Nella parte della Florida che guarda al Mar dei Caraibi, più o meno a metà della penisola, c’è un’importante baia che prende il nome dalla città più popolosa che vi sorge, Tampa. Tampa è grande più o meno come Firenze, gemellata con Agrigento, e insieme a St. Petersburg ospita le squadre che si attribuiscono il nome di Tampa Bay Lightning (NHL, sede a Tampa), Tampa Bay Rays (MLB, St. Petersburg) e Tampa Bay Buccaneers (NFL, Tampa). Si sa, il 2020 è stato un anno a parte, con tutto quello che ne consegue, ma quello che abbiamo visto nella baia di Tampa dall’inizio della pandemia ad oggi non ha semplicemente dell’incredibile, no. Qui si entra a pieno diritto nel campo del sovrannaturale.
POST FATA RESURGO (Roberto Gennari)

Il mito della fenice, in tutte le sue varie declinazioni, ha origine – pare – nell’antico Egitto. Quella che noi chiamiamo l’araba fenice, un uccello simile all’aquila reale e capace di risorgere dalle proprie ceneri, è una delle metafore più significative perché rappresenta al meglio la più grande aspirazione del genere umano: risorgere dalle fiamme, dalla caduta, dalle sconfitte.
I Tampa Bay Lightning sono stati fondati nel 1992, quando l’NHL decise che 22 squadre erano un po’ pochine e si sarebbe potuti passare a 24 – attualmente sono 31, ma passeranno a 32 dal prossimo anno con l’aggiunta di una squadra a Seattle. Il 1993 è stato l’ultimo anno in cui una squadra canadese (i Montreal Canadiens, tuttora la squadra più vincente) ha vinto la Stanley Cup, ad oggi. I Bolts arrivano in un tempo tutto sommato breve al primo titolo della loro storia nel 2004, quando sconfiggono in una tesissima gara-7 i Calgary Flames, guidati dai canadesi Dave Andreychuk e Brad Richards e dal giovane coach John Tortorella.
Perdono una finale di Stanley Cup 11 anni dopo la prima, sconfitti 4-2 dai Chicago Blackhawks, al loro terzo titolo in sei anni. Fin qui tutto abbastanza nella norma. La parte davvero mitologica della storia dei Lightning è nelle ultime tre stagioni. Dopo aver mancato i playoff l’anno precedente, una squadra guidata dallo stesso pacchetto di giocatori chiave + head coach chiude in testa alla Eastern Conference, facendosi poi sbattere la porta in faccia dell’accesso alle finali dai Washington Capitals al termine di una serie strepitosa, in cui Tampa Bay va prima sotto 2-0 perdendo due partite in casa, poi passa a condurre 3-2 vincendone due fuori e infine crolla letteralmente sul più bello, perdendo gara-6 per 3-0 e gara-7 addirittura per 4-0 in casa.
Quello che poteva sembrare un mezzo psicodramma nel 2018, diventa una morte nera nella stagione successiva: i Lightning chiudono la regular season con la bellezza di 128 punti, primi di tutta la NHL, miglior punteggio degli ultimi 23 anni, quarto di sempre, per poi finire eliminati con un secco 4-0 al primo turno da Columbus, che in stagione regolare aveva fatto ben 30 punti in meno.
Ed arriviamo così al presente, con la stagione sospesa per la pandemia a metà marzo, ripresa il primo agosto direttamente coi play-off nelle due sole città di Toronto ed Edmonton (dove si è poi giocata la serie finale di Stanley Cup), con una formula abbastanza cervellotica per cui ad esempio St. Louis, campione uscente e in testa alla Western Conference al momento dello stop, al termine di un mini-round robin tra le prime quattro della Conference si è beccata la testa di serie numero 4, così come Boston nella Eastern, passata da miglior squadra della NHL in regular season a testa di serie numero 4 ad Est.
I Lightning, che dopo le ultime due débacle in molti avevano già etichettato come squadra da regular season, chiudono la regular al secondo posto e trovano ad attenderli, al primo turno dei playoff. Proprio quei Columbus Blue Jacket che l’anno prima li avevano messi in ridicolo di fronte all’intero mondo dell’Hockey su ghiaccio. La prima partita della serie è già for the ages: i Lightning vanno sotto 1-0, poi 2-1, pareggiano in apertura di terzo periodo e vincono 3-2 al QUINTO overtime, una delle partite più lunghe della storia della NHL. I fantasmi dell’anno prima vengono esorcizzati dal gol da fuori di Brayden Point, i Blue Jackets vengono eliminati in cinque gare e identica sorte tocca ai Boston Bruins, che vincono gara-1 e poi ne perdono quattro consecutive di cui due all’overtime.
Tra Tampa Bay e la terza finale della loro storia ci sono solo i New York Islanders, che però vanno subito sotto 2-0 e vengono eliminati in sei partite. A contendere la Stanley Cup a Tampa Bay ci sono i Dallas Stars, forse la squadra con la filosofia di gioco più distante da quella dei Lightning. Tanto Tampa Bay è devastante in attacco (245 gol, primi di tutta la NHL), Quanto Dallas è una squadra arcigna (177 gol subiti, secondi in NHL, a fronte di “appena” 180 gol segnati, 29esimi su 31). È in questo scontro tra filosofie di gioco opposte che si vedrà davvero di che pasta sono fatti i ragazzi di coach Cooper.
In stagione regolare Dallas ha vinto entrambe le sfide, dimostrando di essere un brutto cliente per Tampa Bay perché non gli lascia sviluppare il proprio gioco, e anche la prima partita delle finali sembra dimostrare questa tendenza. Grande attacco contro grande difesa? La spunta la grande difesa con un secco 4-1. Ancora una volta Tampa Bay sulla graticola, ancora una volta il dream team composto da capitan Stamkos (a dire il vero assente per quasi tutti i playoff), Kucherov, Point, Hedman e dal portiere Vasilevskiy sembra non reggere la pressione.
Ma Tampa Bay ha già affrontato e sconfitto i suoi fantasmi, i giocatori lo sanno, il coach lo sa, e quando in gara-2 i Lightning segnano tre gol in cinque minuti nel primo periodo sentono che è il momento di ravvivare la fiamma, è tempo che l’araba fenice risorga. Vincono gara-2, poi gara-3 (col ritorno con gol di Stamkos) e gara-4, e anche se Dallas ha un sussulto d’orgoglio che gli permette di riacciuffare gara-5 nel terzo periodo e vincerla al supplementare, Tampa Bay sa di avere azzannato la giugulare dell’avversario. Gara-6 è a senso unico, il 2-0 con cui si chiude la contesa porta la Stanley Cup verso la Florida, il 28 settembre del 2020. Post fata resurgo.

LO ZAMPINO DEL DIAVOLO. (Roberto Gennari)

Mentre la Stanley Cup viaggiava da Edmonton a Tampa Bay, la brevissima stagione (60 partite contro le “tradizionali” 162) della MLB era appena terminata, e in testa alla American League c’erano i Tampa Bay Rays del giovane manager Kevin Cash, capaci di acciuffare un posto in post-season già nella stagione precedente, in cui chiusero con un notevole 96-66, una sola vittoria in meno del record di franchigia, ottenuto nel 2008 quando i Rays avevano appena cambiato nome dopo dieci stagioni dimenticabili come Devil Rays, costantemente in fondo alla American League East. Nell’insolito (per la MLB) tabellone a otto squadre, i ragazzi si prendono lo scalpo dei Blue Jays al primo turno (2-0), dei sempre temibilissimi New York Yankees vincendo gara-5 per 2-1 grazie a due fuoricampo al quinto e all’ottavo inning, aggiudicandosi la American League in sette partite contro gli Houston Astros dopo averli fatti rientrare dal 3-0 al 3-3, per arrivare alle seconde World Series della loro storia contro l’unica squadra che aveva vinto più partite di loro, quei Los Angeles Dodgers che per l’ottavo anno consecutivo approdavano alla postseason (terza striscia più lunga di sempre in MLB, dove in postseason vanno veramente in pochi) ed erano alla terza World Series in quattro anni. Avevano perso le prime due, una contro gli Astros e una contro i Red Sox, e questo faceva di loro non solo l’avversario più forte che potessero incontrare, ma anche quello più agguerrito. E tuttavia, siamo al 24 ottobre quando la serie tra Tampa Bay e Los Angeles è ancora in equilibrio sul 2-2, quando i Dodgers perdono gara-4 con uno dei finali più incredibili di sempre, avanti 7-6 e ad un solo strike dalla vittoria.
C’è però il diavolo ad intromettersi, evidentemente non contento di essere stato cancellato dal nome della franchigia: nelle due partite successive i Dodgers prendono il largo e si aggiudicano, meritatamente e in 6 partite, il loro settimo titolo, il primo in 32 anni, dopo quello del 1988, quando vinsero le World Series nello stesso anno in cui Magic Johnson e Kareem Abdul-Jabbar vinsero il loro ultimo campionato NBA insieme, in maglia Los Angeles Lakers (a proposito: chi ha vinto il titolo NBA quest’anno?). Poteva essere una storica doppietta in un mese per la baia della Florida, ma come nel 2008, il titolo della MLB non prende la strada di St. Petersburg: ancora una volta il diavolo ci ha messo lo zampino.

METAUMANO (Luca Amorosi)

“Quando vedi Tom Brady entrare in campo per il riscaldamento, senti come una forza d’attrazione che ti attira a lui. Lo vedi che va a salutare i pochi tifosi già presenti sugli spalti, avverti il carisma e l’aura che emana a ogni suo gesto. È una marea che solleva tutti, che ti travolge”. Queste, grosso modo, le parole, in un italiano ormai arrugginito da anni di permanenza negli States, del nostro Giorgio Tavecchio, kicker NFL oggi free agent ma con un passato soprattutto tra Falcons e Raiders, per rendere l’idea di cosa sia TB12 nel mondo del football: qualcosa che va oltre il tangibile e l’umano. Un’entità astratta, una forza invisibile quasi prima che un uomo, un atleta, un quarterback.
I suoi inizi, la sua longevità, le sue vittorie e l’adorazione trasversale che riscuote in America lo innalzano quasi al livello di una divinità, anche perché si fa onestamente fatica a considerarlo un semplice essere umano ora che ha appena vinto, 19 anni dopo il suo primo successo (è il record di anni passati tra il primo e l’ultimo successo di un atleta nella storia degli sport americani), il settimo Super Bowl della sua carriera, più di ogni altra franchigia nella storia. Sì, avete letto bene, ha vinto più lui come singolo giocatore che un’intera squadra: calcolo facile da fare, visto che i Patriots, il team più vincente insieme ai Pittsburgh Steelers, ne hanno vinti sei tutti con lui e poi il buon Tom ne ha aggiunto uno alla collezione proprio ora a Tampa Bay.
In un recentissimo sondaggio su chi sia il “Greatest of All Time”, in 20 stati USA ha prevalso il suo nome, primo quindi davanti ad altri semidei come Michael Jordan e LeBron James, e davanti per distacco nei confronti di altri pariruolo come Peyton Manning, Aaron Rodgers o il mitico Joe Montana. E pensare che tutta questa storia avrebbe potuto avere ripercussioni colossali se nel 1995, ad appena 18 anni, avesse accettato la chiamata dei Montreal Expos al draft della MLB di baseball, l’altro sport che praticava ai tempi della high school.
Ma lui era come se sapesse già che avrebbe avuto un destino abbagliante (luminoso è poco) con la palla da football: di lui si dice che passasse le giornate a studiare schemi e riguardare filmati di vecchie partite, per cui non sorprende la scelta di andare, invece, ai Wolverines, squadra di football dell’Università del Michigan, partendo in fondo alle gerarchie e scalandole con la sua dedizione e la sua intelligenza proprio come farà poi tra i “grandi”.
Non sapete chi è Giovanni Carmazzi, vero? Be’, nemmeno noi… Si sa solo che è stato un quarterback che non ha giocato nemmeno una partita in NFL ed è stato scelto 136 chiamate prima di Brady nell’ormai celebre draft del 2000. Questo per dirvi che no, Brady non è mai stato un predestinato, anzi forse la sua forza è stata proprio quella di essere una specie di divinità sotto spoglie umane. “È sveglio e intelligente, ha caratteristiche da leader, però è anche smilzo, senza presenza e forza fisica, con scarsa mobilità e in difficoltà a improvvisare”. Questo, più o meno, dicevano i report degli scout al tempo del draft.
Ma i giganti dentro di sé sanno di esserlo (o che lo saranno) ed ecco quindi che quando si presentò a Robert Kraft, proprietario dei Patriots, in merito alla sua pick gli disse: “È la decisione migliore che poteste prendere”. Come dargli torto… Non lo possono fare più nemmeno i suoi ultimissimi detrattori, quelli che davano gran parte del merito dei suoi successi all’head coach dei Pats, Bill Belichick. Tom si è separato da Bill forse anche per questo, per dimostrare di poter vincere anche in un contesto diverso, fuori da quella che era ormai la sua comfort zone. Risultato? Patriots nemmeno ai playoff dopo dodici anni e Buccaneers, assenti dalla post-season da tredici stagioni, vincitori del titolo.
Badate bene, i Bucs non erano certo la squadretta che si vuole fare credere, tutt’altro: il roster a disposizione di coach Arians era di ottimo valore in ogni reparto, ma in pochi pensavano che Brady, alla sua prima stagione in una nuova franchigia a 43 anni suonati, potesse arrivare fino in fondo e a riportare il titolo a Tampa, avendo la meglio sui Saints di Drew Brees, sui Packers di Aaron Rodgers e poi sui campioni in carica dei Chiefs di Pat Mahomes, suo erede designato. Lo ha fatto come un messia che guida i suoi discepoli al successo, accompagnandoli nella strada giusta ed ergendosi a guida carismatica del gruppo con la sua abnegazione e la sua serietà professionale.
Perché ancora oggi, dopo tutto quello che ha vinto, Brady ogni giorno si alza alle 5.30 del mattino, fa dalle 4 alle 5 ore di allenamento, cui aggiunge quasi due ore di visione di filmati, e va a letto alle 8.30 di sera. Ogni tanto scende sulla terra e sembra avere sembianze umane, come in occasione della festa in barca dei Bucs per il titolo, dove era palesemente ubriaco ma altrimenti nulla è lasciato al caso, neppure l’acqua da bere, rigorosamente elettrolitica. Tutto in funzione della sua fame di successo e dell’ossessione per la perfezione, quella riservata solo alle divinità. Tampa ringrazia con venerazione e si gode un anno sportivo miracoloso.


Lo sport raccontato dal divano, Zidane e Rodman a cena dal Professor Heidegger.