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La fine di un'era: l'addio di Vettel alla Rossa - Crampi Sportivi

La fine di un’era: l’addio di Vettel alla Rossa

Era nell’aria, eh. Non era un segreto, ma le tempistiche hanno sorpreso molti. Andrew Benson aveva anticipato il tutto – con un tweet già nella notte tra l’11 e il 12 maggio scorso –, ma l’annuncio ufficiale della Ferrari ha completato il quadro: Sebastian Vettel e la Ferrari hanno deciso di separarsi alla fine del 2020, mentre Carlos Sainz lo sostituirà a Maranello.

In una stagione già segnata dall’interruzione per il COVID-19, la notizia ha spezzato mesi di silenzio sulla F1. Il mercato non aveva regalato spunti, anche perché molte operazioni per la stagione successiva si definiscono da luglio in poi. Con la pausa forzata, in Ferrari hanno agito in anticipo. Le trattative per il rinnovo si sono fermate non tanto per le pretese economiche di Vettel, ma soprattutto per la decisione della Ferrari di non offrirgli più di un annuale.

Una pretesa inaccettabile per Seb, che ha mollato il tavolo delle trattative. Ben più dei soldi, credo che per Vettel sia una questione di legacy. Da quattro volte campione del Mondo, l’ex Red Bull era arrivato in Ferrari per emulare il percorso del suo idolo, Michael Schumacher. Il sogno di riportare la Rossa a un titolo Mondiale era la priorità: un’impresa che l’avrebbe messo sulla mappa della Formula 1 per sempre, forse anche più di prima.

Nel 2013, in uno dei miei primi pezzi per Crampi, scrissi questo sul quarto titolo Mondiale di Vettel: “Resta da capire sempre che cosa ci lascerà Sebastian Vettel: alfiere di una macchina invincibile o campione assoluto, a prescindere dal mezzo? La verità è che lo sapremo solo tra qualche anno”. Sei anni e mezzo più tardi, le premesse sono rimaste tali. E per ora, non sembrano esserci motivi che spingano a pensare il contrario nel 2020.

Rosso relativo

Eppure, le premesse erano state di livello altissimo. L’arrivo di Vettel era legato a un altro divorzio eccellente, quello di Fernando Alonso con la Ferrari. Il rapporto tra le parti si era deteriorato a causa di due titoli sfiorati, della deriva tecnica della squadra e di un 2014 rivelatosi l’anno più difficile con la Rossa. La Ferrari non sembrava essere in ripresa, così Alonso si prese un remunerativo rischio firmando per la McLaren, orfana dei motori Mercedes e legatasi alla Honda.

Le scelte sbagliate possono influenzare una legacy e questo punto è particolarmente importante. Un pilota può (e credo debba) ogni tanto fare una scommessa se vuole lasciare un segno. Può andar bene, come quando Hamilton scelse la Mercedes nel 2012, quando la McLaren era la miglior macchina del gruppo (ma non la più affidabile). Può andar male, come ad Alonso con la McLaren o come a Ricciardo con la Renault.

Vettel rientra nella seconda categoria, sebbene vadano aggiunti diversi asterischi. Il primo: il tedesco doveva lasciare la Red Bull. Nel 2014, Daniel Ricciardo l’aveva di fatto esautorato, riuscendo a metterlo sotto in diverse occasioni. Il secondo: la Ferrari presenta un’attrattiva innegabile. Il terzo e più importante: in termini di eredità in F1, vincere con la Ferrari e portarla al titolo dall’inferno in cui era finita sarebbe stato galattico.

Vettel stesso non si era nascosto: “Per me guidare questa macchina è un sogno che si realizza. La Ferrari ha un’enorme tradizione, ci metterò anima e cuore affinché possiamo vincere un titolo”. L’annus horribilis di Vettel e il terribile 2014 per la Ferrari avevano permesso ai tifosi di digerire il salto (non dimentichiamo l’accesa rivalità ai tempi del duo Vettel-Red Bull) e i primi passi erano stati incoraggianti. Alla prima gara in Australia, Vettel sale sul podio e si rende protagonista di un bel siparietto con Rosberg.

Poi arriva la Malesia. È la tempesta perfetta: il numero 5 sfiora la pole e poi si assicura la vittoria in un torrido pomeriggio nel Sud-Est asiatico. La gioia è incontenibile e quel team radio – “Mi senti, mi senti? Grazie ragazzi, Ferrari is back!” – di fatto sancisce l’inizio della storia d’amore tra i tifosi e il tedesco. Non ci poteva essere un battesimo migliore, nonostante sia chiaro che la Mercedes sia di gran lunga la macchina migliore.

Forse per questo, nei primi due anni poco importa che la Ferrari non sia vicina al titolo. Specie nella prima stagione, c’è il paragone con Schumacher: come lui nel ’96 – passando dalla Benetton alla Ferrari –, Vettel arriva terzo in campionato e vince la sua prima gara con la Rossa a 27 anni. Al successo di Sepang, seguono altre due vittorie – in Ungheria e a Singapore – che cementano la posizione del pilota nel team.

Sotto la gestione di Maurizio Arrivabene e con un Räikkönen mai in grado di impensierirlo, Vettel diventa il perno del rinascimento, sul quale c’è la concordia assoluta di tutta la gestione sportiva, nonché il plauso dei media e degli stessi avversari. L’amore tra la Rossa e Vettel è ormai di pubblico dominio, complice la sua personalità quasi mediterranea, tutt’altro che restio nel mostrare il suo lato simpatico all’audience della F1.

Dopo la risalita, ora c’è la caccia al titolo. Quel titolo che la gestione sportiva si aspetta di conquistare a breve, visto che il manico c’è e la macchina sembra notevolmente migliorata dopo un passaggio a vuoto nel 2016 (nessuna vittoria). Quello che però la Ferrari non si aspetta è che due chance clamorose vengano sprecate per riconquistare l’alloro Mondiale.

Un amore in sviluppo

Ci si accorge che il 2017 potrebbe essere l’anno buono in Australia, dove Vettel vince la gara e setta il passo nella prima parte di stagione. Con tre vittorie e tre podi nei primi sei GP, Vettel si costruisce un vantaggio di 25 punti sul rivale principale, Lewis Hamilton. Alla pausa estiva, il tedesco è in testa al campionato, nonostante una sola vittoria nelle cinque gare successive (a Budapest). Tuttavia, si cominciano a vedere i primi segnali di impazienza di chi non sembra abituato a conquistarsi il titolo da dietro.

Il teatro è Baku, dove nel post-gara tutto verte sul contatto Hamilton-Vettel: durante il regime di Safety Car, l’inglese viene accusato dal rivale di averlo frenato, sebbene la telemetria mostrerà che nulla di tutto questo sia avvenuto. Il contatto però genera uno Stop & Go di 10 secondi che costerà a Vettel il podio: è il segnale che il confronto tra i due sia entrato nel vivo, ma anche che il tedesco non sia completamente in controllo.

La vittoria in Ungheria porta Vettel alla pausa estiva con un +14 su Hamilton. E nonostante il successo sofferto dell’inglese a Spa, c’è fiducia a Maranello (Vettel rinnova fino a fine 2020)… fino a che non arriva il trittico asiatico. Settembre è il mese che di fatto chiude le speranze della Ferrari di riportare il titolo in Italia. L’antipasto a Monza, dove la Mercedes registra una doppietta senza sforzi, con Vettel a 35 secondi da Hamilton.

A Singapore arriva il patatrac principale: il tedesco è in pole, ma le partenze di Verstappen (secondo) e Räikkönen (quarto) sono migliori. Il pilota della Red Bull prova a uscirne vincitore, ma la tenaglia rossa costringe tutti al ritiro. Un disastro totale, che diventa catastrofe nei due GP successivi.

In Malesia, i motori Ferrari giocano un brutto scherzo e Vettel deve partire dal fondo, chiudendo quarto. A Suzuka, invece, un altro problema al motore costringe il tedesco al ritiro; Hamilton ha accumulato un vantaggio siderale e festeggia il titolo in Messico. Tuttavia, alcuni episodi proseguono. Proprio in Messico, la partenza di Vettel è da rivedere: tocca prima Verstappen e poi Hamilton. Segnali di nervosismo, disattenzioni innaturali.

I segnali di una resa

Con l’attesa derivante da quanto successo l’anno precedente, il 2018 vede le stesse condizioni per la battaglia tra i due: Vettel contro Hamilton, Ferrari contro Mercedes. È la prima volta che due piloti con quattro titoli in bacheca si presentano ai nastri di partenza di una stagione di Formula 1.

Con quattro pole e tre vittorie nelle prime sette corse (esemplare il successo in Bahrain), Vettel si è messo in una posizione simile a quella del 2017. Certo, alcuni episodi continuano ad accadere – per esempio, a Baku arriva quarto a causa di una ripartenza errata, che gli spiattella le gomme e gli impedisce di centrare il podio –, ma Vettel si presenta a Paul Ricard con un punto di vantaggio su Hamilton e pienamente in corsa.

Come l’anno prima, però, succede qualcosa. E stavolta la macchina non tradisce il tedesco, bensì avviene il contrario. Nella partenza concitata del GP di Francia, Vettel centra Bottas in maniera gratuita e si costringe a una rincorsa faticosa, chiusa al quinto posto. La fortuna vuole che la Mercedes non sia più affidabile come prima; Vettel vince anche a Silverstone e si mostra sicuro come non mai.

Si arriva così a Hockenheim, dove si consuma l’episodio che credo abbia definito il corso di questa storia. Dopo l’ennesima pole e in testa per buona parte della gara, il tedesco cade dove meno te l’aspetti. Sotto una pioggia costante e minacciosa, Vettel perde il controllo della sua monoposto alla Sachs ed esce dalla gara, in maniera lenta e solitaria.

In Ferrari non lo sanno ancora, ma di fatto è la resa. Hamilton non solo vince in Germania, ma l’inglese trionfa in sei dei nove GP dopo la pausa estiva. Come l’anno precedente, il pilota della Mercedes suggella il suo trionfo in anticipo, in Messico e senza salire sul podio, conquistando il quinto titolo in carriera. In questo scenario, Vettel perdeva ben più dei preziosi punti in queste corse.

A Monza, il tedesco tenta un sorpasso azzardato su Hamilton alla Variante della Roggia: il risultato è una collisione forzata che lo fa girare e lo costringe a una lunga rimonta, chiusa al quarto posto. I segni del disagio del pilota si sono visti anche negli scontri con Verstappen a Suzuka e con Ricciardo ad Austin. È sembrato così che il 2018 fosse una chance irripetibile. La Mercedes ha dominato la F1 dal 2014, forse il miglior team di sempre: sprecare due match-point del genere non è qualcosa che rimanga impunito.

Cronache di un addio

Il 2019 è stato solo l’anno in cui la crisi si è manifestata in tutto il suo essere. La Ferrari ha ingaggiato Charles Leclerc, campione GP2 nel 2017 e autore di un’ottima stagione con l’Alfa Romeo l’anno successivo. Chi ha visto il valore del pilota monegasco sapeva che avrebbe potuto complicare la vita a Vettel, specie dopo un’annata come il 2018. E i numeri parlano chiaro: il 2019 è stato paragonabile al 2014 per il tedesco.

Non disastroso come quell’anno – almeno a Singapore ha strappato una vittoria, a cui si aggiungono due pole –, ma di fatto Vettel non è mai stato in corsa per il Mondiale. La Mercedes ha messo in chiaro le cose fin da subito, centrando cinque doppiette nelle prime cinque gare. Soprattutto Leclerc ha dimostrato di essere il futuro per la Ferrari, tanto da strappare un allungamento del già lungo contratto fino al 2024.

Il monegasco ha avuto un esordio soft, ma avrebbe potuto vincere un GP già alla sua seconda gara di sempre in Ferrari: dopo aver centrato la pole in Bahrain, un problema al motore l’ha tradito, costringendolo al terzo posto. Leclerc ha vinto solo due GP, ma ha trionfato a Spa e Monza, conquistando sette pole e il terzo posto nel Mondiale.

Potremmo citare altri numeri, ma il punto più importante per Leclerc è stata la capacità di evolvere dentro lo stesso anno. La Ferrari impone ordini di scuderia per favorire la corsa di Vettel al Mondiale? Leclerc ha reagito e nel finale di stagione si è mostrato anche scontento, pur non tradendo il team. Verstappen gli scuce la vittoria in Austria con una manovra al limite? Lui risponde per le rime in Inghilterra, tirando fuori una gara pazzesca.

E Vettel? Proprio a Monza forse è germogliato il seme dell’addio, dopo lo spernoamento gratuito di Verstappen a Silverstone e il siparietto post-gara a Montréal. L’errore all’Ascari l’ha messo in difficoltà e persino la stessa vittoria di Singapore non aveva il sapore di sempre. Il conflitto è esploso del tutto in Brasile, dopo il tedesco ha la colpa maggiore nella collisione che poi ha portato al ritiro di entrambi i piloti della Rossa a Interlagos.

Mi ha colpito questo passaggio nell’annuncio dell’addio da parte di Vettel: “Per ottenere risultati, è fondamentale che si lavori in armonia. Abbiamo capito che non c’è il desiderio di proseguire assieme. […] Quello che è successo negli ultimi mesi ha spinto molti di noi a riflettere su quali siano le priorità nella propria vita. Devo riflettere su quello che è veramente importante nel mio futuro”.

Non so voi, ma io ci leggo “ritiro” a caratteri cubitali in questo passaggio per tre motivi. Il primo è la considerazione sportiva che Vettel ha di sé: non credo si veda come un pilota di centro-classifica, né pensi che non possa più combattere per un titolo. Anzi, forse proprio nella visione della Ferrari – con Leclerc punta di diamante – si è trovato lo scoglio per il rinnovo. Lo stesso scenario del 2014, quando la Red Bull puntò su Ricciardo.

La seconda è la realtà: le opzioni sul tavolo non sono tante. È difficile che la Mercedes riviva lo scenario già visto con Hamilton e Rosberg, promuovendo invece uno tra Ocon e Russell. E allora cosa ci sarebbe sul tavolo? La Renault, per annaspare a centro-gruppo? Non penso. La McLaren? Saltata con l’arrivo di Ricciardo. L’unica alternativa? Se Toto Wolff si spostasse in Aston Martin – dopo averne già acquistato delle quote –, uno tra Pérez e Stroll potrebbe esser sacrificato per l’arrivo di Vettel.

Altrimenti, il tedesco è pronto a dire addio e mi sembra lo scenario più probabile. Vettel non è Alonso, che lancia tweet misteriosi come a dire “guardate che torno”. Vettel non è Hamilton – di cui scrissi una volta: “In un certo senso, [LH] sembra poter davvero fare a meno di tutto questo, se solo potesse” –, divorato dal desiderio di sfracellare qualunque record a sua disposizione. Vettel è un personaggio diverso.

Molti l’hanno descritto come una persona disponibile, serena, che tiene i suoi affetti lontani. Non vive sui social, sebbene la sua persona fuori dalla pista ne abbia addolcito il profilo rispetto agli anni della Red Bull. La sconfitta l’ha reso più umano ai nostri occhi, ma ha soprattutto confermato che non ama circondarsi di eccessivi sfarzi.

Come scrisse proprio Benson in un pezzo del luglio 2019, in seguito a un’intervista con lo stesso Vettel, il tedesco non sembra esser preoccupato di cosa potrà accadere alla sua legacy: “Ci penso? Penso che tutti lo facciano, in una qualche maniera… ma anche se lo faccio, la domanda è quanto mi interessi. Se confronto [la mia legacy] con il resto e con quanto se ne possano preoccupare altri, devo dire… non molto”.

Un ultimo dettaglio: credo che il mondo verso cui stia andando la Formula 1 non sia quello che a Vettel interessi. Nella stessa intervista, il tedesco disse: “Mi piace la parte motoristica [di questo mondo]: stare sulla griglia, vedere la gente emozionata ai GP, correre. Quello è fantastico e voglio vincere con la Ferrari: questo determinerà il mio futuro, anche in base dove andrà questo sport”.

Questo mondo non sembra piacergli più, né appartenergli. Le nuove figure della Formula 1 sono come Verstappen, Leclerc, Albon, Russell o Norris, che si sono prestati al mondo del gaming online durante questa pausa. Il contrario di Vettel o dello stesso Hamilton, che sembrano essere più lontani da questo tipo di sviluppo del circus.

La sintesi, alla fine, mi sembra semplice: non c’è una macchina alla mia altezza? Allora me ne vado. Penso che la linea di Vettel sia questa. E penso che quindi siamo di fronte a un possibile ritiro al 90% delle possibilità. Rimane un anno da correre, quel 2020 che fa preoccupare la Ferrari già dai test di Barcellona. Che sia da pensare un lungo farewell tour per il tedesco? Non è da escluderlo, purché sia sempre una sua decisione.

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