Dopo un lungo tira e molla, è successo. Dal 31 gennaio il Regno si è separato ufficialmente e definitivamente (per quanto, chissà) dall’Unione Europea, realizzando finalmente “Brexit”.
Il video dei due inservienti del parlamento europeo che ammainano e scrupolosamente ripiegano la Union Jack scatena la miope curiosità tipica degli eventi di portata storica che accadono davanti ai nostri occhi.
È davvero finita, dopo anni di scetticismo, campagna, referendum, polemiche, scandali digitali, proposte di nuovi referendum, ritardi e rinvii che ormai parevano una simpatica usanza folkloristica.
La realizzazione di Brexit è un passo decisivo in direzione della vittoria dell’euroscetticismo su scala continentale. Come in una lunga e logorante gara di tiro alla fune, la squadra che tira per la disgregazione assesta un colpo significativo e fa vacillare la parte opposta. Lo fa rinfacciando all’Europa immobilismo, burocrazia, sottrazione del potere nazionale. Lo fa indicando una strada per la salvezza dei popoli composta, nonostante gli avvertimenti della storia, da stati forti aventi il titolo di decidere ciò che è meglio per loro.
Era il 1973 e il Regno Unito aveva finalmente completato la procedura di ammissione, insieme a Danimarca e Repubblica d’Irlanda (la Norvegia aveva ritirato la candidatura, sempre in seguito a referendum), all’interno della Comunità Economica Europea, dopo il rifiuto di 12 anni prima orchestrato dal presidente francese Charles De Gaulle, spaventato che l’ingresso inglese potesse aumentare l’influenza americana in Europa.
Per celebrare un evento lungamente atteso, il governo britannico organizzò a gennaio la “Fanfara per l’Europa”, due settimane di eventi culturali all’inizio dell’anno per festeggiare l’avvenuto matrimonio, tra cui fuochi d’artificio sul Tamigi e un gala di balletto alla Royal Opera House a cui partecipò, da spettatrice, anche la Regina Elisabetta II.
Culmine della manifestazione fu una partita di calcio, da giocarsi nella prestigiosa cornice di Wembley.
Lo scopo era quello di portare sul terreno di gioco il meglio degli atleti del continente, approfittando della sosta invernale dei campionati nazionali più importanti. Da una parte schierati i nuovi entranti – i Tre, appunto – dall’altra i Sei, rappresentanti degli stati già membri del mercato comune: Italia, Francia, Paesi Bassi, Lussemburgo, Belgio, Germania Ovest. Ogni selezione poteva scegliere delle all-star di giocatori provenienti dalle nazioni che la componevano.
Il sei e il tre, quindi, si accompagnavano di nuovo a Wembely. Una coppia da far venire i brividi a quelle latitudini: chissà in quanti dei 37mila spettatori che riempirono per metà lo stadio nel ’73 c’erano anche vent’anni prima, quando il tre e il sei descrivevano invece il risultato finale di Inghilterra-Ungheria, forse la più grande umiliazione mai ricevuta dalla nazionale dei tre leoni sul suolo amico, conquistato dalle gesta di Puskas ed Hidegkuti.
Il giorno che costrinse anche il più ottuso dei commentatori inglesi ad accorgersi che il mito dell’innata superiorità calcistica sul continente, era da derubricare a favola. Una batosta che spinse le squadre britanniche ad aggiornare profondamente il proprio modo di intendere il football. Quella sconfitta rappresentò un peccato originale che avrebbe trovato comunione soltanto tredici anni dopo, quando Wembley festeggiò il tanto atteso primo titolo mondiale dell’Inghilterra grazie alla vittoria della selezione di Alf Ramsey (che era in campo in quella partita del ’53, segnando su rigore la terza rete inglese) sulla Germania Ovest di Helmut Schön, esattamente nel 1966.
Coincidenza: saranno proprio quei due a sedere sulle panchine dei Tre e dei Sei, con la responsabilità di diramare convocazioni da stropicciarsi gli occhi. Schön si mise d’impegno: dall’Italia chiamò Dino Zoff e Gigi Riva. Dai Paesi Bassi Neeskens e Cruyff, già stelle dell’Ajax e della propria nazionale. Dalla Germania – che cui un anno dopo avrebbe vinto il Mondiale proprio contro gli Oranje – Schöne attinse a piene mani, convocando Beckenbauer, Breitner, Berti Vogts (motore del grande Borussia Monchengladbach dei ’70) e Gerd Müller, nonché il capitano della selezione Günter Netzer, che di lì a qualche mese avrebbe lasciato il ‘Gladbach per approdare al Real Madrid. Dalla Francia c’era Marius Trésor, forte centrale del Marsiglia; dal Belgio il goleador dell’Anderlecht van Himst; dal Lussemburgo – per non farsi mancare niente – Louis Pilot, ancora oggi il più grande giocatore della storia del granducato.
Era tutto troppo bello per essere vero, cosicché alla fine Riva, Cruyff, Breitner e Pilot non si videro in campo, mentre Zoff subentrò soltanto nella ripresa al belga Christian Piot – ma restava un undici di grandissimo livello. I Tre non erano da meno: In campo Alan Ball, Bobby Moore e Bobby Charlton erano fra i titolari della finale del ’66, ma c’erano anche il danese Henning Jensen (anch’egli allora al Monchengladbach, poi nella sua carriera Real Madrid e Ajax), l’irlandese Johnny Giles (pilastro del Leeds) ed il portiere nordirlandese Pat Jennings (celebre per aver segnato un gol dalla propria porta nella Community Shield del ’67).
Una parata di stelle forse mai viste tutte insieme su un campo di calcio.
“Three vs Six”, la partita del 3 gennaio del 1973, in verità, rispettò le attese solo a metà: i Sei sembravano decisamente meno motivati della controparte, anche stimolata dal giocare sostanzialmente in casa. Essendo il blu europeo ancora al di là dal venire, la selezione di Schön si presentò con un completo rosso, contrapposto a quello bianco di Charlton e compagni. Fu proprio la selezione di Ramsey che impose il proprio gioco sin da subito, senza però riuscire a sfondare. Qualche occasione ci fu, come raccontano le immagini dell’epoca, ma l’inglese Peter Lorimer fu troppo frettoloso nel calciare d’esterno su una palla ribattuta in area, dando il tempo al riflesso di Piot di arrivare sul pallone. I Sei ci provarono soprattutto in contropiede, con le folate del transalpino Bereta (cinque volte campione di Francia con il St. Etienne) sulla fascia sinistra, e sui calci da fermo: ci andò vicinissimo Netzer, trovando il palo su una punizione dal limite.
I Tre la sbloccarono nel secondo tempo prima con un’angelica torsione volante di Jensen su un morbido traversone corto di Sir Bobby Charlton, poi con un sponda perfetta di Ball per l’accorrente Colin Stein, su cross di un altro Colin, Bell. Tra i due gol anche il palo di Lorimer da fuori e il rischioso colpo di testa dello stesso Bell, che in ripiegamento colpì la propria traversa.
Come lo spettacolo, anche il sentimento di comunione europeo fu meno intenso del previsto e quasi tutto raccolto nel messaggio del primo ministro conservatore britannico Edward Heath, che recitava: “La partita di questa sera è unica nell’abbracciare l’insieme di questa larga comunità, e siamo grati che i nostri amici europei possano farne parte. Sono sicuro che, insieme a noi, guarderanno a questa sera come una pietra miliare della storia del calcio europeo”.
La portata storica dell’evento era condivisa anche con i cronisti dell’epoca, che forse sopravvalutarono l’impatto che quell’incontro di inizio gennaio a Wembley avrebbe avuto nell’immaginario futuro.
Anche i protagonisti in campo, soprattutto i britannici, lasciavano trasparire scarso fervore europeo, remoto presagio forse di quello che sarebbe successo 44 anni dopo. Alan Ball ne fece una questione personale, sperando solamente che il mercato comune potesse rendere “più economiche le vacanze estive della mia famiglia”.
Pat Jennings non ci provò neanche, definendosi “non molto interessato nella cosa”. Neppure Alf Ramsey si sbottonò, sviando un palese scetticismo nell’incontestabile: “Ogni occasione di giocare a Wembley è da festeggiare”.
Forse i germi del futuro erano tutti lì. Come spesso accade, non si era semplicemente riusciti a leggerli in tempo.
Articolo a cura di Nikhil Jha

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