25 marzo 1928. Risale ad oltre novant’anni fa la prima cronaca, via radio, di una partita di calcio in Italia
Si trattava di Italia-Ungheria, si giocava al Flaminio di Roma (all’epoca “Stadio di Roma Imperiale”), e gli occhi e la voce offerta agli audioascoltatori in quei 90′ furono quelli di Giuseppe Fioretti Sabelli.
Attraverso la sua voce, e col supporto di “una mappa” del campo di gioco diviso in quadranti immaginari per seguire più agevolmente lo sviluppo dell’azione, gli ascoltatori assistettero ad un’emozionante vittoria degli azzurri contro i magiari: un 4-3 a firma di Conti, Rossetti e Libonatti.
Il gol della vittoria, che arrivò a soli cinque minuti dalla fine, fece esplodere non solo i fortunati 32.000 presenti sulle tribune dello stadio, ma un Paese intero. Collegati sulla trasmissione radio, infatti, vi erano oltre 4.0000 persone.
Il calcio entrava così per la prima volta direttamente nelle case degli italiani, e, visto il picco di ascolti, l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche per precauzione decise che da quel momento avrebbe raccontato solo la nazionale, “perché altrimenti si correva il rischio che nessuno più sarebbe andato allo stadio” (sic!).

Solo nel 1932 sarebbe arrivato poi Nicolò Carosio, The Voice, col suo archetipo di telecronaca austera e asciutta, cadenzata e carismatica, ma a tratti anche rocambolesca, con neologismi come “traversone” o espressioni immaginifiche come “quasi gol”. La sua eredità, tutt’ora fortissima forse anche grazie ai due mondiali vinti con lui in postazione commento, lo rende senza dubbio il capostipite dei telecronisti italiani.
Da allora, l’avvento della televisione prima, la spettacolarizzazione dell’evento calcistico poi, ed infine la sua recente ultra-tecnologizzazione (replay, statistiche in sovraimpressione sempre più evolute ed intuitive, interattività dello spettatore, social network, utilizzo live della computer grafica) hanno tuttavia finito per relegare il telecronista al ruolo surreale (e superfluo) di “testimone della realtà”.
Una figura cioè deputata a confermare che tutto quello a cui lo spettatore assiste sta accadendo per davvero, in quel preciso istante e sotto i propri occhi.
Se prima degli anni ’50 infatti, la voce del radiocronista serviva a sopperire all’assenza di immagini e faceva da diaframma tra lo spettatore ed una dimensione nebulosa di eventi, nell’attuale pacchetto di show entertainment pensato per il calcio in tv come un’esperienza ad alta definizione, non c’è informazione – semplice o complessa – cui lo spettatore non possa aver accesso in via del tutto autonoma prima, durante o dopo il match.
E soprattutto, a prescindere dal contributo del cronista, ridotto a ventriloquo di se stesso, ogni frame della partita è offerto in HD con una copertura visiva degna di un Grande Fratello.
Privata dunque della sua funzione pedagogico-illustrativa, quale futuro per la telecronaca calcistica? E più diffusamente: c’è ancora margine per considerare la telecronaca fondamentale per un qualsiasi evento sportivo?
Ad entrambe le domande si può rispondere positivamente, basti anche solo pensare allo sviluppo delle telecronache d’oltremanica, in grado da subito di adattarsi ai nuovi canoni del modello televisivo.
Prendendo spunto dallo stile dei colleghi dell’atletica leggera, eccone i tratti salienti: nessuna pretesa di scavalcare le immagini con le parole, modulazione dell’enfasi nel rispetto dei momenti topici dei match, riduzione al minimo di urla smodate e (ovviamente) tanto stile british.
Venendo invece a noi, l’esperienza telecronistica del Bel Paese si pone esattamente agli antipodi con quella britannica; con uno stile attualmente tra il didascalico ed il naif.
Incapace di rinnovarsi secondo i registri narrativi richiesti per un qualsiasi evento sportivo (ludico, emotivo, ma anche educativo e descrittivo), negli ultimi anni la stessa si è infatti piegata ad isterici personalismi pur di mantenere una sua residua ragion d’essere.
Ed il confronto è impietoso.
Da questo grande, enorme equivoco (la “telecronaca personalizzante“) si sono poi generate le peggiori storture che ben conosciamo (e di cui siamo rimasti più o meno tutti vittime): dal piattume da soliloquio ermetico-intimista, alla corsa al tormentone in cui ogni azione diviene “incredibile!” oppure ogni giocatore diventa “proprio lui!“;
un commento da horror vacui in cui ogni momento è buono per ficcarci dentro freddi numeri, statistiche, amarcord, oppure aneddoti totalmente slegati dal contesto partita. Piuttosto che una telecronaca dai grandi momenti di alleggerimento, quasi a dimenticarsi che il proprio interlocutore non è il collega in cabina ma il pubblico a casa.
Insomma, si tratta per lo più di una telecronaca schiava degli eventi, degli episodi, dei momenti apicali di un match. Non aggiunge né impreziosisce, con l’unico fine (e speranza) di raccontare gol, risultato finale, polemiche arbitrali o ogni altro accadimento che ne giustifichi l’esistenza.
Nel mezzo, alcuni lampi che tuttavia non bastano ad evitare un giudizio decisamente negativo.
Ma se è vero che ormai in tutto il mondo e per tutti gli sport l’insoddisfacente format della “partita one-shot” cede il passo alla concezione di evento sportivo vissuto come esperienza, è necessario anche qui in Italia svecchiare l’arte della telecronaca. E per farlo, non occorre andare così lontani: basta attingere a piene mani con esempi virtuosi contemporanei e alcuni maestri del passato recente (ma dall’incredibile modernità).
L’emozione non ha voce
Il primo pilastro della “telecronaca moderna” è senza dubbio la gestione intelligente dei momenti topici.
Gestione che avviene raramente con parole o frasi lunghe, molto più spesso con silenzi o pause che ne sottolineano la sacralità. É l’offerta del gesto tecnico nudo e puro, con un intervento marginale, genuino, finalizzato a creare empatia tra lo spettatore e l’atleta. Il telecronista in questo caso è uno stargate tra due realtà che si attiva proprio facendo partecipe il pubblico della propria esperienza emotiva del momento.
Oltremanica, questo è uno stile già in voga da diversi anni anche in ambito calcistico, ed in un certo senso non scopriamo niente; ma riscoprirne l’uso che ne faceva già vent’anni fa un Maestro come Bruno Pizzul è sorprendente.
L’incipit della sua telecronaca ad Euro 2000 è un incantesimo capace in un attimo di proiettarci al fianco dei tiratori azzurri a centrocampo. A rifinire il tutto, la sua innata classe lessicale, da cui traspare ovviamente il tifo per l’Italia ma mai un tifo contro l’Olanda.
Chapeau.
Assecondare la Storia… come un aquilone
Emblema più alto delle telecronache di stampo latino, quella di Victor Hugo Morales sul “gol del secolo” è più vicina ad un’invocazione letteraria che ad una cronaca.
Rimane pertanto irripetibile, così come lo erano il contesto storico, sociale e sportivo in cui è maturata; ma nel mezzo di una partita da incidente diplomatico, solo la sua genialità (Maradona “l’aquilone cosmico“), la sua eleganza (“Grazie Dio per il fùtbol, per Maradona, per queste lacrime“), la sua poetica (“Il Paese ora è un unico pugno chiuso urlando ‘Per l’Argentina!‘”) l’hanno consegnato alla storia.
Il suo un inno al gioco del calcio, unito ovviamente alla straordinario gesto tecnico di Maradona. Ha saputo cogliere e rendere unico un momento. É ciò che significa restituire allo spettatore un’esperienza che vorrà ripetere.
Entrare ed uscire dall’evento
Probabilmente l’esperienza telecronistica più in linea con gli attuali canoni di show entertainment l’ha offerta il duo Tranquillo-Buffa.
Per proprietà di linguaggio e conoscenza (azzardabile, addirittura “confidenza”) sportiva, il loro principale pregio è sicuramente quello di entrare ed uscire dall’evento in qualsiasi istante preferiscono, offrendo allo spettatore ogni volta uno spaccato diverso e totalmente inedito della partita, di uno dei suoi protagonisti sul campo o di un suo protagonista fuori dal campo.
L’esempio tratto dal video è quel “Non lo vedevo così incazzato dai tempi di Shining“, detto così, con naturalezza ad un arrabbiato Jack Nicholson in tribuna oppure la parentesi sugli esordi di Kobe Bryant a Bologna: tutto mentre la partita scorre sotto gli occhi di tutti. Tanto è lì, evidente a tutti ciò che sta accadendo, ma al tempo stesso è impossibile distogliere l’attenzione anche dal canale audio.
Con loro due ogni partita è il preludio della prossima; la rendono speciale, creano aspettativa, pathos, persino dipendenza: danno vita ad una narrazione come fa uno scrittore. Non è semplice commento, il loro è un esperimento più vicino alla letteratura di quanto non possa sembrare.
Ed è riuscito perfettamente.
Nell’esclusivo albo dei cronisti-narratori rientra a pieno titolo anche Guido Meda.
Tuttavia, i suoi meriti l’hanno portato un piccolo passo oltre i sopracitati Tranquillo-Buffa: Meda infatti ha creato dal nulla uno stile unico per raccontare le corse motociclistiche. Uno stile, coi suoi registri, la propria enfasi, i propri tormentoni che prima non esisteva, e che pertanto ha finito per identificarlo profondamente con questo sport.
Al punto che oggi come oggi è impossibile immaginarsi un dopo-Meda per le gesta di Rossi, Marquez e Dovizioso.
Se n’è accorta infatti subito Sky, che dopo un anno dall’acquisto dei relativi diritti tv lo ha strappato a Mediaset e gli ha affidato il ruolo di prima voce ufficiale, retrocedendo il povero Zoran Filicic alle categorie minori.
Il motivo del suo successo è semplice: ha saputo negli anni far diventare la MotoGP uno sport popolare (volgarmente, “di massa”) inventandone un linguaggio diretto, liberatorio, d’impatto (“Rossi c’è!”, “gas a martello!“, “mannaggia mannaggia!” e così via) che ha riempito di significato ed emozioni un’epifania motoristica che, se mal veicolata, avrebbe finito per far passare i piloti come dei pazzi invasati che girano su bolidi imbottiti di elettronica e se ne danno di santa ragione ogni domenica.
Più valori e meno politically correct
É il caso questo di Massimo Marianella, probabilmente il profilo più vicino ai canoni telecronistici britannici, e non a caso voce principale di Sky per Premier League e calcio internazionale.
In postazione telecronaca sono diventati celebri sono i suoi tributi a calciatori sublimi come Henry o Drogba, ma anche sacrosante sfuriate come quella riservata a Joey Barton nel caso del calcione rifilato ad Aguero a gioco fermo.
La sua telecronaca è caratterizzata da una innata genuinità che restituisce allo spettatore motivi per stupirsi, dettagli da notare, valori da seguire, è una telecronaca per certi aspetti libera, propria di chi in prima persona si sta godendo lo spettacolo e vuole farne godere anche lo spettatore.
L’inclusività, punto forte di Marianella e concettualmente lontana anni luce dalla foga narrativa “populistica” cui spesso assistiamo, è sicuramente il tratto principale della telecronaca moderna cui vorremmo presto abituarci, e a cui sentiamo francamente di essere pronti.

Classe 1988, laureato in Giurisprudenza, consulente. Ad un passo dell’addio al calcio tifato, è arrivato Guardiola a scombussolarlo e a farlo sentire come un pallone calciato al volo da Ibrahimovic all’incrocio. A scuola, nell’ora di educazione fisica dovrebbero leggere Cruyff.