Starting from the bottom now we’re here.
Questo il refrain, rimbalzato da più parti, utilizzato per la descrizione della vittoria del titolo NBA da parte dei Toronto Raptors.
Sebbene sin troppo abusata, non c’è definizione più calzante per sintetizzare un successo non pronosticato, frutto di svariate congiunture ma che sono state perfettamente sfruttate da un’organizzazione solida, dalla programmazione ben strutturata in tutte le sue componenti, in campo e fuori.
E’ il successo di una squadra dall’anima multiculturale, con le differenze nelle origini fra lo spagnolo Gasol, il congolese/spagnolo Ibaka, il canadese Boucher, il nigeriano/britannico Anunoby, il taiwanese/statunitense Lin, il camerunense Siakam, l’italiano Scariolo, il congolese/belga Mutombo e il nigeriano Ujiri a creare insieme agli altri statunitensi un arricchito amalgama invece di laceranti divisioni.
E’ la vittoria di una città che, dal primo Damon Stoudemire passando per Vince Carter e Chris Bosh, ha eretto ad idoli giocatori più o meno talentuosi e puntualmente fallire nel toccare le vette auspicate, senza mai far mancare il proprio entusiasmo.
E’ il trionfo della coppia Masai Ujiri – Nick Nurse: il primo ad assemblare un roster seguendo la logica estrema della vittoria now or never, il secondo a condurre il gruppo al successo esaltando le qualità nascoste di vari ragazzi, molti sino a quel momento dalla carriera con un senso di incompiuto.
Un pot-pourri di storie particolari che andiamo a vedere, ora che i protagonisti hanno conquistato per sempre il cuore di una città fredda nel clima ma calorosa nella passione, adesso festante davanti agli occhi dei suoi eroi.

Danny Green (di Roberto Gennari)
C’è stato un momento esatto in cui per me i Toronto Raptors sono diventati una contender, e quel momento esatto è la double block di Green e Leonard su Jayson Tatum in una delle giocate più iconiche dell’intera stagione. Era la gara numero 2 della stagione regolare ma in un certo senso rappresentava già uno statement game. È stato esattamente lì, proprio per quella giocata, con Tatum già pressoché convinto di accorciare da -8 a -6 con poco più di un minuto da giocare.
E invece Danny Green, sempre poco celebrato per la sua “attitudine” in campo, spesso oscurata da quell’altro che era suo compagno di squadra a San Antonio ed è ancora suo compagno a Toronto, aveva un’idea diversa su come doveva andare a finire quell’azione, quella partita, quella stagione. Così si avventa su quel pallone, e quando Kawhi Leonard arriva a stopparlo, ci ha già pensato lui.
A un certo punto della sua vita, Danny Green dubitava persino di poterla avere, una carriera in NBA. Fino a quegli 83 minuti giocati in maglia Spurs tra marzo e aprile 2011. Pochi tiri ma ben presi (.500 FG%, meno di una palla persa a partita), tanta difesa, i marchi di fabbrica di Danny Green da lì in poi. Sempre in sordina, nonostante stiamo parlando del secondo tiratore della NBA da oltre l’arco per percentuale (.455%), dato perfino migliorato nelle prime tre partite delle Finals, dove ha messo insieme un ragguardevole 11-22 da tre punti.
Se la bellezza del titolo di Toronto è stata in parte oscurata dai troppi infortuni occorsi ai Warriors, l’attitudine difensiva di Danny Green è stato un faro acceso a illuminare la notte, far ballare la gente.
Serge Ibaka (di Gianluca Viscogliosi)
Era l’enigma più importante da sciogliere: la convivenza con Gasol, soprattutto nei momenti critici dei playoff prima e delle Finals poi. Nurse ha suturato la ferita che poteva crearsi, scegliendoli e alternandoli a seconda di situazioni e avversari. E non è un caso se il congolese di nazionalità spagnola ha fatto registrare la minor media di minuti giocati nei PO in carriera (20.8). Più qualità nei momenti decisivi soprattutto su due fondamentali, rimbalzo e punti da seconda opportunità. Protagonista nel primo turno contro Orlando, poi messo in naftalina da Nurse causa small-ball aggressivo di 76ers – eccezion fatta per Embiid – e Bucks. Le sue mani fondamentali soprattutto in Gara 3 – più alta percentuale di tiri dal campo negati nel match – quella della verità, quella del segnale forte dopo la brutta sconfitta alla ScotiabankArena. Inoltre 6 stoppate totali, quattro di squadra nell’ultimo quarto.
Da Gara 4 in poi l’esplosione vera a livello realizzativo, 16 di media e Warriors a casa. Riapparso, Carneade, quando c’era da infierire su Golden State orfana dei chili e dei centimetri di Looney.
Air Congo ha finalmente preso il volo.
Pascal Siakam (di Sebastiano Bucci)
Quando Tchamo Siakam scompare tragicamente in un incidente automobilistico nell’ottobre del 2014 lascia la volontà espressa più o meno chiaramente che uno dei suoi sei figli sfondi, segua la sua passione e diventi un giocatore professionista.
Chissà cosa ha pensato nel vedere Pascal demolire qualsiasi velleità dei Gsw; se da una parte Leonard è stato il giusto MVP della sfida, il grimaldello che ha spostato più in fase globale è questo ragazzone dinoccolato che se non fosse stato per Mbah a Moute forse non sarebbe mai uscito dai confini polverosi del suo Camerun.
Alternando prestazioni eccellenti a altre più opache, è emerso come Siakam sia nel pieno di un processo di crescita evidente che durante i playoff lo ha portato ad avere il quarto miglior coefficiente per Plus/minus dietro a mostri sacri come Curry, Durant, Antetokounmpo. Ma tutto il peso e la stazza del camerunense son usciti sotto la luce del sole quando in fase difensiva è stato spostato su Green, che ha sofferto terribilmente il suo essere naturalmente sotto taglia. Contro Siakam, nelle situazioni di isolamento i punti prodotti dal diretto avversario su singolo possesso sono crollati fino a 0.35 nei playoff, dopo il già rimarchevole 0.80 rilevato al termine della regular season.
Da qualche parte Tchamo guarda suo figlio, che porta ancora il suo nome sulle scarpe e si immagina i chilometri spesi senza garanzie, la fatica e le lotte nelle stringhe allacciate: siamo sicuri che sorrida.
Marc Gasol (di Gianluca Viscogliosi)
Era l’enigma più importante da sciogliere: la convivenza con Ibaka, soprattutto nei momenti critici dei playoff prima e delle Finals poi. No, non siete finiti in un wormhole temporale, ma ‘that’s the game’. E noi, il ‘game’, lo interpretiamo così! L’uomo venuto da Memphis – ganiale follia di Ujiri in sede di trade – ha spesso sonnecchiato per tutta la post season, salendo di giri però quando contava, entrando di più nei giochi offensivi e prendendosi responsabilità importanti specialmente con il tiro da 3.
Prima la finale contro Milwaukee, poi l’ultimo atto contro Golden State. Un professore, soprattutto nelle interpretazioni difensive, nei raddoppi su Curry e nell’accettare qualche mismatch al limite. La mano neanche a dirlo, fatata dal mid range, spettacolosa a tratti dalla lunga distanza: lo certificano il 31% da 3 in tutta la serie finale, l’invidabile 90% abbondante ai liberi e il ventello confezionato in Gara 1. Un lusso per tutti, specialmente per chi punta all’anello.
Il carisma del torero, l’energia del veterano, da vedere e rivedere in loop le esultanze a ogni pallone toccato o semplicemnte sporcato nei già citati raddoppi su Curry con VanVleet.
Non più fratello di Pau, ma Marc Gasol. Finalmente solo Marc.
La sua vittoria più grande.
Kyle Lowry (di Marco A. Munno)
Steph Curry e Klay Thompson. Erano i due Warriors quelli da superare nella corsa alla simbolica palma di miglior backcourt della Lega, quella di cui Kyle Lowry nel corso dei tanti anni di inseguimento avrebbe voluto fregiarsi affiancato dall’amico DeMar DeRozan.
Non era però dello stesso avviso Masai Ujiri: nel premere l’acceleratore verso la rincorsa al titolo, il sacrificato per arrivare a Kawhi Leonard è stato proprio DeMar.
Kyle ha incassato il colpo, deluso progressivamente dall’allontanamento del compagno di merende, dal ruolo ridotto all’interno dell’attacco della squadra e dalle consuete critiche dopo il solito inizio stentato ai playoffs dei Raptors, con la sottile idea che forse il problema del duo nel corso delle varie stagioni in Canada fosse invece lui.
La reazione però è stata abbacinante, nel corso dell’intera postseason: dall’inizio con una gara dai desolanti 0 punti alla fine con 26, con annessa palma del miglior realizzatore nella gara che ha consegnato alla storia la prima affermazione in assoluto del team di Toronto.
DeMar died for a reason
Kawhi Leonard (di Roberto Gennari)
Kawhi riceve la rimessa di Marc Gasol in punta con 4.2 secondi sul cronometro, col punteggio sul 90 pari in una serie sul 3-3. Palleggia verso l’angolo, Embiid lo segue e lo costringe a tirare fuori equilibrio. Quando la palla lascia i polpastrelli del numero 2 dei Raptors manca circa mezzo secondo alla sirena. Il tabellone si illumina mentre la palla danza sul ferro una, due, tre, quattro volte. La bellissima istantanea di Rick Madonik del Toronto Star ci mostra Kawhi Leonard accovacciato, Joel Embiid al suo fianco, l’ex Hapoel Eilat Jordan Loyd in abito nero e scarpe da basket con le braccia larghe, tutti con il fiato sospeso. A shot for the ages, viene da dire, con un gioco di parole difficilmente traducibile dove “shot” viene a significare sia “tiro” che “scatto fotografico”. Dopo il quarto rimbalzo sul ferro, la palla scivola morbidamente dentro la retina.
Il 12 maggio 2019, per la prima volta nella storia della NBA, una gara-7 di playoff viene decisa da un buzzer beater. Quello di Kawhi Leonard. Fino a quel momento era 15-38 dal campo. Quel canestro lo affranca da tutto quello che era stato prima. Non più solo Kawhi, sempre più KaWow.
E bisognerà aspettare solo qualche settimana prima che il suo nome entri in quel club esclusivo di cui facevano parte solo LeBron James e Kareem Abdul-Jabbar, quello dei giocatori capaci di portarsi a casa il Bill Russell Award con due squadre diverse.
Mica male, per uno che nel 2011 veniva dopo Derrick Williams (ora al Bayern Monaco), Jimmer Fredette, Alec Burks e i gemelli Morris.
Fred VanVleet (di Marco A. Munno)
“Potete sentirmi tutti? Bene. Allora, avevo l’opportunità di essere scelto al draft, ma mi parlavano di essere piazzato in D-League per 2/3 anni, sgobbare per ventimila all’anno, diecimila all’anno.
Ho rifiutato, scommetto su me stesso.
E’ stato un lungo processo, ad ora voglio solo celebrare l’intero percorso, tutto quello che ho passato, il travaglio, 18 città in circa 30 giorni. Sono orgoglioso di me stesso per questo. Ovviamente il sogno di ogni ragazzo mentre cresce è quello di essere scelto, chiunque vuole essere selezionato ma alla fine conta portare a casa soldi. Naturalmente sono deluso ma voglio solamente ringraziare tutti voi per essere venuti, sicuramente si berrà molto stanotte.
Godetevi questo percorso, di nuovo grazie a tutti per essere presenti. La mia stora non finisce qui, questo è solo l’inizio. Davvero non avrebbe avuto senso se fossi stato scelto per il tipo di storia che ho alle spalle. Per tutta la vita ho avuto contro ogni pronostico, non finirà tutto ora.”
Così diceva Fred, davanti agli amici radunati nella sera in cui l’occasione per cui erano invitati non si concretizzò e non venne selezionato al draft. A distanza di tre estati, davanti a platee ben più ampie, le più grandi possibili in ambito cestistico, ha dimostrato come avesse ragione nello scommettere su sè stesso, sublimando la sua posizione da eterno underdog nel corso della serie valida per la conquista dell’anello NBA.
Unico diverso da Kawhi Leonard a ricevere un voto quale MVP delle Finali, quel cicciottello un pò troppo basso per gli standard della Lega ha affossato niente di meno che gli imbattibili Warriors con una sequela di triple dall’epicità di un destino già scritto. Quello di uno che ha vinto la scommessa su sè stesso.
Fred Van Fleet – the night he went undrafted in the 2016 NBA Draft
— Jaycob Ammerman (@Jammer2233) 9 giugno 2019
“My story don’t end here, it’s just the beginning.
It wouldn’t really make sense for my story – if I did get picked.
I’ve been against the odds my whole life.
It’s not gone stop now‼️”
— @FredVanVleet 🏀 pic.twitter.com/UkUpGfNDBl
Jeremy Lin (di Sebastiano Bucci)
“In futuro, tutti saranno famosi per quindici minuti”.
Per quei due, tre che non la conoscessero la citazione l’autore è Andy Warhol, figlio di emigrati cecoslovacchi diventato probabilmente il più grande genio americano dello scorso secolo. E, come in una congiunzione astrale che fa del suo punto nevralgico proprio la città di New York, è proprio dalla Grande Mela che si sviluppa in un turbinio di flash e ribalta istantanea la carriera di un altro figlio di emigrati, stavolta taiwanesi.
Annata 2011-2012. A roster dopo una stagione passata tra pochi minuti ai Warriors e D-League c’è anche Jeremy Lin. E il suo mese di Febbraio esce fuori da qualsiasi tipo di considerazione e analisi tecnico-tattica perché è letteralmente un geyser senza controllo.
L’esordio in sordina avviene contro i Nets, dove D’Antoni lo getta dentro a dover fermare un Deron Williams forse nel suo prime cestistico: dalla panchina ne mette 25 e porta la W a casa. Dopo 28 e 23 nelle due seguenti sfide, il 10 febbraio Jeremy Lin esplode completamente.
Contro i Lakers di Kobe il 10 Febbraio 2012 la supernova culturale conosciuta come Linsanity tocca il suo apice: ne fa 38 con 7 assist.
I numeri che corrono riguardo al suo nome sono impressionanti: un autografo su Ebay arriva a costare 1500 dollari, su Weboo (il corrispettivo di Twitter in Cina) arriva a 800 mila follower, ne arriva a parlare persino mia madre, completamente digiuna per quanto riguarda palla a spicchi.
Poi, dopo la convocazione al Rise Up Challenge al posto di Norris Cole, la stella si spegne. Era superfluo ribadirlo, senza crudeltà e senza clamori: la Nba ha senza dubbio calcato la mano su una eredità monca, quella dell’infinito bacino di utenza asiatico, orfano di Yao Ming.
A febbraio firma per i Raptors, corti di rotazioni, dopo una vita di sacrifici istantanei e contratti minuscoli da Houston ad Atlanta, senza una destinazione certa in un limbo di “garbage time” che non sarà purgatorio ma non può certo soddisfare.
Toronto vince clamorosamente l’anello, Jeremy non entra praticamente mai: ma con il trofeo di Larry Ob sta bene anche lui, perché ha vinto sempre senza obiettivamente vincere mai.
E che si prolunghino allora quei famosi 15 minuti, perché le luci saranno anche per altri ma non per questo splendano di meno.


Lo sport raccontato dal divano, Zidane e Rodman a cena dal Professor Heidegger.