, viene licenziato a metà della stagione 2016-17 e sostituito da Mike Yeo, che porta i Blues ai playoff il primo anno, li manca per un punto il secondo e viene defenestrato il 19 novembre 2018 dopo un 2-0 subito dai Los Angeles Kings, quando i Blues hanno il secondo peggior punteggio di tutta la NHL dietro solo ai Kings, per l’appunto. A sostituirlo viene nominato ad interim Craig Berube, assistente di Yeo dal 2017. I risultati, tra novembre e dicembre, però, non arrivano, e il 2 gennaio, quando la stagione regolare è quasi a metà, i Blues sono ultimi di tutta la NHL con 34 punti. Solo che a un certo punto la ruota comincia a girare e St. Louis a vincere. Cinque partite delle prime sette del 2019. 11 vittorie consecutive tra fine gennaio e metà febbraio. In 22 partite, i Blues mettono assieme 35 punti e salgono al quinto posto della Western Conference, dove poi chiuderanno anche a fine regular season.
Sono una squadra in fiducia, che ha agguantato i playoff quando a un certo punto la stagione sembrava ampiamente compromessa, hanno lanciato Jordan Binnington come portiere titolare e non sembrano affatto spaventati dal primo turno dei playoff contro i Winnipeg Jets, che hanno chiuso la regular season a pari punti con loro. E infatti li fanno fuori in sei partite. Al secondo turno, li aspettano i Dallas Stars, squadra da prendere con le molle perché capace di far fuori Nashville (vincitrice della Central Division) per 4-2. La serie è lunghissima e tostissima, e dopo sei gare le due squadre sono sul 3-3, con quattro vittorie esterne su sei partite. Gara-7 si gioca all’Enterprise Center, casa dei Blues, ed è una partita decisamente For the ages: la vince Pat Maroon segnando il gol del 2-1 al secondo supplementare dopo che Bishop, portiere di Dallas, aveva realizzato il suo massimo in carriera con 52 parate. I Blues tornano alla finale di conference per la seconda volta in quattro anni, ed è una rivincita, contro i San José Sharks che li avevano eliminati in 6 gare nel 2016. La vendetta si compie “specularmente”: Jordan Binnington concede solo due gol nelle ultime tre partite della serie agli Sharks e St. Louis chiude il conto in gara-6. Dopo quarantanove anni i Blues tornano a giocarsi una Stanley Cup: mica male per una squadra che a inizio stagione veniva data 40 a 1 come possibile vincente. Ma i cerchi si devono chiudere tutti, e in finale i St. Louis Blues trovano proprio i Boston Bruins (10 a 1 nelle quote prestagionali), proprio quei Bruins che gli avevano dato quattro scoppole nelle finali del 1970, e che condividevano coi Detroit Red Wings il poco onorevole record di squadra NHL col maggior numero di finali di Stanley Cup perse (13 su 19 apparizioni per Boston, 13 su 24 per Detroit).
A Boston peraltro, dopo aver già trionfato nelle World Series di MLB il 28 ottobre 2018, e nel Superbowl NFL del 3 febbraio 2019, si andava a caccia del terzo titolo consecutivo in uno dei quattro “Major Sports USA”. In questi playoff, comunque, si è già visto di tutto, quasi come nel 2012. Abbiamo visto i Tampa Bay Lightning dominare la Eastern Conference e chiudere a quota 128 punti, quarto miglior totale di sempre nella NHL, e finire eliminati al primo turno 4-0 contro Columbus. Abbiamo visto tutte le vincitrici di division, le quattro teste di serie numero 1 del tabellone, tutte sbattute fuori al primo turno: Tampa Bay in 4 gare, Calgary in 5, Nashville in 6, Washington in 7. Il primo sangue è di Boston, che al TD Garden vince 4-2 e infligge a St. Louis la tredicesima sconfitta in altrettante gare di Stanley Cup. Ma sarà gara-2, sempre a Boston, che scriverà la storia di questa serie. Boston va due volte in vantaggio nel primo periodo e per due volte St. Louis la riprende. Si va al supplementare, e lì è un gol di Carl Gunnarsson a rompere l’equilibrio, la maledizione, tutto. I Blues vincono la prima gara di finals della loro storia, ed è lì, il 29 maggio, negli spogliatoi del Garden, che capiscono davvero di potercela fare. Gara-3 a St. Louis è un massacro, i Bruins vincono 7-2, ma i Blues non sono affatto abbattuti. Il 2 gennaio erano ultimi in tutta la NHL, e sei mesi esatti dopo sono lì, a giocarsi il titolo. Vinceranno gara-4 in casa e gara-5 a Boston. Hanno il match point tra le mura amiche e questo è il meglio che potesse capitargli.
Boston però è una squadra dura a morire, e gara-6 è un altro mezzo massacro: i Bruins passano con un secco 5-1 e riportano la serie in Massachussets, per la bella.
“Today is the greatest day I’ve ever had”
Il 12 giugno 2019 è il giorno in cui si scrive la storia. Boston per il terzo titolo consecutivo dopo MLB ed NFL. St. Louis per diventare l’ottava città USA ad aver vinto almeno un titolo in ognuno dei quattro Major Sports dopo New York, Boston, Chicago, Los Angeles, Detroit, Philadelphia e Washington. E il 12 giugno 2019 è il più grande giorno della storia dei Blues. Primo periodo: Ryan O’Reilly, 1-0. Alex Pietrangelo, 2-0. Il secondo periodo si chiude con lo stesso punteggio. Mancano meno di 10 minuti alla fine della partita quando Brayden Schenn segna il 3-0. Ne mancano meno di cinque quando Zach Sanford arrotonda col 4-0. Il Garden è ammutolito, l’Enterprise Center gremito di tifosi gialloblù che aspettano solo la sirena finale. Trattengono un attimo il respiro quando Boston segna quello che da noi si chiamerebbe il gol della bandiera con Matt Grzelcyk, ma il punteggio non cambia più e St. Louis la alza, la gigantesca Stanley Cup, la alza per la prima volta, ed è il più bel giorno per Ryan O’Reilly che vince il Conn Smythe Trophy (MVP dei playoff), è il più bel giorno per Jordan Binnington, che diventa il primo rookie a vincere 16 partite dei playoff come portiere, è il più bel giorno per Vladimir Tarasenko, che dopo aver vinto la coppa scappa in sala parto per assistere alla nascita del suo terzo figlio, è il più bel giorno per Craig Berube, che la vince da coach ad interim
Ed è il più bel giorno anche per Brett Hull, che insieme a Chris Zimmermann e a tutto l’executive office ha costruito una squadra con 14 giocatori provenienti dalle scelte del draft, senza sbandierare alcun trust the process, senza troppi proclami, facendo risuonare le note della cover di “Gloria” incisa da Laura Branigan nel 1982, negli spogliatoi, dopo ogni vittoria dei Blues. Sì, proprio quella “Gloria” scritta e pubblicata nel 1979 dal nostro Umberto Tozzi, al punto da farlo diventare un mantra. Play Gloria Again era la richiesta dei tifosi. Ancora una volta, nel destino dei St. Louis Blues ci sono le note musicali. Come nel simbolo sul petto, come nel cuore della città. The 2019 St. Louis Blues will play Gloria forever.

Classe 1979, mancino, nato in agosto. Praticamente Michael Redd, stipendio e palmarès a parte. Ha un blog cestistico ipofrequentato dal 2006, scrive di basket per “La Giornata Tipo” e “Overtime – Storie a Spicchi”, e di calcio per “Amaranto Magazine”. Ha un figlio di 10 anni che mostra chiari segni di ambidestrismo e una figlia di 1 che gli permette di vedere le partite NBA in diretta. Orientamento politico: Jason Kidd. Orientamento religioso: Porta Santo Spirito. Fedi calcistiche: U.S. Arezzo e #IssaNissa