Voce del verbo to (Chris) Waddle

Dalla maledizione italiana, l’episodio con Maldini, quel gol contro il PSG e l’amore di Marsiglia. Sul divano per il racconto long form su Chris Waddle

Chris Waddle sulla cinquantina | © Peter Gray

Cosa spinge un cinquantanovenne ad alzarsi dal letto la domenica, farsi un paio d’ore di macchina e stiparsi in uno spogliatoio angusto con altri signori attempati, mentre nuvolette di fiato caldo si condensano nell’aria gelida?

Cosa lo spinge a svestirsi, mettersi maglietta, pantaloncini, scarpette e affrontare il freddo e l’umidità per giocare a calcio insieme a coetanei ormai sformati?

Che poi giocare a calcio è un eufemismo, quella è un’altra cosa, è la pantomima di una partita: ritmi rallentati, tocchi di palla approssimativi, passaggi imprecisi, conclusioni spompate. Chi glielo fa fare, soprattutto se questo cinquantanovenne vanta sessantadue presenze e sei goal in Nazionale, ha vinto tre campionati, ha giocato due Mondiali, un Europeo, tre Coppe dei Campioni ed è stato l’idolo di Thierry Henry e l’incubo di Paolo Maldini?

Nel marzo del 2020 Owen Wainwright posta su YouTube un breve video di una partita amatoriale in un paesino delle Midlands Orientali. Wainwright è il capitano della squadra “Veterani” del Long Bennington e da bordo campo filma un goal che in questi campi non ha senso di esistere: un pallonetto folgorante da trenta metri che uccella impietosamente il portiere. Il pubblico impazzisce, parte una salva di petardi, lo stesso arbitro si avvicina a un calciatore del Long Bennington e sembra dirgli: “Facile così, eh?”.

L’autore del goal alza entrambe le braccia al cielo e si volta per cercare l’abbraccio di un compagno, poi torna verso il centrocampo con la postura ingobbita, la testa incassata in mezzo alle spalle e il passo cadenzato e ciondolante che ci aveva conquistato da ragazzino. La sua compostezza sembra stridere con le reazioni dei presenti. Quando passa accanto al numero 9 avversario, quest’ultimo lo sfiora con una mano, quasi lo accarezza, con la delicatezza di un San Tommaso. L’autore del goal ha il numero 8 sulla schiena e la sua normalità non è mai stata quella degli altri e se ancora ci fossero dubbi sulla sua identità, il titolo del video li fuga tutti: Chris Waddle scores a “Worldy” at age 59.


Nemo Propheta in patria (sua)

Per lungo tempo i campi della provincia inglese, molto più spelacchiati e malridotti di quello del video sopra, sono stati la quotidianità calcistica di Chris Waddle. Per cui se da un lato è sorprendente vederlo a quasi sessant’anni in una partita amatoriale, dall’altro si tratta semplicemente dell’ennesimo ritorno a casa, dell’ultimo capitolo di una carriera sempre più circolare.

Il percorso di Waddle è quello di un outsider che si affaccia tardi tra i professionisti, impreparato dal punto di vista fisico ma innamorato del calcio e dotato di un bagaglio tecnico in grado di compensare lo svantaggio iniziale. Ed è una storia che non sembra riproducibile, men che meno nel calcio odierno. La sua parabola sportiva nasce e finisce in Inghilterra, ma tocca l’apice in Francia, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, con il passaggio all’Olympique Marseille, una delle potenze del calcio europeo dell’epoca.

Quando il Newcastle lo mette sotto contratto nel 1980, Chris Waddle ha quasi vent’anni, un’età nella quale la maggior parte dei calciatori dilettanti ha già riposto i sogni di gloria nel cassetto. Nato a Felling da una famiglia di estrazione proletaria, Chris lavora come operaio in una fabbrica dove si producono salsicce. Ha fatto tutta la trafila delle giovanili tra squadre dilettantistiche delle serie inferiori, gioca nel Tow Law Town in Northern League, il nono livello del calcio inglese, più o meno l’equivalente della nostra seconda categoria e utilizza le due settimane di ferie di cui dispone per sottoporsi a provini con le squadre professionistiche della zona.

Dopo essere stato bocciato da Coventry City e Sunderland (la squadra di cui è tifoso), Chris trova estimatori nelle file dei Magpies, che lo acquistano per 1000 sterline e lo fanno esordire in Seconda Divisione. È un cambiamento radicale che comporta una fase di adattamento, in particolare dal punto di vista atletico. Pungolato dal neoallenatore Arthur Cox, riesce comunque a superare le difficoltà iniziali e a mettersi rapidamente in luce, in una squadra che annoverava l’ex pallone d’oro Kevin Keegan e l’emergente Peter Beardsley, grazie al proprio talento e a caratteristiche uniche nel calcio inglese dell’epoca.

Nel suo stile di gioco l’istinto è fondamentale, ma Chris ha l’intelligenza di individuare le proprie debolezze e lavorare per migliorarle. Quando diventa titolare sulla fascia destra si mette al lavoro per migliorare il suo piede debole, in modo da avere più opzioni e aggiungere imprevedibilità al suo gioco: “Venti minuti al giorno per qualche mese sono tutto ciò che serve a un professionista per migliorare il suo piede debole”, commenta in un’intervista del 2008.

“Mi viene da ridere che la Nazionale inglese si lamenti di non avere mancini all’altezza e i calciatori che lottano per quel ruolo non riescono a trovare 20 minuti al giorno per allenare il loro sinistro.”

Al termine della stagione 1983/84 il Newcastle ritrova la massima serie e Waddle è uno degli artefici della promozione. Tuttavia la dimensione di St James’ Park inizia ad andargli stretta, motivo per cui si accaserà al Tottenham dopo un solo anno di Prima Divisione.

White Hart Lane è un nuovo salto di livello, ma Waddle adesso è pronto, non è più il ragazzino che viene dai dilettanti e può già vantare una decina di convocazioni con la nazionale maggiore. E quel Tottenham è composto da giocatori creativi e dai piedi educati, una specie di mosca bianca nel calcio kick and rush della seconda metà degli anni ’80. In un contesto simile, Waddle si associa rapidamente a calciatori a lui affini come Hoddle, Ardiles, Hodge e più tardi Gascoigne; le sue peculiarità si sposano a meraviglia con quelle dei compagni, rendendo gli Spurs una squadra divertente e bella da vedere, che però ottiene solo buoni piazzamenti senza mettere nulla in bacheca.

La delusione più grande di questo periodo è la finale di FA Cup del 1987, persa con un autogol ai supplementari dopo essere andati in vantaggio due volte durante i novanta minuti. La sconfitta contro il Coventry segna inoltre l’inizio di una maledizione che vedrà Waddle uscire sempre battuto dalle finali che disputerà in carriera. Nel frattempo, in seguito alla tragedia dell’Heysel, la UEFA ha squalificato i team inglesi dalle competizioni europee per cinque anni. La qualità del calcio d’oltremanica ne soffre ulteriormente e di conseguenza i giocatori più dotati del paese vanno a cercare fortuna in Continente (Glenn Hoddle, Ray Wilkins, Mark Hateley, Gary Lineker).

A quasi trent’anni Waddle è ormai un calciatore di livello internazionale, un punto fermo della Nazionale, ha fatto parte delle sfortunate spedizioni a Mexico ’86 ed Euro ’88, così è solo questione di tempo prima che segua l’esempio dei suoi colleghi dopo 138 presenze e 33 reti con i Lilywhites.

Ai Mondiali dell’86 Waddle gioca da titolare le prime due partite, poi perde il posto a favore dell’ex compagno Beardsley. La sua ultima apparizione in Messico coinciderà con la sfida ai quarti di finale contro l’Argentina, consegnata alla storia per la mano de Dios e per el gol del siglo:“Sono entrato nel secondo tempo contro l’Argentina nell’86, a quel punto però Maradona aveva già mostrato la sua magia. Ricorderò sempre il secondo gol, quando è passato in mezzo alla nostra difesa e ha segnato e io e John Barnes siamo rimasti seduti in panchina con la bocca aperta. Ray Wilkins si è alzato in piedi e ha detto: Non vedrete un gol più bello di questo, mai più. Io avrei voluto applaudire, ovviamente non potevo, ma cavolo se avrei voluto.”

Euro ’88 è una pagina nerissima per il calcio inglese: tre partite e tre sconfitte, due goal fatti e ben sette incassati; una serie tragicomica di episodi sfortunati e clamorosi errori sotto porta. Lineker terminerà la competizione senza segnare e scoprirà poco dopo di aver contratto l’epatite B. Ovviamente anche per Waddle è un’esperienza in cui c’è ben poco da salvare. È nell’undici iniziale al debutto shock contro Eire, poi gioca solo uno scampolo di partita contro l’Olanda di uno scatenato Van Basten. Nell’ultima partita del girone contro l’Urss assiste impotente in panchina alla vittoria degli uomini di Lobanovs’kyj.

A Italia ’90 Waddle si presenta dopo una prima annata sontuosa all’OM. È al picco della sua carriera, esattamente a metà di un periodo magico, tra l’ottobre 1989 e il maggio 1991, in cui tutto sembra venirgli facile, tutto sembra riuscirgli. È anche l’unico giocatore dell’Inghilterra a non militare in un campionato del Regno Unito e ad aver partecipato alla Coppa dei Campioni. 

L’allenatore dei Tre Leoni è ancora Bobby Robson, che lo stima molto ma che è solito usare bastone e carota con gli uomini di maggior talento. Il CT dell’Inghilterra è un tradizionalista legato al 4-4-2 che ora deve fare i conti con una generazione di calciatori tecnici e fantasiosi, anomali per la tradizione inglese e quindi difficili da incasellare in un contesto tattico troppo rigido. Robson inoltre deve fare i conti con il fuoco amico della stampa sportiva di casa. È sulla graticola da tempo, più o meno da quando non è riuscito a qualificarsi per Euro ’84, e in sei anni ha già presentato un paio di volte le dimissioni, puntualmente rifiutate dal Presidente della Federazione Bert Millichip. I risultati ottenuti nelle ultime due manifestazioni internazionali non hanno certo migliorato la situazione, così nonostante l’Inghilterra si qualifichi da testa di serie e senza subire neanche un goal, Robson intraprende l’avventura italiana praticamente da dimissionario.

I due pareggi contro Eire e Olanda, gli stessi avversari di Euro ’88, riattizzano il fuoco delle polemiche tra i tabloid e il selezionatore. Ma in un Gruppo F contagiato dalla “pareggite”, basta la vittoria contro l’Egitto per passare come capolista del girone.

Waddle parte dall’inizio in ogni gara e nella prima partita fornisce a Lineker un assist complicato e delizioso che porta in vantaggio l’Inghilterra contro i rivali irlandesi. Robson mostra di possedere un’insospettabile elasticità tattica e pian piano ritocca l’assetto della sua formazione, talvolta anche all’interno della stessa partita, in modo da poter schierare tutta la qualità presente in rosa. È un equilibrio fragile che ha bisogno della disponibilità di tutti: i grandi solisti inglesi capiscono il momento e non si tirano indietro. Nella competizione che svela Paul Gascoigne agli occhi del mondo, Waddle è il primo ad accettare di fare un passo indietro per far brillare il compagno di stanza. Non si prende la scena come a Marsiglia, anzi rinuncia al ruolo di protagonista e si sacrifica per il bene collettivo, per fare in modo che l’Inghilterra arrivi fino in fondo. Dopo aver eliminato Belgio e Camerun ai supplementari, l’Inghilterra trova in semifinale la favorita del torneo, soprattutto ora che i padroni di casa sono stati eliminati dall’Argentina: la Germania Ovest di Matthäus, allenata da Franz Beckenbauer.

Per quelli della mia età, Italia ’90 è una serie di fotogrammi impressi a fuoco nel cervello: l’enorme pallone al centro del Meazza durante la cerimonia d’apertura, lo stacco di Omam-Biyik contro l’Argentina, il goal di Matthäus alla Jugoslavia, la tripletta di Michel in Spagna-Corea del Sud, gli occhi sbarrati di Schillaci, Baggio che mette il campo in discesa contro la Cecoslovacchia, Higuita ridicolizzato da Milla in mondovisione, Maradona che porta a spasso mezzo Brasile prima di servire Caniggia davanti al portiere, i colpi di testa di Skuhravý,  gli sputi di Rijkaard a Völler, la doppietta di Stojković alla Spagna, Ivković che para un rigore a Maradona (nove mesi prima gliene aveva parato un altro), Schillaci che non riesce a smettere di segnare, Zenga che esce a vuoto su Caniggia, Ferri che dà un calcio di frustrazione a un cartellone pubblicitario, un portiere sconosciuto col naso da pugile che ci elimina da un Mondiale che credevamo nostro. Per un ragazzino italiano di dodici anni, Italia ’90 finisce in quel momento.

Per me no.

Per me Italia ’90 è stato anche il momento in cui ho scoperto Chris Waddle e me ne sono innamorato. E quindi c’era ancora un motivo per rimanere davanti alla televisione a guardare quel Mondiale.

La semifinale del 4 luglio al Delle Alpi consegna tutta un’altra serie di immagini all’iconografia del Mondiale italiano e svetta come la più bella partita della manifestazione, una sorta di finale anticipata. Robson fa capire subito le sue intenzioni e schiera fin dall’inizio Waddle, Platt, Gascoigne, Beardsley e Lineker. La sfrontatezza inglese si scontra con il cinismo tedesco e dà origine a un thriller, un incontro drammatico ed emozionante, nel quale nessuna delle due squadre prevale, ma dove il colpo di scena sembra sempre dietro l’angolo. È una gara tesa e corretta, costantemente in bilico, piena di episodi salienti, capovolgimenti di fronte, occasioni mancate e sliding doors. Al termine della quale Lineker conierà con acume la famosa frase: “Il calcio è un gioco semplice: ventidue uomini rincorrono un pallone per novanta minuti e alla fine la Germania vince.”

Nei centoventi minuti di montagne russe del match, Waddle si ritaglia il suo spazio con alcune giocate che costituiscono altrettanti what if?

Verso la fine del primo tempo si infortuna Völler, ma prima ancora che la Germania riesca a fare il cambio, Waddle si avventa su una palla vagante e spara un siluro da quaranta metri che Illgner devia miracolosamente sulla traversa. Tutto inutile, perché il signor Wright aveva fischiato un precedente fallo di Platt su Augenthaler, ma è un lampo che illumina la notte di Torino. Al 59′ arriva il fortunoso vantaggio tedesco, con una punizione di Brehme deviata da Parker che il quarantenne Shilton non riesce a leggere tempestivamente. Intorno al 70′ Waddle riceve la sfera all’interno dello spigolo sinistro dell’area di rigore tedesca, punta Augenthaler, lo mette a sedere con una finta di corpo incantevole e viene steso dal libero del Bayern Monaco. È rigore netto, ma l’arbitro fa cenno di proseguire e incredibilmente nessuno protesta. Poi a dieci minuti dal termine, Lineker segna un goal da centravanti puro che permette all’Inghilterra di agganciare la Germania, portando la sfida ai supplementari.

Ed è qui che, nel giro di una mezz’oretta, Chris passa da candidato eroe nazionale a capro espiatorio.

La Germania domina e per due volte va vicina al vantaggio con Klinsmann. Poi all’ultimo minuto della prima frazione, in seguito a un contrasto aereo tra Steven e Berthold, la palla finisce a Waddle sul lato sinistro dell’area. Il numero 8 inglese la lascia scorrere e incrocia un diagonale di prima che Illgner riesce solo a sfiorare. Sembra fatta ma il pallone colpisce il palo interno e ritorna verso il centro-area, senza che Platt possa intervenire per ribadire in rete. L’arbitro fischia immediatamente la fine del primo tempo supplementare.

Purtroppo, il peggio per Waddle e per l’Inghilterra deve ancora venire.

Il risultato non si sblocca e la sfidante dell’Argentina dovrà essere decisa ai rigori. Gascoigne, che è uno dei rigoristi, durante i supplementari ha ricevuto il cartellino giallo che gli impedirebbe di giocare la finale e il suo crollo psicologico, diventato un’altra immagine simbolo di Italia ’90, convince il CT inglese a non farlo presentare dagli undici metri.

“Non ero uno dei rigoristi, non avevo mai tirato un rigore in vita mia, ma Gazza non era in condizione e Bobby Robson chiese se qualcuno se la sentiva. Mi sono guardato intorno e nessuno ha alzato la mano. Mi sentivo fiducioso, avevo giocato bene, avevo preso un palo”, racconta Waddle in un’intervista del giugno scorso.

Le immagini però sembrano contraddire le sue parole. Quando si presenta sul dischetto, con l’Inghilterra in svantaggio dopo il precedente errore di Pearce, sembra un condannato che si avvia al patibolo, il linguaggio del corpo è inequivocabile. Il pallone calciato da Waddle sfiora la traversa e si perde sul fondo, l’Inghilterra è eliminata.

“L’ho colpita bene, troppo bene forse”, continua l’ex centrocampista.

“Non avrei potuto colpirla meglio, ma la palla si è alzata ed è stato un modo orribile di perdere la partita.”

Il rammarico è enorme e la stampa britannica, non potendo prendersela con il suo bersaglio preferito che ha già le valigie pronte, non esita ad addossargli la responsabilità dell’eliminazione. Il ricordo è così doloroso che ancora oggi, a distanza di trent’anni, Waddle non riesce a guardare l’epilogo di quella semifinale.

Nella finale per il terzo posto che vede l’Inghilterra affrontare l’Italia, Waddle entrerà solo a una ventina di minuti dal termine, giusto il tempo per ingoiare un altro boccone amaro e perdere sul campo la seconda finale della sua carriera.

L’avventura con la Nazionale praticamente finisce qui. A Robson succederà Graham Taylor, un tecnico estremamente conservatore che lo considera un lusso e lo mette subito ai margini. Nell’ottobre del 1991, al termine di una partita contro la Turchia valida per le qualificazioni agli Europei, Taylor critica la prestazione di Waddle che qualche giorno dopo rilascia un’intervista in cui sostiene che Taylor sta rallentando lo sviluppo del calcio inglese, riportandolo indietro di cinque anni. Per tutta risposta il selezionatore smetterà di convocarlo e lo taglierà dalla lista per Euro ’92 mentre Michel Platini, all’epoca CT dei Bleus, gli confesserà che se fosse stato francese lo avrebbe chiamato senza pensarci un attimo.

MARSIGLIA: Magic Chris e Waddlemania

Nell’estate del 1989 Chris Waddle sta trascorrendo le vacanze a Cipro assieme alla moglie e alla figlia. Ha firmato da poco un prolungamento di contratto che lo legherà per altri sette anni al Tottenham e scalpita per cominciare la nuova stagione, soprattutto da quando gli Spurs hanno annunciato l’acquisto di Lineker dal Barcellona: “[…] giocare con Gazza e Gary Lineker, non vedevo l’ora. Pensavo che fosse proprio quello che ci voleva, un cannoniere di livello mondiale.” Negli stessi giorni, un carismatico parlamentare francese, ex venditore di televisioni con ambizioni da cantante, divenuto miliardario risanando e vendendo aziende sull’orlo del fallimento, si presenta ai dirigenti londinesi nei panni di Vito Corleone e fa loro un’offerta che non possono rifiutare.

Bernard Tapie aveva acquistato l’Olympique Marsiglia per la cifra simbolica di 1 franco tre anni prima, sollecitato da Edmonde Charles-Roux, ex partigiana, giornalista e intellettuale francese, nonché moglie del sindaco plenipotenziario di Marsiglia Gaston Defferre, quando la società era una nobile decaduta che languiva nei bassifondi della serie maggiore francese, dopo aver passato ben quattro campionati nella serie cadetta. È un uomo che non si pone limiti e vuole Marsiglia al centro dell’universo calcistico; in altre parole, l’obiettivo della sua presidenza è che l’OM diventi la prima squadra francese a vincere la Coppa dei Campioni. Un mese e mezzo prima ha fatto un passo decisivo in questa direzione, riportando il titolo di Campione di Francia nelle Bocche del Rodano dopo diciassette anni e ora sta puntellando la rosa in ottica europea con innesti di livello internazionale: Tigana, Amoros, Mozer e El Principe Francescoli. Manca la ciliegina sulla torta ed è per questo motivo che il Presidente dell’OM ha chiesto di incontrare Irving Scholar, proprietario del Tottenham.

Tapie si era innamorato di Waddle la primavera precedente, quando si era recato a White Hart Lane durante un match di campionato per visionare il centravanti del Tottenham Paul Walsh. L’attaccante lo lascia indifferente e a rubargli gli occhi sono invece altri due calciatori dei Lilywhites: uno si chiama Paul “Gazza” Gascoigne, l’altro è Chris Waddle. Racconta Tapie che in quell’occasione, Waddle aveva passato la maggior parte dei novanta minuti con il naso in su a guardare i campanili che le difese si rimbalzavano da una parte all’altra del campo. Le poche volte che il pallone passava dai suoi piedi però accadeva qualcosa di magico, qualcosa che non sembrava di questo mondo: un’armonia di spettacolo e incisività.

L’8 luglio 1989 l’OM annuncia l’acquisto di Chris Waddle dal Tottenham per 4,5 milioni di sterline, in quel momento il terzo trasferimento più costoso della storia del calcio dopo Maradona e Gullit. Marsiglia mugugna: per un mesetto la città ha accarezzato l’idea di accogliere il miglior calciatore del mondo il 3 giugno L’Equipe titolava in prima pagina “Maradona à Marseille” e ora si deve accontentare di un inglese semisconosciuto. Così quando Il 18 luglio Waddle atterra a Marignane sono ben pochi i tifosi ad attenderlo e gli unici a “riconoscerlo” sono alcuni giornalisti che lo hanno scambiato per Roger Waters, leader dei Pink Floyd che la sera stessa si esibiranno al Vélodrome.

Chris ancora non lo sa ma per le successive tre stagioni quello stadio diventerà il palcoscenico in cui, parafrasando i suoi illustri connazionali, brillerà come un diamante impazzito.

Catapultato a Marsiglia a tre giorni dall’inizio del campionato, Waddle ha un avvio tormentato: non è abituato ad allenarsi con trentacinque gradi e dopo pochi giorni di preparazione, mentre i nuovi compagni lo hanno già ribattezzato roast beef, deve fermarsi per i sintomi di un’insolazione (Waddle confesserà di non essersi minimamente preparato al ritiro, rimanendo inattivo quasi un mese). Più di un osservatore inizia a farsi domande sulle capacità del neoarrivato e soprattutto sulla cifra spesa per il suo trasferimento. Anche la vita di tutti i giorni è complicata, la famiglia è rimasta in Inghilterra, Chris vive da solo in hotel e la barriera linguistica è inizialmente un ostacolo insormontabile: “Sono sicuro che i commessi della panetteria pensavano fossi sordo, perché non spiccicavo una parola. Mi limitavo a indicare quello di cui avevo bisogno.”

Papin è l’unico calciatore dell’OM che parla un inglese adeguato e da buon capitano, lo prende sotto la sua ala e lo ospita a casa per facilitare il suo inserimento. Alla terza giornata, alla prima da titolare, Waddle dopo sei minuti va in goal a Tolosa. È un goal inutile, rimontato nel giro di mezz’ora dai padroni di casa, ma è un primo segnale.

L’inizio della luna di miele tra Chris e i tifosi dell’OM ha una data precisa: è il 27 ottobre 1989 e l’Olympique Marseille ospita il PSG di Ivić che l’anno precedente è stata la principale contendente al titolo. È un venerdì sera e anche se la sfida non è ancora le Classique degli anni a venire, l’avvenimento viene trasmesso in diretta televisiva.

Nella settimana che precede l’incontro Chris ha finalmente trovato una casa che gli piace a Aix-en-Provence e la famiglia lo ha raggiunto in Francia. I mesi trascorsi sono anche serviti a sanare le incomprensioni tattiche circa il suo ruolo: “Mi hanno messo in mano una penna e un foglio con un campo da calcio disegnato e mi hanno chiesto dove volevo giocare. Ho fatto una croce sull’ala destra, il ruolo in cui ero abituato a giocare in Inghilterra. Mi hanno chiesto se fossi sicuro, visto che ero mancino, ma ho insistito. Ed è così che ho ritrovato il mio posto in campo.”         

Dopo mezz’ora, Waddle realizza la giocata con la quale conquista per sempre i tifosi marsigliesi. Su una respinta della difesa parigina in seguito a un calcio d’angolo, Di Meco rimette il pallone in area. Waddle parte da dietro ed elude il fuorigioco, addomestica di petto a pochi passi da Bats in uscita, lo supera con un pallonetto e quando il pallone ricade lo appoggia in porta con un colpo di tacco. Dallo stop di petto al goal sono passati tre secondi. Il tempo per descriverlo è maggiore di quello che serve a lui per eseguire. I telecronisti non credono ai loro occhi, al pari dei tifosi presenti che accompagnano l’azione con crescenti grida di entusiasmo. Il portiere del PSG prima protesta per una posizione irregolare inesistente poi si mette le mani nei capelli. Perché è un goal pazzesco, un biglietto da visita che lascia tutti a bocca aperta: uno sberleffo irriverente in faccia a Parigi che sveglia il Vélodrome e galvanizza tutta una città.


A distanza di molti anni Waddle dirà di aver usato il tacco perché credeva di essere in fuorigioco, ma l’idea di una conclusione così estemporanea in una partita talmente importante e la naturalezza del gesto sono comunque sorprendenti. Waddle viene ribattezzato Magic Chris ed entra di diritto nella galleria dei calciatori dallo stile spettacolare tanto amati e apprezzati in Boulevard Michelet; conferma inoltre di possedere le due qualità che secondo il Presidente dell’OM sono indispensabili per vincere a certi livelli: giocare rilassato e concentrato (“décontracté et concentré). Tra l’altro nell’occasione rischia anche una figuraccia perché il colpo di tacco non è pulitissimo: la palla gli rimane un po’ sotto il piede ed esce strozzata, sfiorandogli uno stinco prima di entrare in porta, ma dimostra al contempo una personalità e una fiducia nei propri mezzi che seduce una tifoseria esigente come quella di Marsiglia.

La partita terminerà 2-1. Al goal di Waddle risponderà Vujović nel secondo tempo, prima del vantaggio definitivo di Francescoli a tre minuti dal termine.

È la partita della svolta, per il calciatore inglese e per la squadra tutta. Le prestazioni di Waddle sono sempre più convincenti tra goal, assist, dribbling vertiginosi e calci di punizione chirurgici e nessuno adesso osa più esprimere dubbi sulle sue qualità.

L’OM ha ripreso il filo del discorso interrotto in qualche modo al termine della stagione precedente e ha iniziato a macinare punti e ad accumulare vittorie. La rincorsa sul Bordeaux capolista è sostenuta dall’intesa tra Waddle, Papin e Francescoli, fino allo scontro diretto tra le mura amiche del 14 aprile 1990. Pungolato dall’allenatore dei Girondini Raymond Goethals, che in un’intervista lo ha definito un calciatore “normale”, Waddle sfoggia una prestazione straripante, facendo ammattire un giovane Lizarazu, e decidendo la sfida con una doppietta su punizione che vale il sorpasso in classifica. La prima conclusione è deviata da un difensore, ma la seconda è una botta violentissima sul palo del portiere che piega le mani all’allora estremo difensore del Camerun Bell. Dopo il secondo goal, Waddle passa davanti alla panchina del Bordeaux portandosi le mani alle orecchie, in risposta alle provocazioni del tecnico belga.

Mancano cinque turni alla fine del torneo, ma nonostante una sconfitta nella gara di ritorno contro il PSG, la squadra di Tapie non perderà più la testa del campionato e alla penultima giornata bisserà il successo dell’anno precedente, permettendo a Chris di vincere il primo trofeo della sua carriera.

Nel frattempo, a Marsiglia è esplosa Waddlemania: in città è un idolo, la polizia gli fa autografare le multe invece di contestargliele e una mattina lo scortano perfino agli allenamenti a sirene spiegate per non farlo arrivare in ritardo. Viene creata anche una linea di jeans che porta il suo nome ed è inseguito da orde di sedicenni che mettono in imbarazzo questo trentenne padre di famiglia. Dai barbieri il mullet è il taglio più richiesto e i raccattapalle del Vélodrome sembrano tante copie in miniatura di Chris. A Newcastle era successa una cosa simile quando aveva adottato quel taglio di capelli come gesto scaramantico dopo essersi ripreso da una serie di infortuni: “Durante la partita vado a battere un fallo laterale e uno mi fa: Oh, Chrissy, si può sapere che razza di taglio di capelli è? Due settimane dopo giochiamo di nuovo in casa, la palla esce in fallo laterale ma stavolta nessuno mi prende in giro. Mi sono girato e ho visto che l’80 percento del pubblico aveva il mullet. Tornando a casa quella sera sono passato davanti a un sacco di barbieri col cartello Taglio Chrissy Waddle 5 sterline.”

La prima stagione a Marsiglia ha però un risvolto agrodolce, dal momento che la campagna europea della squadra guidata da Gili si ferma a un passo dalla finale. Dopo un percorso senza sconfitte, Waddle e compagni approdano in semifinale dove trovano ad attenderli il Benfica di Sven-Göran Eriksson. Le Àguias hanno avuto il loro periodo d’oro all’inizio degli anni ’60, quando hanno conquistato due titoli europei consecutivi, ma restano comunque un avversario insidioso, che ha raggiunto la finale della competizione solo due anni prima (perdendo contro il PSV ai rigori). A Marsiglia tutto accade nel primo tempo, con Sauzée e Papin che ribaltano l’iniziale vantaggio di Lima. Waddle coglie una traversa clamorosa su punizione e fornisce l’assist per il vantaggio francese. L’assedio del secondo tempo non cambierà il risultato.

A Lisbona l’OM ha il compito di difendere il vantaggio minimo e in più di un’occasione sembra in grado di trovare il goal che indirizzerebbe la qualificazione. Tuttavia, a una decina di minuti dal termine, l’attaccante angolano Vata devia di mano un calcio d’angolo di Valdo e porta il Benfica a giocarsi la finale di Vienna contro il Milan.

Per Waddle la stagione 1990/91 parte leggermente in ritardo. Reduce dall’avventura mondiale, Chris gode di un paio di settimane di riposo in più rispetto ai compagni e ritrova il campo il 4 agosto contro il Caen, alla terza giornata di campionato, a un mese esatto dalla terribile notte di Torino. Attorno a lui alcuni compagni sono cambiati: Abedi Pelé e Cantona sono rientrati dai rispettivi prestiti a Lille e Montpellier e il compito di rimpiazzare Karlheinz Förster, che ha deciso di appendere le scarpette al chiodo, spetterà al giovane difensore Basile Boli, proveniente dall’Auxerre. Francescoli ha deciso di mettersi alla prova in quello che secondo lui è il “Campionato dei sogni”, la serie A. Per sostituirlo i dirigenti marsigliesi hanno bisogno di un altro fuoriclasse e allora pensano bene di portar via da Belgrado il capitano dalla Stella Rossa e della Nazionale jugoslava, Dragan Stojković. Ma il colpo da maestro Tapie lo tiene in serbo per la panchina e così, a inizio settembre, annuncia l’arrivo di Franz Beckenbauer, fresco vincitore di Italia ’90. È un’operazione più “politica” che tecnica, nella quale anche il Kaiser rimane coinvolto suo malgrado, ma nella testa del Presidente francese è ciò che serve per sancire lo status internazionale della sua squadra.

Waddle dal canto suo si è già reimmerso nella realtà agonistica. A Marsiglia ha trovato l’ambiente ideale per esprimere tutto il suo talento: non gli sono richiesti ripiegamenti difensivi, contrariamente a quello che accadeva in patria, e deve preoccuparsi solo di creare pericoli per le difese avversarie, dedicandosi ad armare quella macchina da goal che i tifosi chiamano JPP. La loro alchimia è speciale: nelle tre stagioni in cui giocano insieme i due segnano 140 goal e Papin vincerà per tre volte di fila la classifica cannonieri sia nel campionato francese che in Coppa dei Campioni. Magic Chris accompagna le sue giocate sensazionali con smorfie e atteggiamenti da giullare, è il leader tecnico della squadra, complice l’annata travagliata di Stojković, ed è protagonista di una stagione che lo consacra definitivamente a livello mondiale. Ha voglia di stupire e divertire, gioca con il sorriso sulle labbra, cerca la complicità del pubblico e si sente a suo agio come non mai: “Il modo in cui giocavamo, il ruolo che mi era stato assegnato, la struttura della squadra, i giocatori che avevamo, eravamo davvero una squadra incredibile”, racconta Waddle nel 2012.

“I tifosi non erano secondi a nessuno, dei veri fanatici. È una squadra, una città. In poco tempo tutti erano diventati tifosi del Marsiglia. Avevamo tifosi sparsi in tutto il Paese perché adoravano il nostro modo di giocare.”

L’impatto di Waddle sulla prima serie francese dell’epoca è simile a quello che Zlatan Ibrahimović avrà una ventina di anni dopo sulla Ligue 1. La Waddlemania, infatti, non è più un fenomeno limitato a Marsiglia, ma ha dilagato ormai in tutto il Paese. Thierry Henry racconta che da piccolo con il padre partiva da Parigi alla volta del Vélodrome solo per vedere le prodezze del calciatore inglese: “Faceva cose con il Marsiglia che non avevo mai visto prima. Passava in mezzo agli avversari senza neanche toccare la palla.” Waddle riceve applausi e ovazioni in tutti gli stadi di Francia e persino i tifosi del PSG lo applaudono al Parco dei Principi quattordici anni prima che Ronaldinho venisse osannato al Bernabeu.


Da un punto di vista sportivo, il campionato è un esercizio di stile, basta pensare che in certe partite l’OM riesce addirittura a schierare una linea d’attacco con Pelé, Waddle, Papin, Stojković e Cantona. Tuttavia, un leggero appannamento nel mese di dicembre spinge Tapie a sollevare dalla panchina Kaiser Franz, che mantiene il ruolo di Direttore Tecnico, e chiamare l’ex nemico Goethals in panchina. Lo scossone sortisce l’effetto sperato e già prima del giro di boa è chiaro che l’esito del torneo non sarà diverso da quello degli ultimi due anni.

La vera partita si gioca in Europa.

Dopo l’amaro epilogo del Da Luz dell’edizione precedente, tutto il gruppo è focalizzato sulla Coppa dei Campioni, vero obiettivo della stagione. E ogni tessera del mosaico sembra incastrarsi perfettamente quando ai quarti l’OM elimina dalla competizione il Milan detentore. La semifinale contro lo Spartak Mosca è un capolavoro tecnico-tattico che fa sembrare una formalità il passaggio del turno. Da quando l’allenatore belga ha preso le redini della squadra ha allestito un blocco difensivo alto e compatto, dispensando Waddle e Pelé da qualsiasi compito difensivo. I due fantasisti hanno infatti libertà di muoversi nelle zone di campo che preferiscono, scambiarsi di posizione oppure giocare vicini, mentre Papin resta il terminale implacabile che catalizza la mole di gioco prodotta. Nella doppia sfida con lo Spartak questo congegno si dimostra letale.

L’OM arriva quindi alla finale di Bari da favorita e si trova di fronte la Stella Rossa, che nonostante abbia ceduto il suo giocatore più rappresentativo proprio al Marsiglia, è comunque composta da tanti giovani talenti (Jugović, Prosinečki, Mihajlović, Pančev e Savićević). Dopo un avvio equilibrato, la Stella Rossa si chiude e pensa esclusivamente a limitare le offensive dell’OM. Alla fine del primo tempo l’unica occasione degna di nota sarà capitata sui piedi di Papin che però calcia sul fondo. Il secondo tempo è una replica del primo: il Marsiglia ci prova e la Stella Rossa se ne sta rintanata nella propria metà campo, intenta a tagliare i rifornimenti per i tre attaccanti francesi. Waddle ha la palla buona, ma il suo colpo di testa termina a lato; poi proprio allo scadere, un secondo colpo di testa lambisce il palo alla sinistra di Stojanović e conclude i tempi regolamentari. Il copione non cambia ai supplementari e l’unica volta che la Stella Rossa si fa viva dalle parti di Olmeta è con una punizione di Prosinečki che esce a lato. Con la paura a farla da padrona, Goethals attende un po’ troppo prima di utilizzare il rientrante Stojković e la finale si trascina ai rigori.

Ricordando il match di Bari, Waddle sostiene che i rigori erano l’obiettivo degli jugoslavi fin dall’inizio e da questo punto di vista la testimonianza di Siniša Mihajlović è piuttosto eloquente: “Penso che sia stata la finale più noiosa della storia della Coppa dei Campioni. Poche ore prima della gara ad alcuni di noi furono mostrate delle videocassette con le partite dell’Olympique. Mi ricordo Ljupko Petrović dirci: Se li attacchiamo gli lasciamo la possibilità del contropiede, al che ho chiesto: Quindi cosa facciamo? La sua risposta è stata: Quando recuperate il pallone ridatelo subito a loro. Così abbiamo passato centoventi minuti senza toccare praticamente palla.”

Un altro indizio in questo senso è che durante la preparazione alla finale, i giocatori di Belgrado avrebbero fatto allenamenti specifici dagli undici metri.

I calci di rigore e l’Italia rappresentano per Waddle un connubio micidiale: ancora sotto shock dopo l’errore nella semifinale mondiale di qualche mese prima, rifiuterà di far parte della cinquina dei tiratori, seguito da Stojković, che a Italia ’90 ha mancato il suo rigore con l’Argentina e non se la sente di presentarsi sul dischetto contro il suo passato.

La parata di Stojanović su Amoros indirizza inesorabilmente la serie e quando Pančev insacca il quinto rigore, la Stella Rossa si laurea Campione d’Europa.

Lo sconforto dell’OM è incarnato da Basile Boli, che vaga per il prato del San Nicola piangendo a dirotto con le mani tra i capelli. Waddle rivede i fantasmi di Torino e deve nuovamente accontentarsi di una medaglia d’argento, nello stesso stadio in cui tra l’altro aveva perso la “finalina” mondiale contro l’Italia. A livello personale il rimpianto è acuito dal fatto che molto probabilmente in caso di vittoria si sarebbe aggiudicato il Pallone d’Oro.

La stagione successiva è condizionata dalla delusione patita a Bari e la decisione di sostituire Goethals con Ivić fa storcere il naso a più di un sostenitore marsigliese. Col senno di poi, per Waddle è un farewell tour durante il quale può deliziare per un’ultima volta il pubblico francese. Ancora una volta la superiorità dell’OM in patria non è in discussione, ma l’Europa purtroppo resta un tabù e le aspettative francesi si infrangono agli ottavi di finale contro lo Sparta Praga.

Al termine della stagione 1991/92 la storia tra Waddle e l’OM si chiude improvvisamente. Tapie è ancora furioso per l’eliminazione di Praga e deve ripianare la situazione finanziaria del club, per cui decide di vendere un po’ di argenteria: Mozer torna al Benfica e Papin, lusingato dalla corte del Milan, viene accontentato. Waddle vorrebbe restare in Francia, ma Tapie non può permettere che Magic Chris si ripresenti al Vélodrome con un’altra casacca. Così mette un prezzo impossibile per le compagini francesi e per le rivali europee, mentre fissa il prezzo a 1 milione di sterline per le squadre inglesi. Lo Sheffield Wednesday sarà la squadra che metterà sul piatto la cifra richiesta dal Presidente dell’OM e a inizio luglio Chris percorrerà la Manica in senso inverso rispetto a tre anni prima, in maniera altrettanto inattesa e fulminea. In lui resta il rimpianto di non aver potuto concludere l’esperienza marsigliese salutando i tifosi come si deve: “La cosa triste di quando sono partito è che non c’è stato niente di ufficiale, nessuno sapeva davvero che stavo andando via. È successo tutto in fretta: un minuto prima ero nella mia casa ad Aix e quello dopo ero in un hotel a Sheffield. Sono partito molto velocemente. Mi sarebbe piaciuto dire addio in modo adeguato, giocare un’ultima partita e alla fine di questa mostrare tutto il mio rispetto al pubblico. Non è successo e sono rimasto deluso. Perché mi sarebbe piaciuto poter dire: Questa è la mia ultima partita. Grazie a tutti. Addio”.  

Questo sentimento di gratitudine e affetto sarà comunque ricambiato dai tifosi che nel ’98, in occasione di un sondaggio per il centenario dell’OM, lo eleggeranno secondo calciatore del secolo dopo JPP. E nonostante la fine del rapporto, anche la stima di Tapie nei suoi confronti non verrà meno, tant’è che alla vigilia della finale di Champions League 1992/93 il Presidente lo inviterà nel ritiro dell’OM e lo farà allenare con la squadra che di lì a qualche giorno diventerà finalmente Campione d’Europa.

FLASHBACK: la partita perfetta

A una manciata di minuti dal termine della gara di ritorno tra Olympique Marsiglia e Milan, la squadra italiana ha un piede e mezzo fuori dalla Coppa dei Campioni. La squadra di Sacchi è una corazzata impressionante: vincitori delle ultime due edizioni della competizione, stanno dominando il calcio europeo e mondiale, imponendo una rivoluzione definitiva. Stasera però i rossoneri non riescono a esprimersi ai loro livelli e tutti i tentativi per scalfire il fortino locale stanno andando a vuoto. Mozer giganteggia in difesa e respinge a più riprese gli assalti del Milan. Mentre il centrale brasiliano vince un ultimo duello aereo e allontana il pallone dalla propria area, uno dei riflettori dello stadio smette di funzionare. La sfera finisce sui piedi Waddle che si trova lì vicino. Il numero 8 marsigliese parte a testa bassa e si mangia il campo, in una situazione di contropiede quattro contro due.

La cosa più semplice, una volta arrivato sulla trequarti milanista, sarebbe allargare a destra per Papin o a sinistra per Vercruysse, ma Waddle esita, favorendo il ritorno di Evani che scherma il capitano dell’OM. Sembra un’occasione sprecata ma a questo punto il calciatore inglese punta verso Tassotti alla sua sinistra, poi con due tocchi cambia di nuovo direzione verso destra, passa in mezzo a Costacurta ed Evani e si presenta davanti a Rossi in uscita. Waddle lo evita facilmente con il sinistro ma poi tocca il pallone di destro e quello muore sul fondo, mentre Waddle cade a terra. Forse Rossi lo tocca e sarebbe rigore, così dichiarerà Waddle qualche anno dopo, fatto sta che il direttore di gara comanda la rimessa dal fondo a favore del Milan, poco prima di sospendere la gara per qualche minuto a causa del riflettore in panne. Waddle rimane faccia a terra a braccia aperte, come se lo avessero fucilato alla schiena.  


Rispondendo a una domanda di un lettore di FourFourTwo su quale sia stata la sua miglior prestazione in Nazionale, Waddle risponde senza incertezze che è stata un’amichevole contro l’Italia giocata a Wembley nel novembre 1989. In quella partita a marcarlo è un certo Paolo Maldini, che ha poco più di ventun anni, quasi otto in meno di Waddle, ma è già alla sua sesta stagione da professionista ed è titolarissimo nel Milan neocampione d’Europa. A confermare in qualche modo le parole di Waddle ci penserà qualche anno dopo proprio Maldini, che inserirà il britannico nel podio dei giocatori che più lo hanno messo in difficoltà nella propria carriera: “Io sono uno scattista. Ero uno scattista, non più ormai. Quelli che si fermavano e ripartivano erano il mio pane. L’inglese era ciondolante, ma meno scattante. A me davano fastidio quelli che spostavano la palla, ondeggiavano e lui mi costringeva nella mia metà campo per tutta la partita.” Waddle aggiunge che in quel match ha rivoltato Maldini come un calzino ed è per questo che il difensore italiano sarà particolarmente duro con lui un anno e mezzo dopo, durante il ritorno dei quarti di finale di Coppa dei Campioni tra OM e Milan.

È il 20 marzo del 1991 e i Campioni d’Europa vanno a giocarsi la qualificazione in Francia. Due settimane prima l’OM ha sfiorato l’impresa al Meazza, tornando comunque a Marsiglia con un prezioso 1-1 che permette ora alla squadra di Goethals di godere dei favori del pronostico. Al goal di Gullit, causato da un’incomprensione comica tra Di Eco e Mozer, ha risposto Papin, imbeccato splendidamente da Waddle che ha visto un corridoio impossibile tra una selva di gambe e corpi rossoneri. È il momento che i francesi aspettano dall’edizione precedente, quando nella semifinale di ritorno sono stati eliminati dal Benfica al da Luz, con un goal palesemente irregolare. In un’intervista del 2016 Waddle assicura che i calciatori dell’OM fossero convinti di essere la squadra più forte del mondo e che la mano di Vata li avesse privati della loro occasione per dimostrarlo. È una di quelle ipotesi inverificabili che spesso la storia dello sport ci mette davanti, ma chissà cosa sarebbe davvero successo se nella finale del ’90 il Milan si fosse trovato davanti l’OM invece del Benfica.

Quando l’arbitro svedese Bo Karlsson fischia l’inizio dell’incontro il Vélodrome è una bolgia. Lo stadio è gremito già da tre ore prima della partita e, proprio secondo le parole di Waddle, l’atmosfera è elettrica, Nonostante il vantaggio dato dal goal in trasferta, l’OM parte forte, spinto dal pubblico, e nei primi cinque minuti ha due buone occasioni con Pelé e Boli. Poi la gara si fa più tattica, spigolosa e l’OM si ricompatta, lasciando la fase offensiva esclusivamente nelle mani, o meglio nei piedi, del suo tridente d’attacco: Waddle, Papin, Pelé. Se si esclude un colpo di testa di Gullit verso la mezz’ora, le migliori occasioni del primo tempo sono per la squadra di casa, ma al 45′ il risultato è fermo sullo 0-0. Il Milan ha un sussulto al 13′ del secondo tempo, quando Olmeta smanaccia in angolo una bella punizione dal limite di Evani, ma poi non sarà più in grado di rendersi pericoloso. Waddle è ispirato, tiene palla, fa salire la squadra, attira su di sé i giocatori rossoneri e guadagna preziosi calci di punizione che tengono il Milan lontano dalla porta marsigliese. Maldini in effetti è più ruvido del solito e non risparmia qualche colpo proibito a Waddle. Dopo uno scontro aereo con il terzino milanista, Waddle resta lungamente a terra. I telecronisti di Canale 5, che hanno ormai abbandonato ogni velleità di imparzialità, protestano per la perdita di tempo. In realtà il numero 8 ha praticamente perso conoscenza e viene fatto rinvenire con i sali. Ha mal di testa, la vista appannata, barcolla per il campo come una bambola di pezza e gioca i minuti successivi sniffando di tanto in tanto la bustina di sali che tiene in mano. In un documentario a lui dedicato, Waddle racconterà di essere rimasto in stato confusionale per una ventina di minuti (“Ci sono spezzoni della partita che dopo non ricordavo. Ho giocato a memoria”). Ed è proprio in questo lasso di tempo che segna il goal più importante della sua carriera.

Intorno al 75′ Casoni stoppa Rijkaard sulla linea di centrocampo e si butta in avanti. Il Milan è bravo a ripiegare e, non potendo verticalizzare, il numero 7 dell’OM appoggia a sinistra per Pelé che si isola su quel lato e quasi si ferma, aspettando la sovrapposizione del compagno. Quando Casoni gli sta sfilando dietro, il ghanese fa partire un cross arretrato per Papin che si trova poco fuori dal limite dell’area. Non sembra un’azione pericolosa: il cross è molto alto e la difesa è perfettamente schierata. Mentre la palla è in aria, Maldini esce su Papin che affretta la giocata e di testa allunga la traiettoria per Waddle, appostato sullo spigolo destro dell’area. L’inglese allunga il passo per raggiungere il pallone scodellato in area e colpisce al volo di destro, il suo piede debole, proprio mentre il numero 3 del Milan sta sopraggiungendo. Il pallone saltella sul terreno e va a infilarsi nell’angolo alla destra di Rossi, sfiorando il palo. Nel replay da dietro la porta la traiettoria ha un che di beffardo, crudele, è come vedere un’auto che va a sbattere senza poter fare niente per fermarla.

Il Vélodrome viene giù e la telecamera inizia a tremare.

Waddle viene sommerso dai compagni ma la sua espressione è quella di qualcuno che non sa dove si trova. Nel momento più alto della sua carriera Chris il clown, il calciatore spensierato che gioca sempre col sorriso sulle labbra, è un una maschera di fatica, un uomo esausto e disorientato che ha compiuto il proprio destino in maniera quasi incosciente, involontaria. C’è una sorta di ingiustizia in ciò che successe a Chris Waddle ormai trent’anni fa: immaginate di aver compiuto il vostro exploit più notevole e non ricordarlo; immaginate, al contrario, di essere fisicamente svuotati, mentalmente smarriti. Il goal al Milan non è il dribbling studiato con il quale Waddle evita il suo marcatore; è un goal istintivo, primitivo, un gesto che viene dalla memoria muscolare di un calciatore sopra la media.

Quando il riflettore riprende parzialmente a funzionare mancano pochi minuti di recupero al termine della gara. L’arbitro fa cenno di riprendere il gioco, ma Galliani ordina ai suoi calciatori di non rientrare in campo e così il signor Karlsson è costretto a fischiare la fine. Diversi tifosi si riversano sul prato verde per festeggiare con i loro beniamini: l’OM ha dimostrato di essere più forte dei più grandi.

Waddle però non riesce a partecipare alla gioia di un’intera città. Dopo l’incontro, mentre si trova insieme all’amico Gascoigne che è venuto ad assistere al match, inizia ad avere giramenti di testa e svenimenti: l’eroe della notte marsigliese terminerà la serata in ospedale per una commozione cerebrale e resterà sotto osservazione per una settimana. L’ultima beffa arriva dopo qualche giorno, nel momento in cui la UEFA ufficializzerà quello che era già nell’aria e cioè la vittoria dell’OM a tavolino per 3-0. Dopo essere scomparso dalla sua memoria, il goal più importante della sua carriera scompare anche dagli almanacchi, assieme alla partita in cui Chris ha mostrato di far parte dell’olimpo del calcio mondiale.       

TO WADDLE (voce del verbo)

Nel 2001, in un’intervista al Telegraph, Waddle spiega la genesi del suo stile: “Di solito giocavamo quaranta contro quaranta; uno aveva la maglia del Manchester United, uno quella del Barcellona, uno era in maglietta bianca, un altro ancora con l’uniforme di scuola. Finché non avevi capito esattamente chi stesse in squadra con te la cosa più semplice da fare era dribblare tutti quanti. È stato molto educativo.”

Il suo calcio nasce in strada, dove conta l’intuito e le regole sono più sfumate. È un calcio in cui far passare la palla tra le gambe dell’avversario è spesso il trucco più sicuro per liberarsene e indubbiamente anche il modo migliore per far incattivire qualcuno che ha vent’anni più di te. Waddle è un artista del dribbling e il suo stile è un’ode alla finta, all’inganno, all’imbroglio, all’elusione. È un illusionista che fa apparire e scomparire la sfera sotto gli occhi degli avversari.

Waddle porta a scuola un giovane Ryan Giggs come potete vedere qui ad esempio

Il suo calcio nasce in strada e dalla strada prende il fondamentale più comune per declinarlo in mille sfaccettature, seguendo il proprio genio e la propria tecnica. Sul campo l’istinto deve poi scendere a patti con l’efficacia, lo spettacolo con la funzionalità: “Se hai tre uomini addosso dovranno pur esserci due compagni liberi da qualche parte.”

Il primo Waddle è un’ala destra mancina, un esterno a piede invertito quando questi non esistevano nemmeno. Tuttavia, non è un’ala classica, perché non è scattante ed esplosivo e nei suoi dribbling non può affidarsi alla velocità pura. È alto quasi 1,90 e dribbla danzando, muovendo il corpo, nascondendo il pallone, ma ha bisogno della linea laterale, è il suo riferimento e il suo rifugio, come il bordo della piscina per un nuotatore principiante.

Il Waddle più maturo vuole governare il tempo e lo spazio. Si esalta nei ritmi sincopati, utilizza la pausa, cambia il ritmo della corsa e la frequenza dei tocchi. Non ha più bisogno della linea laterale, perché vede opportunità ovunque, in ogni angolo del terreno di gioco.

In Chris Waddle coesistono la gioia infantile e una conoscenza profonda del calcio, l’umiliazione impertinente di un tunnel e la consapevolezza che si tratta di uno sport collettivo segmentato in tanti duelli individuali.

In inglese il verbo to waddle è utilizzato per descrivere il modo di camminare ancheggiante di anatre, pinguini e altri uccelli bassi e tozzi. Per estensione lo si può tradurre con dondolare o anche ciondolare: nomen omen.


Epilogo

Il Waddle che torna a casa nel 1992 dopo l’esperienza oltremanica è completamente diverso da quello che ha lasciato l’Inghilterra tre anni prima. Lo Sheffield Wednesday che se ne assicura le prestazioni può fare affidamento su un atleta competitivo a suo agio nelle sfide più importanti che ha alzato a dismisura il livello del proprio gioco e aumentato la sua influenza sulla partita. Nella neonata Premier League è tecnicamente una spanna sopra a tutti, un calciatore complesso e smaliziato che da ala atipica ed estrosa si è trasformato in un fantasista a tutto campo terribilmente concreto, un punto di riferimento a cui i compagni si appoggiano nei momenti di difficoltà, un uomo squadra che sa come si vince. Tranne le finali. E infatti nel primo anno a Sheffield ne perderà addirittura due, League Cup e FA Cup, entrambe contro l’Arsenal (particolarmente sfortunata la seconda, dove andrà anche in goal). La sua unicità viene riconosciuta al termine della stagione 1992/93, quando la FWA, l’associazione che racchiude circa 400 giornalisti sportivi inglesi, lo elegge miglior calciatore dell’anno.

Dopo quattro stagioni con i Gufi, Chris Waddle a trentacinque anni ha un’ultima occasione per rientrare nel calcio che conta. Kevin Keegan è in quel momento l’allenatore di un ambizioso Newcastle che vuole interrompere il dominio del Manchester United e per completare una rosa già molto competitiva, della quale fanno parte Ginola, Asprilla, Les Ferdinand e Shearer, pensa all’ex compagno. Ma David Pleat, manager dello Sheffield, rifiuta l’offerta dei Geordies e così il romantico ritorno nella società che lo ha lanciato tra i professionisti sfuma. Da quel momento, e fino all’addio nel 2002, sarà un continuo girovagare tra serie minori e dilettantistiche: Falkirk in Scozia, poi di nuovo in Inghilterra con Bradford City, Burnley, Torquay United, Worksop Town, Glapwell e Stocksbridge Park Steels. Luoghi su una mappa, nomi sconosciuti sull’atlante del calcio che conta. L’ultima esperienza in Premier League è una manciata di mesi nel ’97 con il Sunderland, ma neanche il suo contributo sarà sufficiente per salvare dalla retrocessione la squadra per cui tifava da bambino.

Dopo il suo ritiro, Waddle non ha mai smesso di interessarsi al calcio, collaborando in veste di commentatore con varie riviste sportive, ESPN e BBC. In questo frangente ha spesso criticato la scarsa qualità tecnica della Nazionale inglese e l’intensità a tutti i costi della Premier League e nell’era di internet le sue invettive nei confronti della Federazione sono diventate virali, in particolare dopo le deludenti prestazioni ai Mondiali 2010 e 2014 e agli Europei 2012 e 2016: “La FA se ne sta immobile e non fa niente, torneo dopo torneo dopo torneo. Perché non ascoltano? Perché non guardano agli altri Paesi e si chiedono: Come fanno a continuare a produrre talenti? […] La Premier League è sempre a cento all’ora, è come il basket. È una cosa tipo: attaccate voi, attacchiamo noi, attaccate voi, attacchiamo noi. Ci prendiamo in giro pensando di avere una possibilità mantenendo alto il ritmo. Sappiamo giocare solo in un modo ed è poca cosa. Non si può giocare a calcio e sperare di vincere trofei andando sempre a cento all’ora e pressando per novanta minuti. Bisogna saper giocare lenti, lenti, poi veloci e noi non ci riusciamo.”

Il suo punto di vista è spesso originale, così come lo erano le sue giocate, e grazie alla sua cultura calcistica e i modi schietti, Waddle sa fornire un parere competente e autorevole apprezzato dagli appassionati.

Ma ogni tanto il richiamo del campo si fa sentire. È successo nel 2013, quando a undici anni dal suo ritiro ufficiale si è rimesso le scarpette per giocare una stagione con i dilettanti dell’Hallam, e succede ancora oggi, a giudicare dal filmato che apre questo pezzo. Lo conferma Waddle stesso in una recente intervista, aggiungendo che continuerà a giocare finché se la sentirà e finché questo non metterà in pericolo la sua salute; per portarsi avanti ha già iniziato a praticare il walking football, ovvero il calcio camminato.

Non ci sarebbe da stupirsi se tra una decina d’anni spopolasse in rete il video di un settantenne ingobbito e dal passo ciondolante che con un pallonetto da trenta metri uccella il portiere.


Long form a cura di Manuel Donati

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