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Strade Bianche: The dirt roads of Tuscany | Crampi Sportivi

Strade Bianche: The dirt roads of Tuscany

Le classiche monumento sono sei.

Non date retta a chi vi dice cinque. A chi dice che non ci sono abbastanza chilometri, abbastanza anni di tradizione, abbastanza punti in classifica: la Strade Bianche è sì giovane, ma abbastanza spettacolare da non aver nulla da invidiare a nessuna altra gara, anche se non tutti lo sanno.

Non ancora.

Certo, nell’immaginario collettivo degli appassionati niente può arrivare a competere con i muur del Fiandre, o con i settori in pavé della Roubaix.

Il muro di Sormano e la Madonna del Ghisallo, regalano alla Lombardia un fascino immutato da sessant’anni. Vedere i ciclisti arrancare sul Koppenberg, magari sotto la pioggia, le ruote andare a vuoto sui ciottoli scivolosi, vederli poggiare piede a terra, infine caricarsi la bici in spalla e correre ricurvi sotto quei quasi sette chili di carbonio, mette sempre i brividi.



Mette i brividi l’inquadratura da lontano, in piano orizzontale, del tratto di strada polveroso del Carrefour de l’Arbre, tutto intorno marrone di terra e ancora più in là verde di prato ed alberi, e in mezzo due strisce parallele di gente sbracciante, separate da un paio di metri, non di più, di pietre dissestate: soltanto dopo un po’ capisci che quei puntini che si muovono nel mezzo sono dei ragazzi che pedalano, dei pazzi che indossano una maschera di fango e digrignano i denti.

Con il loro cardiofrequenzimetro che segna centottanta, centonovanta.



In mancanza di questi mostri sacri, universalmente riconosciuti nella storia del ciclismo, nella Strade Bianche bisogna accontentarsi, se proprio volete fare lo sforzo, di vallate e colline che non sono proprio qualsiasi;

di vitigni, viali di querce e cipressi. Di medievali sedi di battaglie e pellegrinaggi, di insediamenti etruschi e dell’antica Roma.

Di paesaggi grigiazzurri e lunari: è attraverso tutto ciò che si dirama questa gara di quasi duecento chilometri, di cui una sessantina sugli sterri, che gira intorno alla provincia di Siena, e sembra un’ostentazione della cultura, delle tradizioni, della bellezza della nostra vita.

Farne un elenco così, rinfacciando al mondo uno dopo l’altro nomi come via Francigena, Val d’Orcia, Valdichiana, Brunello di Montalcino, Chianti e tartufi bianchi, Crete Senesi, biancane e calanchi, potrebbe sembrare una réclame al buon vivere italiano.

E invece stiamo parlando di una gara per ciclisti professionisti, e quegli atleti che vediamo pedalare lungo le colline toscane non sono in vacanza alla ricerca di un agriturismo, ma fanno una fatica enorme e tengono dei ritmi impressionanti: solitamente, una media di circa 37 chilometri all’ora.

Chilometro dopo chilometro, per più di cinque ore, spingono lungo strappi mostruosi e tratti di sterrato (più o meno sessanta chilometri, leggermente variabili nelle varie edizioni, di strada non asfaltata) ad una velocità che noi nemmeno con la Vespa riusciremmo a tenere.

Ovviamente, la bellezza del paesaggio non è abbastanza per definirla un monumento.

Né può valere la pubblicità dell’ente del turismo locale.

Ma immaginate di partire da Siena, un sabato mattina, a fare un giretto in bici con l’obiettivo di ritornare in città nel pomeriggio. Di muovere verso sud, affrontando subito, uno dopo l’altro, uno-due-tre-quattro tratti di sterrato: “Vidritta”, “Bagnaia”, “Radi”, “La Piana”.

Certo, non hanno i nomi esotici che siamo abituati a sentire in televisione, non stai scalando il Paterberg, né la leggendaria Foresta di Arenberg, che fa tremare le gambe soltanto a sentirla nominare.

Eddy Merckx da queste parti non ci ha mai vinto nulla – o forse no, aspetta, Eddy ha vinto dappertutto, anche in posti che nemmeno lui conosce!

Però al sessantesimo chilometro ne hai già fatti diciotto senza asfalto, e se durante questi primi cento minuti di gara sei stato fortunato a non bucare, a non cadere, a non rompere la bici in alcun modo, a non trovarti già irrimediabilmente staccato da un gruppo indemoniato, inizierai pure a salire verso Montalcino: una salita vera, à la Col du Rosier per intenderci.

Cinque chilometri pendenti lungo la Provinciale del Brunello, cinque chilometri anche emozionanti quando inizi a vedere in alto quell’abitato così riconoscibile, e dietro, i panorami indicibili della Val d’Orcia.

Tutto diventa ancora più emozionante, se in passato ti è capitato di berne qualche bottiglia ed ora pensi che stai attraversando proprio quei vitigni lì.

A Montalcino non hai nemmeno il tempo di rifiatare, figurati bere un bicchiere: riprendi subito a pedalare, a martellare forte giù in discesa, in vista di due settori interminabili.

“Lucignano d’Asso” e “Pieve a Salti” fanno insieme venti chilometri di sterrato, una roba massacrante, quasi un’ora di sforzo massimo per lasciarteli alle spalle.

E poi di nuovo verso nord, che sei soltanto a metà gara: da Buonconvento fino a Monteroni, e poi altri venti chilometri di sterrato nei settori sette e otto.

“San Martino in Grania”, quello delle Crete Senesi, e dopo poco “Monte Sante Marie”, il più duro in assoluto, quello dalle cinque stelle di difficoltà: non solo lo sterrato, ma pure in salita a scalare un monte!

Poi, per chi è ancora vivo, per chi non si è ritirato ed è ancora in mezzo a quel gruppo di pazzi da legare, per chi non è scappato via in lacrime in cerca della mamma, inizia finalmente la vera e propria gara dura.

Sì, avete letto bene.

Sono gli ultimi quaranta chilometri, quelli decisivi. Le eventuali fughe di giornata, se fossero ancora accese, vanno assolutamente annullate, ed il ritmo deve necessariamente salire.

Iniziano gli scatti, si forza l’andatura.

I nomi importanti sono tutti lì, davanti: per citarne qualcuno di quelli che negli ultimi anni hanno lottato per la vittoria: Sagan, Valverde, Kwiatkowski, Cancellara, Van Avermaet.

Campioni del mondo, campioni olimpici; soltanto gente di questo calibro può fare la differenza su questi terreni.

Torre a Castello, Castelnuovo Berardenga, San Piero: bevuti tutti di fila, e poi i tratti brevi ma durissimi in sterrato.

“Monteaperti” che sale al 10% e poi “Colle Pinzuto” fino al 15%.

Non saranno Cipressa e Poggio, ma insomma.

Da qui Siena potrebbe già essere scorta, alzando la testa e sbirciando dietro le colline, in linea d’aria saranno sette-otto chilometri: ma i ciclisti non lo sanno, non ci pensano, non hanno neppure la forza di alzarla la testa. Hanno ancora venti chilometri da pedalare, fanno il giro largo, disegnano un semicerchio in senso antiorario per poter entrare in città da ovest.

Vanno ad affrontare, perché no, l’ultimo settore in sterrato, il chilometro denominato “Le Tolfe”, e una volta entrati a Siena arrampicano su per tutto il centro storico, prendendo la via Esterna di Fontebranda che sale fino al 10%, superano la flamme rouge e quando entrano dalla porta a doppio arco del XIII secolo, si accorgono di dover anche pedalare gli ultimi ottocento metri sul lastricato.

Al bivio vanno a sinistra, per via Santa Caterina, che sembra assurdo ma impenna e stringe ancora di più. La folla a questo punto, l’intera città che si è riversata in strada, è già più che impazzita.

I ciclisti passano lì, in mezzo a loro, a pochi centimetri, svuotati di ogni umana energia ed ancora in grado di reggersi in sella dio-solo-sa-grazie-a-quale-miracolo della tempra: a 500 metri dall’arrivo la gara raggiunge il suo acme.

La pendenza è del 16%, e la curva a destra sembrerebbe una liberazione, ma nasconde la più grande delle insidie: guai a distrarti, a sentirti sollevato, adesso la cosa difficile, specialmente se dovesse essere bagnato, è restare in equilibrio.

Inizia una picchiata in discesa, ancora parecchie curve, verso il traguardo.

A questo punto i ciclisti sono separati, uno per uno, non esiste gruppo non esistono gruppetti. Quando raramente sono rimasti in due o tre, inizia tra di loro un’altra gara, che sembra più di motociclismo che di ciclismo: diventa fondamentale impostare una traiettoria perfetta, trovare la corda di ogni curva e chiudere gli spazi, dare spallate se necessario.

L’ultima curva, e sei all’improvviso in una Piazza del Campo gremita.

L’avete immaginato? Ecco, non era un sogno o una storiella inventata: è un rito che si ripete ogni anno, da tredici anni, ai primi di marzo. Signori: la Strade Bianche, la sesta Classica Monumento.



Approfondimento a cura di Marco Baldassarre

CREDIT PHOTO: oasport

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