Una successione di eventi senza alcuna logica consequenziale, collegati tra loro solo da flebili tracce, indizi, supposizioni. Dialoghi senza alcun significato o ragion d’essere, e personaggi che in apparenza nulla c’entrano gli uni con gli altri, ma da cui scaturisce una storia così assurda da infine rivelarsi vera.
In questo senso, la telenovela Sarri-Juventus pare nata dalla penna e dalla mente di Samuel Beckett. Un canovaccio da teatro dell’assurdo, quello delineatosi tra l’ex allenatore del Napoli e i bianconeri, in cui ogni momento è parso quello buono per rendere possibile l’impossibile.
Ma in una storia dai contorni sfumati ed inafferrabili, i protagonisti in scena si sono rivelati un continuo ossimoro di sé stessi, costantemente in bilico tra l’imbarazzo di un passato ingombrante ed un futuro “traditore”, divisi da tradizioni infrantesi sull’effimera pesantezza di un risultato ed ideologie troppo dense per non rischiare di scadere nell’abiura.
Il tutto, con lo sfondo dei media e dei tifosi, tutti protesi nello sforzo di razionalizzare l’imponderabile finendo tuttavia solo per inasprire il conflitto tra ragione e sentimento.
Il mare non bagna Napoli
L’intreccio tra amore e contraddizioni che ha accompagnato la storia di Sarri alla Juventus ha sconquassato l’ambiente napoletano dalle viscere.
Una Napoli “meraviglia senza coscienza” d’un tratto si riscopre irragionevole, a tratti persino violenta e volgarmente intollerante, solo perché strappata al suo sonno di luoghi comuni e stereotipi che sentiva essa soltanto di poter vantare… proprio come se all’improvviso il mare non bagnasse più il suo splendido golfo.
E’ così che allora è scattata la reazione nevrotica della difesa ad oltranza di ciò che è Napoli – anche senza quel mare che ne contraddistingue bellezza ed unicità. Una reazione che arriva a negare ciò che è stato, per non sentirsi, nemmeno per un attimo, dalla parte degli sconfitti – ma finendo implicitamente per dimostrarlo.
Per capire di cosa si scrive sarebbe bastato ascoltare una delle tante radio locali, che pur di “difendere la città” ha intervistato un ex presidente juventino per fargli ribadire “che l’Avvocato Agnelli non avrebbe mai preso Sarri perché non ha classe. Uno che impreca, sempre in tuta, che fuma… sembra un macista che vuole arricchirsi”. E finendo poi con “Quel dito medio fatto ai tifosi della Juve può ficcarselo dove lui sa”.
In studio nessuno obietta, anzi sottoscrivono sollevati.
Questa la Napoli che ingurgita sé stessa senza pietà, in cui la ragione soccombe ad una natura “che di fronte all’uomo muove i suoi eserciti di nuvole e d’incanti, perché egli ne fosse stordito e sommerso”.
Ecco, Anna Maria Ortese nel suo “Il mare non bagna Napoli” non aveva previsto che Sarri sarebbe andato alla Juventus, ma aveva lucidamente individuato la dispersione della coscienza alle pendici del Vesuvio.
E difatti, se l’amore, l’identificazione e la passione tra Sarri e Napoli hanno spinto i tifosi azzurri persino a seguire le sue gesta in Premier, sono poi diventate lo sciocco pretesto di una “condanna della memoria” appena il suo nome è stato accostato ai bianconeri.
Una condizione opportunistica e cinica che chi ama (ma davvero e fino in fondo, però) non può mai accettare; e che soprattutto l’ambiente calcistico napoletano dovrebbe imparare a rigettare se ha l’ambizione di crescere, conquistare titoli e affrancarsi dalla figura di popolo Pulcinella. Come presume e pretende di essere meritevole nelle grandi occasioni.

Il dilemma del professionismo identitario
Altra ragione per cui il processo mediatico alla memoria inscenato in contumacia non sussiste è perché Maurizio Sarri è soprattutto un professionista; e il professionista è colui che coglie le occasioni migliori che il suo percorso professionale gli offre, capitalizzandole e creando i presupposti per cogliere in futuro altre opportunità.
Dallo Stia alla vittoria in Europa League col Chelsea, ora è venuto il momento di capitalizzare un altro scatto in avanti della sua carriera, senza alcuna implicazione morale ed emotiva. Anzi, anteponendo il proprio bene a tutto il resto.
Tuttavia, nel caso di Sarri, questo atteggiamento è stato dipinto come quello di un cinico pronto a far sponda sul sentimentalismo verso Napoli, perché l’identificazione mostrata al San Paolo ed il suo accordo con la Juventus sarebbero concettualmente inconciliabili.
Così come la cieca visione de “sono tutti mercenari”, anche questo sottile tentativo di revisionismo è inaccettabile.
Il professionismo identitario, al contrario, è proprio il fattore comune che determina i successi delle grandi aziende e che proprio in ambito sportivo trova la sua sublimazione.
Negarlo significherebbe svuotare di significato le grandi storie di calcio dell’Ajax di Cruijff, del Barcellona di Guardiola, dell’Inter di Mourinho, del Milan di Sacchi e Ancelotti o della Juventus di Lippi, accomunate da un senso di appartenenza ed identificazione a tutti i livelli (calciatori, allenatore, dirigenza, tifoseria) che le hanno consegnate alla Leggenda.
L’allenatore professionista, come un grande manager, si identifica naturalmente nella società, nella piazza, nel tifoso; anzi, lui stesso diventa tutte queste cose. Ma è il suo lavoro, e può (anzi, deve!) farlo necessariamente in ogni contesto in cui opera, pena essere tacciato di scarsa professionalità.
Ecco il paradosso del professionista identitario, che soprattutto nell’Italia del Pallone (ma anche in Europa non scherzano) risente di sentimentalismi e campanilismi isterici e furiosi, che privano di enorme bellezza le narrazioni il calcio nostrano.
Pensate infatti raccontare – sia prima che durante la stagione – senza “diaframmi” i destini doppiamente incrociati di Ancelotti e Sarri sull’asse Napoli-Juventus, il paradigma ancelottiano della concretezza contro l’avanguardia sarrista bianconera o piuttosto le idee tattiche che i due caleranno nei loro rinnovati contesti tecnici ed in relazione ai nuovi avversari. Il prossimo campionato, infatti, vedrà un’incidenza massimale di allenatori come Conte, Fonseca e Giampaolo, pronti a risollevare contesti depressi come Inter, Roma e Milan, e restituir loro finalmente un’identità di gioco precisa.
Se Atene piange, Sparta non ride
In questa storia di contraddizioni e ossimori però non è che l’imbarazzo nella gestione del caso Sarri da parte dell’ambiente juventino sia stato minore rispetto a quello napoletano.
Per anni, infatti, il calcio dell’allenatore toscano è stato spocchiosamente etichettato come “spettacolo da circo”, in contrasto con il “risultatismo” che da sempre la tradizione bianconera impone ai suoi allenatori come vanto e garanzia di imprese leggendarie.
Ora invece parrebbe proprio che una nuova filosofia di calcio sia stata identificata come medicina al mal di Champions dei pluricampioni d’Italia, per i quali vincere la coppa dalle grandi orecchie è ormai un’ossessione.
Non è infatti un mistero che il rapporto tra Andrea Agnelli e Massimiliano Allegri si sia interrotto bruscamente dopo Juventus-Ajax, con la dirigenza bianconera folgorata sulla via di Damasco dal bel gioco, insieme efficace ed esaltante, dei ragazzi di Ten Hag.
Certo, la stampa pare aver magicamente dimenticato alcune spigolosità del tecnico toscano (prima sottolineate a tamburo battente) una volta accostato il suo nome al club torinese, ma in questo senso sarà molto interessante osservare come lo Stadium o la dirigenza stessa reagiranno alle prime (inevitabili) difficoltà dell’innesto di un nuovo paradigma calcistico, oppure a possibili uscite sarriane come la famosa “occorreranno tre anni per diventare il mio Empoli”, pronunciata nello stupore generale nel ventre del San Paolo.
Al contrario, però, sarà pure interessante capire come lo stesso Sarri adatterà il suo gioco collettivo alle fortissime individualità bianconere – una su tutte, Cristiano Ronaldo.
Senza parlare poi della gestione dei campioni bianconeri o piuttosto delle sconfitte, con il suo “bel giuoco” che sarà inevitabilmente una spada di Damocle pendente sul capo del tecnico.
Di tutto il resto, e cioè di Sarri visto come l’allenatore piangina del famoso scudetto perso in albergo a Firenze o del dito medio ai tifosi, non c’è invece da preoccuparsi: alla prima vittoria che darà allo Stadium la percezione di poter vincere tutto, ogni cosa sarà dimenticata. Compresa la sensazione di impaccio nel desiderare ed apprezzare ora ciò che sino ad un anno prima si era ferocemente disprezzato.
E, a tal proposito, chissà se l’arrivo di un allenatore partenopeo sulla panchina bianconera riuscirà a fermare gli odiosi cori contro Napoli ed i napoletani cui spesso ci hanno abituato i tifosi juventini; e chissà, di rimando, se in caso di cori discriminatori Sarri seguirà l’esempio del suo predecessore scrollandosi le spalle davanti ai microfoni oppure reagirà alla sua maniera.
Tra le vicissitudini dei personaggi, le loro crisi e le loro trasformazioni, nell’esatto mezzo c’è però lo spettacolo di una storia che arricchirà ancor di più la narrazione del prossimo campionato di Serie A. E con i calendari ancora da stilare, la data da segnare anticipatamente in rosso – per i mille e più motivi descritti – sarà quella del ritorno al San Paolo di Sarri come avversario.

Classe 1988, laureato in Giurisprudenza, consulente. Ad un passo dell’addio al calcio tifato, è arrivato Guardiola a scombussolarlo e a farlo sentire come un pallone calciato al volo da Ibrahimovic all’incrocio. A scuola, nell’ora di educazione fisica dovrebbero leggere Cruyff.