Sono anni che voglio comprarmi le Starbury

Ma se non c’eravate non potete capire.

Stephon Xavier Marbury, sesto di sette figli di papà Don, è stato tante cose, ha avuto tante vite. Next Big Thing from NYC quando giocava alla High School e molti vedevano in lui il degno successore di una tradizione che annoverava tra i suoi predecessori gente tipo Bob Cousy, Tiny Archibald, Lenny Wilkens, Mark Jackson, Rod Strickland e Kenny Anderson solo per citare alcune delle point guard venute dalla Grande Mela. È stato primo quintetto all-rookie in una delle migliori annate di sempre, quella del draft 1996 che ci ha regalato gente come Kobe Bryant, Allen Iverson, Steve Nash, Ray Allen.

È stato Starbury, quando era uno dei prospetti liceali più ambiti d’America, al pari di Kevin Garnett e Paul Pierce, ed è stato ancora Starbury nel 2003, quando vestiva la maglia numero 3 dei Phoenix Suns, ancora in lutto per la partenza di Jason Kidd, ed è riuscito ad essere convocato per l’All-Star Game e venire poi nominato per i quintetti All-NBA. È stato una stella in maglia Timberwolves, lo è stato quando lo hanno ceduto ai Nets (dove pure ha disputato l’All-Star Game ed è stato All-NBA, ma in anni diversi), ha raggiunto la pienezza professionale e forse personale quando, il 5 gennaio del 2004, i New York Knicks lo hanno rilevato tramite trade proprio dai Phoenix Suns, facendolo diventare, definitivamente e ufficialmente, Coney Island’s Finest.

Non era male, come duo, già.

Certo, non sono state tutte rose e fiori tra Marbury e la NBA, tutt’altro. Gli veniva contestato di essere un egoista, di non sapersi mettere al servizio delle squadre, di avere quasi sempre rapporti problematici coi coach, e sicuramente c’è del vero in tutto questo. E tuttavia, stiamo parlando di uno dei giocatori più iconici, più “sensazionali” della NBA a cavallo tra gli anni 90 e 2000, uno di quelli capaci di portare il playground nei parquet della lega cestistica più famosa del mondo senza snaturarsi. Certo, se fosse stato più allenabile, più disponibile, più capace di adattarsi, avrebbe avuto una carriera più lunga e probabilmente piena di successi, ma non sarebbe stato Marbury, e questo, col senno di poi, è il motivo principale per cui è ancora così famoso in tutto il mondo.

AND1MIXTAPE

Prima di YouTube, prima dei social, prima dei contenuti virali, c’erano gli And1 Mixtape. Gli And1 Mixtape erano dei DVD prodotti e fatti circolare dalla stessa casa produttrice di articoli sportivi al fine di occupare una fetta di mercato fino a quel momento rimasta sostanzialmente non contaminata dai grandi brand: lo street basket. Il più celebre e celebrato, che si trova abbastanza facilmente anche su YouTube, è il primo volume, quello intitolato Skip to my Lou. Il titolo segnatevelo perché poi ci torniamo. L’idea era quella di creare hype attorno ad atleti potenzialmente emergenti, in grado di portare il proprio approccio al basket ai livelli più alti, per mezzo di montaggi di filmati rigorosamente lo-fi con colonna sonora hip hop d’ordinanza, che erano essenzialmente una sequela di street moves cestistiche, cose che non si erano praticamente mai viste in un parquet vero e proprio, se si eccettua la faccenda più o meno contemporanea di God Shammgod

e l’epopea di Jason Williams immediatamente dopo. Il primo atleta di una certa rilevanza a firmare per la And1 e vedersi prodotta la propria signature shoe è stato Stephon Marbury, a metà della sua stagione da rookie. Un ventenne da Coney Island con alle spalle un solo anno di NCAA a Georgia Tech, (dove prima di lui avevano visto Kenny Anderson, non a caso Queens’ finest), protagonista di una delle partite più epiche della storia del basket collegiale degli anni 90, la finale del torneo ACC 1996 tra i suoi Yellow Jackets e i Demon Deacons di Wake Forest.

Interludio. 10 marzo 1996

L’avversario più temuto, quel numero 21 che fino a qualche anno prima sembrava avviato ad una carriera da nuotatore, ha messo insieme una partita assolutamente mostruosa, fatta di 27 punti, 22 rimbalzi, 6 assist e 4 stoppate, con Wake Forest avanti di 18 punti dopo 25 minuti di gioco, ma quando il cronometro segna 19.4 secondi dalla sirena finale, in lunetta c’è lo smilzo con la canotta numero 3 di Georgia Tech per due liberi, il tabellone segnapunti sul 75-72. Dentro il primo. Dentro il secondo. Fallo di Harpring sul 21 di cui sopra. 0-2 dalla lunetta. Il possesso che potrebbe valere il sorpasso viene affidato a Stephon Marbury, che cerca di liberarsi in palleggio del suo diretto avversario, crea una separazione con un movimento di spalla che sa molto di Rucker Park, va con un arresto e tiro dalla media, in angolo, che però si infrange sul bordo del tabellone. Fallo sul numero 5 di Wake Forest, Goolsby. La palla pesa come il piombo e anche stavolta è 0-2, con entrambi i tentativi che arrivano a malapena al primo ferro. Rimbalzo di Drew Barry, figlio di Rick e fratello di Brent, visto brevissimamente a Varese anni dopo, che tira da metà campo sulla sirena, la palla sbatte sul tabellone non lontanissimo dal ferro, la partita finisce 75-74 per Wake Forest, il 21 viene nominato MVP del torneo ACC, Marbury chiude con 26 punti, Georgia Tech dovrà aspettare altri 25 anni prima di vincere un titolo di conference. Andranno entrambi al torneo NCAA, nessuno dei due approderà alle Final Four.

Fine interludio.

NEW SHOES

Stephon Marbury viene chiamato con la scelta numero 4 al draft 1996 dai Milwaukee Bucks, secondo freshman scelto dopo Shareef Abdur-Rahim in un draft che vede anche due chiamate al primo giro direttamente dall’High School, due – sempre al primo giro – dal PAOK, a cui si aggiungono altri due europei chiamati tra i primi 29. Viene scambiato subito dopo per Ray “he got game” Allen, destinazione Minnesota Timberwolves, dove sa già che la stella della squadra è uno spilungone di un anno più grande di lui e che sul campo sa fare praticamente tutto, Kevin Garnett from Farragut Career Academy, con cui si era spartito i premi come miglior liceale d’America nel 1995 (Marbury premiato come Gatorade Player of the year e Parade Player of the year, Garnett come USA Today Player of the year e Mr. Basketball USA). A dire il vero, il miglior giocatore del team in quel 1996-97 non è nessuno dei due, visto che in rosa c’è un ventisettenne bianco di 2.08, quasi concittadino di Marbury, che con i suoi quasi 21 punti e 9 rimbalzi di media si porterà a casa la sua prima e unica convocazione alla partita delle stelle, insieme a Garnett che però ne giocherà altre quattordici, dopo. Il contesto è presto detto: i Timberwolves sono una squadra che esiste da sette stagioni, in nessuna delle quali hanno vinto almeno 30 partite, e in quel 1997 non solo per la prima volta arrivano a quota 40, centrando la qualificazione ai playoff con la testa di serie numero 6, ma improvvisamente diventano uno dei team più cool della Lega: il talento puro unito all’energia di Garnett più l’estro e l’imprevedibilità di Marbury mettono, per la prima volta da quando i Lakers si spostarono in California nell’ormai lontano 1960, Minneapolis sulla mappa del basket. Marbury arriva secondo nelle votazioni per il Rookie dell’anno dietro – ma non di moltissimo: 44 voti a 35 – ad un sensazionale Allen Iverson, che però a differenza sua dovrà aspettare un bel pezzo per disputare la sua prima partita di playoff. Ovvio che ce ne sia più che a sufficienza perché i Timberwolves diventino in breve un trending topic della NBA: Marbury e Garnett finiscono, insieme, sulla copertina di Slam Magazine di Ottobre 1997: solo uno dei due sembra decisamente a suo agio davanti all’obiettivo, è quello in primo piano e non è quello più alto. Meno scontato, ma tutto sommato prevedibile, che tra due personalità così forti, l’amore possa anche non sbocciare, e infatti non sboccerà mai davvero.

Stephon Marbury
(foto ramblinwreck.com)

Se nella sua prima partita a Georgia Tech Marbury aveva messo a referto 16 punti, 4 rimbalzi, 4 assist e 5 recuperi, il debutto di Stephon in NBA è tutto tranne che memorabile. 8 minuti, 0-3 dal campo, distorsione alla caviglia che lo costringe a saltare le successive 7 partite, compresa la prima dei Timberwolves al Madison Square Garden, e ad avere un minutaggio limitato al rientro e a disputare tre incontri partendo dalla panchina, evento che si verificherà solo altre tre volte nei suoi primi 11 anni in NBA. La prima volta in cui vediamo, davvero, il talento di Marbury, è alla sua settima apparizione nella Lega, non ancora ventenne, contro i Denver Nuggets: 32 minuti sul parquet, 30 punti, 11 assist, 4 rimbalzi, 0 palle perse. Il suo è un basket di puri istinti, di prevaricazione dell’avversario frutto di infinite giornate passate nei playground della Grande Mela, dove il basket può diventare no blood no foul. E Stephon, da sempre, si esalta nelle sfide contro i migliori. Come nel suo anno da rookie, dove ritocca il career high messo a referto contro i Nuggets segnandone 33 (con 11-17 dal campo) in faccia a John Stockton, che già all’epoca era unanimemente considerato uno dei migliori 5 play di ogni epoca, nonché un giocatore noto in tutta la NBA per la sua durezza mentale. Massimo in maglia Wolves che sarà poi ritoccato a quota 40 (16-24 dal campo) a febbraio 1999 contro gli Houston Rockets che avevano appena arruolato uno dei migliori difensori di sempre, Scottie Pippen. Ma è contro Kobe Bryant, scelto come lui nel 1996, e i Los Angeles Lakers che Stephon si esalterà maggiormente nel corso della sua carriera. Come nel febbraio del 2001 a East Rutherford, casa dei New Jersey Nets: Kobe ne segna 38 con 14-25 dal campo? Marbury risponde con 50 punti , 17-29 dal campo, e 12 assist. E ancora, quattro anni dopo, allo Staples Center, in maglia Knicks: Bryant va per 32 punti, Starbury chiude con 45 e 10 assist. Ma sono serate, in cui è in the zone, e tuttavia non riesce a legare coi compagni, non riesce a snaturare il suo gioco, non rinuncia ad essere sé stesso.

STAY TRUE TO YOURSELF

Come quando imbastisce, con Steve & Barry’s, l’operazione Starbury sneakers. Che costituiscono, forse, il numero più roboante della sua carriera: delle signature shoes, con logo e testimonial che è stato All-Star e All-NBA, in vendita negli stores a 15 dollari. “Perché io, quando ero ragazzino e come tutti adoravo Michael Jordan, vedevo i miei genitori che facevano i salti mortali per comprarci delle scarpe da basket, e che molti di noi – diciamo pure quasi tutti – non potevano permettersi le Air Jordan, e così ho pensato questo: ogni ragazzino che ama il basket e sogni di poter arrivare un giorno in NBA dovrà potersi permettere un paio di sneakers di un giocatore professionista.

Le mie.” Questo lo porterà a far alzare più di un sopracciglio ad avversari e addetti ai lavori, oltre che, nel giro di pochi anni, vederlo stritolato negli ingranaggi che muovono l’amore, il basket e l’altre stelle nella Grande Mela. Arriva a metà stagione nel 2004, quando chiuderà come miglior assistman dell’intera NBA (primo per assist totali, secondo per media a partita), contribuendo a portare i Knicks ai playoff grazie ad un record di 25 vinte e 22 perse dall’arrivo di Starbury. Da lì, tutto va a rotoli. 4-0 dai Nets di Kidd e soci al primo turno dei playoff, a cui seguono quattro annate in cui la casella delle W dei Knicks recita 33-23-33-23. Addirittura, nel suo ultimo anno a New York, scende sul parquet solo 24 volte, per finire in inactive list a metà gennaio e non toccare più il parquet. A fine stagione saltano teste illustri: Isiah Thomas come executive e coach, e Stephon Marbury come giocatore che non rientra nei piani di Mike D’Antoni.

Passa oltre un anno senza mai scendere in campo, fino a quando, poco dopo il suo 32esimo compleanno, i Knicks lo tagliano, permettendogli di firmare coi Boston Celtics, dove ritrova il suo antico compagno Kevin Garnett e si unisce ad un team che vede altre due superstar del calibro di Paul Pierce e Ray Allen. Il suo ruolo, per la prima volta in carriera, è quello di guidare una second unit, e ovviamente la situazione gli piace meno di zero, ma un anno intero di inattività non lo mette nella posizione di dettare condizioni. In maglia Celtics, comunque, vincerà l’unica serie di playoff della sua carriera, il 4-3 con cui Boston elimina i Chicago Bulls, prima di soccombere con identico punteggio agli Orlando Magic di Dwight Howard. Il 17 maggio del 2009, al TD Banknorth Garden di Boston, i Magic vincono la partita decisiva con un secco 101-82, complice anche l’assenza di Garnett, infortunatosi in una delle ultime partite di regular season proprio contro i Magic. Marbury gioca 13 minuti, mette a segno 4 punti ma perde 3 palloni: lui non lo sa ancora, ma quella sarà la sua ultima partita in NBA, prima di andare a ricostruire una carriera, ma prima ancora una persona, in Cina, dove vincerà 3 titoli in 8 stagioni e dove saprà, prima di ogni altra cosa, ritrovare la pace con sé stesso. Ma questa è un’altra storia, che meriterebbe di essere raccontata a parte. Quel giorno al Garden, però, in quella che sarà l’ultima partita di Marbury in NBA, Orlando schiera nella posizione di point guard titolare Rafer Alston, quel figlio di New York che nella Big Apple tutti conoscono come Skip to my Lou.

Epilogo.

Ho avuto un paio di And1, ci stavo benissimo, ci ho giocato finché non erano troppo consumate e ho dovuto buttarle via perché cominciavano a rompersi in più punti. Ho sempre voluto comprarmi un paio di Starbury, non ci sono mai riuscito. Ma non mi sono ancora arreso.

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