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The last words on The Last Dance - Crampi Sportivi

The last words on The Last Dance

In questi tempi di pandemia, fra i tanti cambiamenti uno è stato quello relativo allo sport, che si è (quasi) totalmente fermato. Via le competizioni ufficiali a tempo indeterminato, per gli appassionati sono rimasti il recupero nostalgico e gli approfondimenti. E in questo quadro è arrivata la boccata d’aria di The Last Dance: erano in tanti ad attendere il documentario che questa estate avrebbe mostrato il meglio e il peggio dell’ultima stagione dell’era Jordan, ripercorrendo le gesta dei Bulls del secondo Three-Peat. L’anticipo della sua uscita ha permesso di allietare il periodo di quarantena (e a Netflix di registrare numeri ancora maggiori), catalizzando l’attenzione del mondo sportivo per le cinque giornate in cui sono state rilasciate, due alla volta, le dieci puntate della serie.
Ora che è terminato il superbo viaggio in quella stagione NBA 1997/1998, lo commentiamo nei suoi aspetti positivi e negativi con la redazione cestistica di Crampi Sportivi.


Claudio Pellecchia

Sono poche le cose, raccontate da “The Last Dance” che non sapevo. Diciamo pure nessuna. Giusto, forse, il dettaglio dei sette minuti a quarto post infortunio del 1986. Per il resto tutto già visto (e rivisto), letto (e riletto), sentito (e risentito). Eppure è stato come vedere, leggere e sentire per la prima volta, da un punto di vista privilegiato: quello dello spettatore di una Storia di cui è stato testimone anche se sul momento non se ne rendeva conto perché non poteva rendersene conto. E’ stato come osservarsi dall’esterno, un’esperienza extrasensoriale ed introspettiva allo stesso tempo, all’interno di prodotto unico e irripetibile anche del punto di vista narrativo: The Last Dance è stata la prima docu-serie che ha sdoganato il terrore dello spoiler del lunedì mattina come se fosse un “Game of Thrones” qualsiasi e nonostante tutti, ma proprio tutti, conoscessero il finale. Questo perché, a un certo punto, era diventato importante scoprire “come” e non “cosa” avrebbe raccontato, allo stesso modo in cui, di Jordan e quei Bulls, era divertente scoprire “come” avrebbero vinto, dal momento in cui il “se” non sembrava più essere un argomento di discussione. E nel mio sentirmi improvvisamente orfano di qualcosa che già sapevo sarebbe finito lasciandomi con quell’incolmabile sensazione di vuoto, mi consola il fatto che potrò andarmi a rivedere ogni volta che voglio l’episodio V, i primi dieci minuti dell’episodio IX (il meglio ogni epoca mai prodotto a livello di entertainment sportivo su grande e piccolo schermo), i due minuti con “Right Here Right Now” a fare da colonna sonora a gara-3 contro i Jazz, il pianto disperato dopo il titolo del 1996 a terra, abbracciato al pallone, quell’unica, piccola, concessione emotiva interrotta da quel “pausa” che condensa tutto ciò che ha significato essere il più grande di tutti i tempi.


Sebastiano Bucci

Ho potuto vivere l’epopea Bulls soltanto di rimando e solo di parecchi video tra vecchi Vhs, più nuovi Dvd e recentissimi BluRay.
Di fatto The Last Dance mi ha dato una buona idea di condensazione di quanto mi aspettassi di vedere sulla dinasty più vincente della storia delle maggiori leghe professionistiche americane.
Quello che è mancato a mio modo di vedere è proprio il basket: è chiaro che il prodotto fosse condizionato per far sì che risultasse appetibile a un pubblico di massa (e le torrenziali e unanimi lodi ricevute da Netflix confermano la strategia vincente) ma mi aspettavo che oltre al fenomeno pop formato dal binomio Bulls+Jordan si riuscisse a usare un focus più specifico sul Triangolo (per questo rimando sempre al fondamentale “More than a Game”, libro che tratta da parte di Phil Jackson i suoi primi anni losangelini) o evidenziare caratteriste e punti forti delle avversarie dei Tori (aspetto solo in parte approfondito coi Bad Boys di Detroit).
Questo omissis, da parte mia e in una visione che ammetto essere abbastanza obsoleta e elitaria, mi ha lasciato pregustare una torta dall’aspetto divino e giudicarla all’assaggio come molto buona.
Nessuna sbavatura, nessuna briciola.
Però visto che di basket piace parlare e di madeleine proustiane riempirmi le tasche, il ricordo di quella gara 6 vista su Tmc nella Hall buddista di mio nonno vicino Roma vale da solo il plauso per aver scatenato un dolce ricordo di aver partecipato, nel mio piccolissimo, alla Storia.


Luca Amorosi

Se c’è una cosa che The Last Dance è riuscita a trasmettere è la fame di vincere quasi animalesca di Michael Jordan: non solo la volontà di trionfare come squadra, ma anche di prevalere sul capobranco “nemico”, imponendosi, quindi, anche nello scontro personale, trovando o inventandosi sempre nuovi stimoli e nuove motivazioni per dedicare tutto se stesso al raggiungimento dell’obiettivo. Ne risulta una figura diversa da quella che, da profano o poco più, avevo ingenuamente idealizzato non avendo vissuto quegli anni in presa diretta: un compagno di squadra esigente e a tratti insopportabile, un avversario chiaramente scomodo e non solo per il talento sconfinato, un martello implacabile nei confronti di se stesso e degli altri… diciamolo pure: un discreto stronzo, uno che avrebbe fatto di tutto per vincere. Del resto, raramente sono i più buoni o i più simpatici quelli che, a giochi fatti, esultano. Oltre alla raffigurazione del mito, trovo azzeccati gli approfondimenti sui suoi principali compagni di avventura: il talento di Pippen sbocciato da condizioni di assoluta miseria; la storia tanto toccante quanto fieramente umana di Kerr; l’eccentricità disarmante di Rodman, che però quando contava faceva sul serio. E infine, concedetemelo: Present Tense dei Pearl Jam in chiusura è una chicca.


Massimiliano Venturini

Mi piace guardare le serie tv ma non sono uno che si lancia in maratone di episodi o che li divora non appena escono. L’unica eccezione a questa (non) abitudine è rappresentata da The Last Dance. Il lunedì, per 5 settimane, è stato il giorno che ho dedicato ai Bulls e soprattutto all’approfondimento del suo attore, è il caso di dirlo, principale: Michael Jordan. La mattina seguivo le videolezioni, pranzavo rapidamente e in un attimo ero perso tra le partite vinte da quella squadra in grado di conquistare l’anello NBA per ben 6 volte in 8 stagioni, con 2 three-peat.
The Last Dance è stato in grado di catalizzare l’attenzione di appassionati e non, rendendo un documentario la serie italiana più vista su Netflix. La forza di questo prodotto è testimoniata, oltre che dai numeri, anche dai dibattiti che è stato in grado di accendere, pur senza rivelare fatti che su internet non si potessero già trovare, come il contratto firmato da Pippen, che nella NBA di oggi appare ancora più sciagurato, passando per la controversa personalità di Rodman, fino ad arrivare ai problemi che i Bulls di un giovane Jordan avevano con le droghe.
La potenza mediatica di questa docu-serie ha trasformato quest’ultimo dettaglio riferito da Jordan in un’apparente divulgazione di un segreto, tanto che Craig Hodges, che ha giocato nei Bulls di MJ, ha dichiarato che le parole di His Airness lo hanno infastidito in quanto i suoi compagni di squadra ora dovranno renderne conto alle loro famiglie a causa di questo documentario. Tuttavia “l’abitudine” dei Bullls dei primi anni ‘80 era nota a molti appassionati in Italia grazie a Federico Buffa, e probabilmente non solo, che ne aveva parlato nel suo racconto su Jordan, eppure quando l’avvocato l’ha raccontata non aveva suscitato grandi clamori.
Se gli effetti sono chiari, la causa dell’enorme impatto di The Last Dance è, oltre al periodo in cui la serie è stata pubblicata, riconducibile allo sportivo che vedo raffigurato sulla linguetta ogni volta che, per la verità molto poche in questi giorni, mi allaccio le scarpe e penso che quando ha giocato la sua ultima partita io dovevo ancora compiere 2 anni.


Gianmarco Lotti

Non ho ancora visto The Last Dance ma in Space Jam Michael Jordan era bravino.


Massimiliano Chirico

Ho atteso The Last Dance come se dovesse essere una svolta, come il punto cruciale di una quarantena che sembrava infinita e che sarebbe probabilmente cambiata con l’inizio di una serie così speciale. Adesso posso dire che nessun grammo di tutta quell’attesa è stato vano e che il particolare che ricorderò per lungo tempo è senza dubbio il ritratto di Dennis Rodman.
Sono piuttosto indeciso, ad essere onesti: la giocata di Steve Kerr, la storia di suo padre e quello scambio di battute in panchina con MJ mi hanno folgorato e credo di esser tornato indietro quattro o cinque volte, solo per vedere Kerr che risponde “Mi farò trovare pronto”. Però Rodman è stato un viaggio a sè, la dimostrazione tangibile che nella vita bisogna sapersi valorizzare, capire bene cosa sai fare al meglio e perseguire quella strada. Dennis Rodman ha realizzato che poteva essere il cane da caccia del basket court, quello che corre come un pazzo, azzanna e annusa ogni cosa e poi va a prendere i rimbalzi e in quel momento, quando è diventato il migliore, ha capito che sarebbe potuto diventare qualsiasi cosa. Capelli improbabili, storie stravaganti, comportamenti altamente sopra le righe e tutto il contorno, magnificamente dipinto da The Last Dance, restano appunto un contorno e Phil Jackson lo sapeva bene.
Dennis Rodman poteva fare quello che gli pare, fino a poter giustificare una fuga di diversi giorni dicendo “Phil sa bene che ho bisogno di evadere”. L’importante è che uscisse sempre dal palazzo come quello che ha preso più rimbalzi, poi lì fuori poteva essere chiunque, anche un wrestler. Così è stato, fino alla fine.


Gianluca Viscogliosi

Potente. Non bella, non entusiasmante, non incredibile. Potente. The Last Dance è stata potente. Come il pugno di Ali a Foreman, come un tiro di Batistuta, come la falcata di Bolt. Potente perché non si parla di basket, ma di vita. La controllata follia di Rodman, l’equilibrio straordinario di coach Jackson, i turbamenti interiori di Pippen, lo struggente passato di Kerr. Non sono solo atleti ai massimi livelli, ma persone che portano sul parquet il loro vissuto. MJ è il motore di tutto questo movimento. Allo stesso tempo il più autentico e il più irreale dei personaggi. Irreale per talento, autentico per schiettezza. Vedere la fragilità e la sofferenza degli uomini oltre la grandezza degli atleti è stato, appunto, potente.


Giacomo Manini

I miei colleghi sono stati eccellenti nel delineare i tratti positivi e speciali della serie. Quindi mi autoarrogo il ruolo di guastafeste. Iniziamo col dire che non è un documentario, è un prodotto commerciale con pochissimo valore giornalistico. MJ e la NBA sono produttori, dunque l’immagine che ne deriva non è propriamente contraria al loro intento, per usare un eufemismo. Ho trovato, come scritto da Sebastiano, poco basket per gli appassionati del gioco (difficile scoprire cose nuove) e, aggiungo, troppo basket per i neofiti totali. L’accesso esclusivo della troupe per l’ultima stagione, mi è sembrato poco centrale, per la maggior parte degli episodi non si parla del 97/98 se non tramite interviste. Byron Russell e Karl Malone non hanno voluto partecipare alla serie, forse proprio perché intuivano come sarebbero stati delineati, infatti Horace Grant e Jerry Krause fungono da “cattivi” più per risentimenti personali che per altro.
Il montaggio infarcito di flashback e fast forward, PERSONALMENTE (aka gusto soggettivo) non mi ha fatto impazzire, l’ho trovato uno spunto artistico buono, ma abbastanza abusato.
Detto ciò due parole contrarie, la serie mi è piaciuta (non sono schizzofrenico o almeno la persona che incontro allo specchio ogni giorno dice così), pezzo dopo pezzo regala la possibilita’ di costruirsi un proprio puzzle sui Bulls, Jordan, Jackson ecc. La produzione e’ notevolissima e le interviste sono quasi tutte di ottima fattura. Consiglierei la visione, senza però gridare al capolavoro supremo o alla serie imperdibile per antonomasia. Ben vengano prodotti cosi sullo sport, vintage o attuali, il pubblico ha fame di racconto sportivo qualitativamente alto e questa è la vittoria di The Last Dance, non svilire la narrazione (seppur dandole una angolazione scelta a tavolino da Jordan) per andare incontro alla grande platea: il settimo anello di His Airness.


Marco A. Munno

Per raccontare i fatti accaduti ci sono due modalità: la cronaca e il romanzo. A volte c’è bisogno dell’una, a volta dell’altro. Avere l’opportunità di scegliere la modalità preferita, nel racconto di un tempo passato, può produrre un mix che non sempre riuscirà a soddisfare le pretese di tutte le tipologie di spettatori. E allora, nel parlare del binomio Bulls+Jordan in The Last Dance, ci si muove moltissimo nella prospettiva desiderata dallo stesso MJ (che d’altro canto contribuiva alla produzione e deteneva il diritto di veto sulla distribuzione delle immagini; in pratica, impossibile che gli si potesse dar troppo contro): tanto con i “nemici” Krause, Thomas, Drexler o Grant, quando con gli “amici” col meraviglioso Kerr esaltato oltre i meriti sportivi lasciando in ombra Kukoc, Harper e Longley. E allora, come mai alla fine l’abbiamo visto fino in fondo un pò tutti? Perchè quanto narrato nel documentario riguardo ad una delle compagini migliori di sempre, con l’esposizione di alcuni aneddoti e la sapiente miscela di immagini e musica, è all’altezza della gloria di quella mitica squadra.

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